QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

GIUSEPPE SARAGAT

Di origine sarda, Saragat nacque a Torino il 19 settembre 1898. Si laureò nel 1919 in scienze economiche e commerciali. Nel 1922 aderì al Partito socialista unitario e alla fine del 1926 espatriò, stabilendosi prima a Vienna, poi a Parigi. Da quel momento la sua vita fu strettamente intrecciata con le vicende del movimento socialista: fu uno dei fautori della riunificazione del 1930, sostenne il patto di unità d’azione col PCI del 1934 fino agli accordi tedesco-sovietici dell’estate 1939. Rientrato in Italia dopo la caduta del fascismo, subì insieme con Sandro Pertini una breve detenzione a Regina Coeli e fu liberato da partigiani socialisti. In seguito fu ambasciatore a Parigi e presidente dell’Assemblea costituente, carica che lasciò dopo aver guidato nel gennaio 1947 la scissione di Palazzo Barberini che diede vita al PSLI, poi PSDI. Collaborò quindi con la DC e gli altri partiti di centro, divenendo un protagonista della vita politica del paese.

Più volte ministro, Saragat fu candidato una prima volta alla presidenza della repubblica nel 1962 e fu sconfitto da Segni. Nel 1964 Saragat riuscì ad imporsi dopo il ritiro di Leone e Fanfani. Intorno al suo nome si coagulò il consenso dei partiti di centrosinistra e del PCI, del quale richiese esplicitamente i voti. Egli si caratterizzò come il presidente del centrosinistra, nel senso che, specie dal luglio 1968, vincolò i mandati per la costituzione dei governi alla realizzazione di coalizioni di centrosinistra.

Attribuì grande importanza alla fedeltà atlantica, scontrandosi talvolta, come nella guerra dei sei giorni del 1967, con le posizioni ufficiali del governo. Dopo il 1971 ritornò alla vita politica e fu, in delicati momenti della vita del PSDI, eletto segretario, anche se complessivamente ebbe un ruolo di secondo piano. Morì a Roma nel 1988.

PIERO GOBETTI

Nato il 19 giugno del 1901, da una famiglia contadina trasferitasi nella Torino di fine Ottocento, Piero Gobetti nel novembre del 1918, ancora diciassettenne faceva uscire il primo numero di “Energie nove”, rivista che già nel titolo racchiudeva l’intento programmatico di partecipare con giovanile irruenza al processo di ricostruzione civile, politica e morale che la conclusione del conflitto imponeva.

Nell’aprile del 1919 Gaetano Salvemini propose al giovane torinese di assumere la direzione del suo giornale, “L’Unità”. Nel corso del 1920 si consolidò il sodalizio con Antonio Gramsci. Gobetti iniziava a frequentare la redazione dell’ “Ordine nuovo” e, nel gennaio del 1921, quando il giornale divenne quotidiano, si vide affidare la critica drammatica e alcune collaborazioni letterarie. Nel febbraio del 1922 nasceva “La Rivoluzione liberale”. L’ambizione di questa impresa editoriale era quella di por mano alla ‘preparazione degli spiriti liberi, capaci di aderire, fuori dei pregiudizi, nel momento risolutivo, all’iniziativa popolare’: protagoniste della rinascita civile italiana sarebbero state le avanguardie operaie accompagnate e guidate da una élite intransigente e preparata. Nel 1923, accanto alla rivista si sviluppò l’azione di una casa editrice.

Come sfida al regime i libri recavano impresso il motto “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Ripetutamente arrestato, Gobetti fu bersaglio di costanti attacchi da parte della stampa filofascista e subì frequenti aggressioni, la più grave delle quali, nel settembre del 1924, lo fiaccò irreparabilmente. Nonostante ciò, continuò la sua infaticabile azione di organizzatore culturale. Negli ultimi giorni del 1924 usciva “Il Baretti”, nuova rivista, alla quale collaborarono Benedetto Croce, Emilio Cecchi, Leone Ginzburg, Eugenio Montale, Umberto Saba, Natalino Sapegno. “Il Baretti” voleva proporsi come un luogo dove estendere alla sfera culturale quella lotta che nelle pagine della “Rivoluzione liberale” si svolgeva sul terreno della politica. Ma era ormai vicino il tempo dell’esilio.

L’8 febbraio 1926 lasciò Torino e la famiglia. Appena giunto a Parigi si ammalò per i postumi dell’ultima grave aggressione aggravandosi rapidamente fino a morire pochi dopo, il 16 febbraio.

 

1820: LA RIVOLUZIONE SICILIANA

La fine dell’autonomia siciliana, nel 1816, e le riforme del ministro Luigi de’ Medici avevano suscitato un forte malcontento in molti ambienti siciliani. Soprattutto a Palermo, città privata delle sue funzioni di capitale, una crescente ostilità contro il governo napoletano accomunava nobiltà, ceto civile, borghesia impiegatizia e le masse di artigiani e operai organizzati in settantadue “maestranze”. La rivolta scoppiata a Palermo il 15 luglio fu una grande sollevazione popolare spontanea, promossa e diretta dalle corporazioni operaie e solo in un secondo tempo appoggiata dalla nobiltà separatista. Nobiltà e borghesia della città dovettero piegarsi alla pressione popolare. La giunta provvisoria di governo di Palermo, composta da nove esponenti della nobiltà e nove della borghesia, fu costretta ad accettare le richieste delle corporazioni: indipendenza della Sicilia, Costituzione spagnola, abolizione del servizio di leva obbligatorio, potere di veto da parte delle maestranze su tutti gli atti della giunta, riduzione delle tasse, difesa dei privilegi corporativi. Solo Agrigento, fra le città siciliane, si unì tuttavia alle rivendicazioni palermitane e una vera guerra civile si scatenò nell’isola quando bande armate attaccarono e saccheggiarono Caltanissetta, rimasta fedele a Napoli. I moderati e i democratici napoletani, convinti che la rivolta nascesse da un complotto dei baroni di Palermo, furono questa volta uniti nella volontà di reprimere la sommossa siciliana. La dura repressione, condotta dal generale Florestano Pepe, segnò non solo un profondo indebolimento della rivoluzione costituzionalista nel suo complesso, ma contribuì non poco al rafforzamento dello spirito separatista nella Sicilia occidentale.

 

CINGHIALE

Sus scrofa
Famiglia: Suidi

Caratteristiche: Il maschio è più grande e pesante della femmina. Corporatura massiccia con grosso capo a forma di cuneo, pelame setoloso, d’inverno con fitta lanugine; colorazione da bruno-nera a color ocra, cuccioli con striature nel senso della lunghezza, orecchie dritte; nel maschio adulto lunghi canini visibili dall’esterno.

Diffusione: tutta l’Europa tranne la Scandinavia e l’Islanda (estinto nelle isole britanniche); Asia centrale e meridionale; Africa settentrionale; acclimatato nell’America del Nord e del Sud nonché in Australia.

Habitat: boschi di latifoglie e misti con prati e zone paludose, in montagna fino fino al limite della vegetazione arborea, al seguito degli insediamenti umani anche in territori rimboscati.

Abitudini: diurno e notturno; vive in gruppi familiari, maschi adulti solitari al di fuori del periodo di accoppiamento; sedi fisse; si voltola volentieri nel fango.

Alimentazione: onnivoro. Radici, tuberi, predilige ghiande e faggiole, prodotti agricoli, piante erbacee; vermi, insetti, uova di uccelli, roditori, carogne.

Riproduzione: gestazione 4-5 mesi; 4-6 (fino a 12) piccoli, che dopo una settimana abbandonano il luogo del parto, seguono la madre e vengono allattati per 3 mesi.

Il cinghiale compare in numerose sottospecie nei boschi dell’Europa e dell’Asia ed è stato introdotto anche in America come selvaggina di caccia. Le dimensioni ed il peso di questi animali aumentano sensibilmente passando dalle zone più calde a quelle più fredde secondo una regola valida per molte specie animali; un cinghiale dei Carpazi può diventare cinque volte più pesante di uno della Sardegna.

I cinghiali vivono per lo più in gruppi di 6-10 animali (branchi) composti da femmine e cuccioli di diversa età. I maschi adulti vagano solitari nel bosco per la maggior parte dell’anno e d’estate lasciano il loro giaciglio di solito solo al crepuscolo, per andare in cerca di cibo, e all’alba vi si ritirano di nuovo. D’inverno invece si muovono spesso di giorno e dormono nelle fredde ore notturne gli uni stretti agli altri in un avvallamento del terreno al riparo dal vento. Una fitta lanugine sotto le setole li progette dal freddo. Nella neve alta i cinghiali si muovono a fatica, perché, essendo molto pesanti, sprofondano ad ogni passo; in questo caso tutto il branco procede in fila indiana seguendo la stessa traccia.

Nel periodo d’accoppiamento, che dura da novembre fino all’inizio di febbraio, i maschi emanano un odore penetrante proveniente da una sostanza odorosa concentrata nel tessuto adiposo e nella saliva.

Con i lunghi canini possono procurarsi a vicenda ferite profonde durante i frequenti e violenti combattimenti per le femmine, che non di rado si concluderebbero con la morte di uno dei contendenti se gli animali non fossero protetti da un ispessimento sottocutaneo del tessuto connettivo sulle spalle e sul petto, che si sviluppa prima del periodo riproduttivo. Solo i maschi più forti si accoppiano con le femmine, che 4-5 mesi più tardi partoriscono i cuccioli in un vero e proprio nido foderato di muschio e rami.

Di solio i piccoli cinghiali sono 4-6, di meno se le femmine sono giovani, ma si verificano anche parti di 12 piccoli. Inizialmente i cuccioli hanno bisogno di molto calore e restano stretti gli uni agli altri nel nido quando la madre si allontana. A volte questa li copre addirittura con una parte del rivestimento del nido. Dopo 1 settimana circa i piccoli cinghiali seguono già la madre in cerca di cibo e in questo periodo la femmina è particolarmente aggressiva e difende i suoi piccoli da nemici e intrusi di ogni tipo, anche dall’uomo. In caso di pericolo i piccoli cinghiali si separano velocemente e rimangono immobili nella boscaglia fitta. Il loro manto a strisce ha in questo caso un ottimo effetto mimetico. Quando la prole ha 2-3 settimane, la madre si aggrega nuovamente al branco. I piccoli cinghiali vengono allattati fino all’età di circa 3 mesi, poi vanno autonomamente alla ricerca del cibo. A poco a poco cambiano anche il manto a strisce dei primi mesi con quello di setola tipico degli adulti.

Moltissimi cinghiali giovani muoiono per il freddo e l’umido oppure uccisi da predatori o in seguito a verminosi. Nelle annate peggiori nemmeno il 20% degli esemplari giovani sopravvive fino alla primavera successiva. Ciò nonostante  in alcune regioni dell’Europa centrale, dove da tempo mancano i loro nemici naturali come il lupo e la lince, i cinghiali aumenterebbero massicciamente se l’uomo non intervenisse a limitarne il numero. Nella ricerca del cibo i cinghiali scavano in profondità nel terreno e possono arrecare in questo modo seri danni all’agricoltura.

 

GATTO SELVATICO

Felis s. silvestris
Famiglia: Felidi

Caratteristiche: La femmina è più piccola e più leggera del maschio. Simile al gatto domestico; pelo da bruno-grigio a bruno-giallastro tigrato di scuro, parte inferiore spesso bianca; coda folta con anelli neri e mozza; occhi verde-giallo con pupille verticali a fessura; rinario color carne.

Diffusione: Europa (tranne Scandinavia, Islanda, Irlanda); Asia Minore, Caucaso.

Habitat: boschi di latifoglie e misti, vasti e chiusi.

Abitudini: prevalentemente crepuscolare e notturno; solitario al di fuori del periodo di accoppiamento; terreno di caccia fisso, marcato con secrezione delle ghiandole odorifere; caccia di solito a terra, ma si arrampica anche bene; giaciglio in tronchi d’albero cavi o spaccature nella roccia.

Alimentazione: prevalentemente topi, anche uccelli e piccoli Mammiferi fino alle dimensioni di un coniglio.

Riproduzione: gestazione 63-68 giorni; 2-6 piccoli ciechi, con un rado pelo giallastro a macchie scure, che dopo 10 giorni aprono gli occhi e a 3-4 mesi diventano autonomi.

Fino a 150 anni fa il gatto selvatico era comunemente diffuso nei boschi dell’Europa centrale; nei decenni successivi è stato sterminato quasi completamente dai cacciatori che lo consideravano un predatore dannoso. Oggi, invece, si sa che il gatto selvatico non minaccia la selvaggina minuta e lo si protegge. Sia il maschio sia la femmina marcano ciascuno il proprio territorio con tracce odorose.
Quando graffiano i tronchi degli alberi, non si affilano solo le unghie, ma vi lasciano una secrezione proveniente da ghiandole poste sui polpastrelli; anche sulla coda e intorno all’ano sono presenti delle ghiandole, le cui secrezioni odorose vengono strofinate su rami, pietre e simili per segnalare la propria presenza.

Nel periodo di accoppiamento emettono, come i gatti domestici, forti grida. Solo allora la femmina accetta il maschio sul proprio territorio. I piccoli, per lo più 2-6, nascono a maggio. Il nido è ben nascosto a volte nella tana abbandonata di una volpe o di un tasso, di solito in un tronco cavo o sotto le radici e sul fondo duro viene sistemata un’imbottitura  d’erba o di piume. A 4-5 settimane i gattini abbandonano già temporaneamente la tana e si esercitano giocando a catturare prede e a lottare. A 2 mesi incominciano ad accompagnare la madre nelle battute di caccia.

Poiché spesso i gatti selvatici si accoppiano con gatti domestici rinselvatichiti, nell’Europa centrale sono molto diminuiti quelli di razza pura. I nostri gatti domestici, invece, discendono probabilmente dal gatto selvatico fulvo (Felis s. lybica) d’Egitto.

 

TOPOLINO DOMESTICO

Mus musculus
Famiglia: Muridi

Caratteristiche: Colore grigio “topo” o da bruno-grigio a bruno-giallastro con parte inferiore grigio-bianca; coda quasi priva di peli, lunga quasi quanto il corpo; orecchie grandi, arrotondate, membranose. Intenso odore sgradevole.

Diffusione: terra d’origine Asia orientale, diffuso in tutto il mondo al seguito degli insediamenti umani.

Habitat: esclusivamente o temporaneamente in abitazioni dell’uomo, stalle, fienili, cantine; all’aperto linee di confine dei campi, prati, siepi, giardini.

Abitudini: diurno e notturno; si arrampica e nuota bene; vive in gruppi familiari; negli edifici nidi di carta rosicchiata, tessuto e simili, all’aperto tane sotterranee scavate da lui stesso.

Alimentazione: onnivoro. Preferisce semi, cereali, anche grasso.

Riproduzione: accoppiamento durante tutto l’anno; gestazione 20-24 giorni; 4-8 cucciolate l’anno, ciascuna di 4-9 piccoli nudi e ciechi, che a 13 giorni aprono gli occhi, vengono allattati per circa 3 settimane e dopo 6-7 settimane sono atti alla riproduzione.

Delle infinite sottospecie del topolino domestico sono presenti in Europa soprattutto due tipi: quello occidentale, grigio, che vive esclusivamente in edifici, e quello orientale, dal dorso bruno, che trascorre l’estate in prati e campi e si ritira nelle abitazioni dell’uomo solo d’inverno.
Mentre gli individui allo stato “selvatico” preparano spesso nelle loro tane grandi provviste, quelli “di casa” hanno perso l’istinto dell’accaparramento e vivono di preferenza vicino o proprio in mezzo alle provviste dell’uomo.

Nei gruppi di topolini domestici vige una stretta gerarchia. E’ un maschio forte ed esperto a guidare la famiglia e solo questo può accoppiarsi con le femmine in calore; deve però difendere costantemente la propria posizione nei confronti dei maschi di rango inferiore in lotte furiose, finché gli subentra come capo un altro individuo, di solito più giovane. Come succede tra i ratti, spesso più femmine allevano i piccoli in comune in un unico nido. In questo modo possono meglio riscaldarsi a vicenda, visto che i minuscoli neonati nudi hanno bisogno di una temperatura di circa 30°C nel nido per crescere bene. Se in seguito ad una veloce riproduzione si arriva alla sovrappopolazione, interviene un’efficace forma di controllo delle nascite: le femmine di basso rango non vanno più in calore e, se le femmine giovani sono presenti in numero consistente, i loro organi genitali si atrofizzano fino alla sterilità.

Da sempre il topolino domestico è inquilino sgradito delle nostre case in quanto parassita dei generi alimentari e portatore di malattie.

 

CIRO MENOTTI

Nato a Carpi (MO) nel 1798, da una famiglia della borghesia imprenditoriale, Ciro Menotti aveva ampliato l’azienda familiare, fondando a Modena una filanda e una ditta di spedizioni, che avevano il loro principale mercato a Londra. Nella capitale inglese Menotti era entrato in contatto con i profughi liberali italiani ed era stato individuato da Enrico Misley come un possibile tramite fra i rivoluzionari dell’emigrazione e il duca di Modena Francesco IV.

Il suo ruolo divenne centrale nella cospirazione modenese alla fine del 1830, quando riuscì a organizzare una serie di comitati insurrezionali a Bologna, Firenze, Parma e Mantova. Il 12 dicembre 1830 inviò a Misley, a Parigi, le sue Idee per organizzare delle intelligenze fra tutte le città d’Italia, un programma insurrezionale mirante a dare all’Italia ‘indipendenza, unione e libertà’, sotto il governo di una “monarchia rappresentativa”, con Roma capitale e un sovrano scelto da un congresso nazionale.

Il progetto di Menotti incontrò diversi ostacoli. A Parigi si andava rafforzando fra gli esuli l’ipotesi, sostenuta da Filippo Buonarroti, di una rivoluzione repubblicana, e il governo orléanista mandava messaggi ambigui circa la sua intenzione di far rispettare il principio del non intervento. A Modena Francesco IV fingeva di assecondare Menotti, mentre lo utilizzava come fonte di informazione sui preparativi rivoluzionari. A Roma si progettava una cospirazione indipendente, guidata da Luigi Napoleone, la cui trama venne scoperta per una delazione che portò all’arresto dei principali cospiratori. Il 3 febbraio 1831, alla vigilia dello scoppio dell’insurrezione, i soldati di Francesco IV riuscirono a sorprendere e a catturare Menotti, che dopo un processo sommario fu impiccato a Modena il 26 maggio.

1868 – L’IMPOSTA SUL MACINATO

La guerra del 1866 con l’Austria aveva comportato, per l’economia italiana, un forte aggravamento del disavanzo del bilancio, conseguenza inevitabile del cospicuo aumento delle spese straordinarie. Il deficit, che raggiunse in quell’anno la somma di 721 milioni, venne in gran parte coperto dai prestiti della Banca nazionale, ottenuti grazie all’imposizione del corso forzoso della moneta. Nel quadro di una manovra economica complessiva, volta a ottenere il pareggio del bilancio, vennero varate altre misure straordinarie, quali il passaggio del monopolio dei tabacchi dalla gestione diretta dello Stato alla cointeressenza, un aumento delle imposte sulla proprietà fondiaria, e soprattutto l’imposta sulla macinazione dei cereali.

Difesa accesamente alla Camera da Cambray-Digny e da Quintino Sella e promulgata il 7 luglio 1868, quest’ultima fu un’imposta sui consumi che pesò fortemente sull’economia delle popolazioni rurali, particolarmente sottoposte a controllo, poiché l’imposta doveva essere pagata direttamente al mugnaio, prima del ritiro delle farine.

Contro l’applicazione dell’imposta sul macinato sin dal gennaio 1869 si verificarono agitazioni e rivolte contadine in quasi tutta la penisola, con picchi particolarmente gravi in Emilia. Si calcola che, complessivamente, i moti costarono più di 250 morti e un migliaio di feriti. Se l’imposta si dimostrò talmente impopolare da poter essere considerata uno dei fattori che determinarono la sconfitta della Destra storica, essa costituì tuttavia nel corso degli anni successivi un indubbio successo dal punto di vista economico, contribuendo a rendere possibile il risanamento finanziario dello Stato.

 

FILIPPO BUONARROTI

Nato a Pisa l’11 novembre 1761, giornalista e seguace delle idee di Rousseau, Filippo Buonarroti alle prime notizie della rivoluzione francese lasciò Firenze per la Corsica, dove fondò un suo periodico, il Giornale patriottico di Corsica, ispirato alle correnti più democratiche della cultura francese.

Cittadino francese dal 1793, agente rivoluzionario in missione in Italia, caduto in disgrazia dopo il colpo di Stato del Termidoro contro Robespierre, fu implicato nella fallita “congiura degli eguali” di Graccus Babeuf arrestato e successivamente costretto a una vita di esilio. A Ginevra fondò la setta segreta dei Filadelfi e tentò, durante la restaurazione, di ricucire il panorama delle sette italiane attraverso l’organizzazione e il controllo delle società segrete dei Sublimi maestri perfetti e della Federazione italiana. Anche dopo il fallimento dei moti del 1820 e del 1821 rimase fedele a un illuminismo di matrice rousseauiana e comunistica.

Incessante fu il suo impegno nella fondazione di società segrete e nella propaganda rivoluzionaria. Nel 1828 pubblicò a Bruxelles La conspiration pour l’égalité, dite de Babeuf (La congiura degli eguali, detta di Babeuf), che non era soltanto una nostalgica rievocazione di quell’evento, ma anche un ripensamento del ruolo della rivoluzione francese e delle tensioni repubblicane e democratiche che avevano percorso l’Europa negli ultimi trent’anni. I movimenti cospirativi europei rimasero però nella maggior parte estranei al comunismo buonarrotiano e legati piuttosto a un orientamento costituzionale moderato.

Allontanatosi intorno al 1834 anche dai mazziniani, ai quali pure lo univa il programma repubblicano, Buonarroti morì in esilio, profondamente isolato, a Parigi il 17 novembre 1837.

LA VOLPE

Non è un caso che alla volpe si attribuiscano da sempre astuzia e furbizia; grazie alla sua enorme capacità di adattamento e alla sua prudenza, come pure all’alto tasso di riproduzione, è sempre riuscita a sopravvivere, anche a persecuzioni intense, e a colonizzare habitat sempre nuovi. E’ perfino possibile incontrarla, a volte, nei parchi delle grandi città. Durante il periodo riproduttivo, in pieno inverno, tra gli ululati e un forte abbaiare, si formano le coppie; il maschio segue poi passo passo la femmina, spesso per settimane intere, finché è disposta all’accoppiamento. Verso la fine della gestazione e per alcuni giorni dopo la nascita dei piccoli la femmina non lascia più la tana e viene rifornita di cibo dal maschio. A 2 settimane i cuccioli aprono gli occhi e spuntano i denti da latte. Vengono quindi a poco a poco abituati dalla madre anche al cibo solido, prima con un rigurgito predigerito, poi con diverse prede riportate.

A 1-2 mesi le volpi giovani incominciano ad esplorare il mondo al di fuori dalla tana e perdono gradualmente il loro primo pelo, scuro e lanuginoso, assumendo la caratteristica colorazione fulva. Nei loro giochi sempre più vivaci acquistano destrezza e vista d’occhio e provano molti comportamenti utili per la sopravvivenza futura. Nel tardo autunno, infine, sono scacciati dai genitori e devono cercarsi un proprio territorio.

Questo è demarcato con segnali odorosi costituiti da urina, da una secrezione delle ghiandole anali, depositati in punti particolari. Le ghiandole odorifere tra i polpastrelli delle dita lasciano sul terreno delle tracce odorose che informano i conspecifici sugli spostamenti e facilitano l’orientamento di notte. Tutte le volpi hanno poi una tipica macchiolina nera sulla parte superiore della coda dove sbocca una ghiandola cutanea, la cui funzione non è ancora stata spiegata chiaramente: è possibile che serva anch’essa alla demarcazione del territorio tramite l’odore. Oltre all’olfatto, pure l’udito è particolarmente ben sviluppato e la volpe riesce a sentire lo squittio di un topo anche a 100 m di distanza.

Nutrendosi per lo più proprio di topi, arreca fra l’altro grandi vantaggi all’agricoltura. Se invece cattura un fagiano, una lepre, un coniglio selvatico o, in casi più rari, addirittura un capriolo, viene bollata dai cacciatori come animale da preda. Gli animali che cadono vittima della volpe, tuttavia, sono soprattutto quelli deboli e malati, per cui la sua caccia mantiene l’equilibrio biologico dei boschi.

Come si può, comunque, disapprovarla se in certe occasioni si imbatte anche in un comodo animale da cortile, raggiungibile quasi senza fatica? Se talvolta la tavola non è così imbandita, si accontenta peraltro anche di larve di insetti, cavallette, lombrichi o vegetali, come bacche, frutta e prodotti agricoli.

Da secoli la volpe è accanitamente perseguitata: un tempo come predatore e per la sua preziosa e folta pelliccia invernale, in epoca più recente soprattutto perché il principale propagatore della rabbia.

Negli ultimi 50 anni questa malattia virale, pericolosa anche per l’uomo, in Europa ha assunto le dimensioni di un’epidemia di grandi proporzioni. L’infezione avviene solo se il virus penetra in una ferita tramite la saliva di un animale rabbioso, cioè di solito a causa di un morso. Durante la caccia le volpi vengono a volte morsicate sulle labbra da topi, spesso portatori del virus, e così sono infettate; una volpe rabbiosa aggredisce di solito mordendo altri animali e trasmettendo in questo modo la malattia.

Nel tentativo di arginare il contagio sono state abbattute (o uccise nella tana con il gas) milioni di volpi, ma inutilmente. Ci si ripromette oggi di ottenere risultati migliori tramite una vaccinazione per via orale, esponendo cioè nei boschi esche di carne con il vaccino. Sempre più cacciatori hanno nel frattempo riconosciuto l’utilità delle volpi e le tollerano di nuovo – in numero limitato – sul loro terreno di caccia.

 

L’ALLUVIONE DEL POLESINE

Dal 7 al 12 novembre 1951 piovve incessantemente su tutta l’Italia del nord. Allagamenti si verificarono in Piemonte e Liguria, 18 persone morirono nel Comasco per il crollo di case. Ma in Polesine l’alluvione del 14 novembre ebbe dimensioni ben più tragiche: si aprirono tre squarci negli argini del Po e vennero travolte le opere di rinforzo degli argini stessi.

Un’area di oltre 1000 km² di terreni coltivati fu sommersa dalle acque, 300 case vennero distrutte, 5000 lesionate. I danni complessivi ammontarono a 60 miliardi di lire. Nel Polesine inondato persero la vita un centinaio di persone, 180.000 furono evacuate; Rovigo, Cavarzere e Adria vennero sgomberate.

L’opera di prosciugamento dei terreni, che subirono forti modificazioni terminò solo nel maggio 1952. Nei mesi e negli anni successivi seguirono altre alluvioni e mareggiate. Migliaia di persone abbandonarono il Polesine e i contadini polesani dettero vita alla prima ondata di emigrazione del secondo dopoguerra, riversandosi nelle città industriali.

ANTONIO GRAMSCI

Antonio Gramsci nacque il 22 gennaio 1891 ad Ales (CA) da una famiglia piccolo borghese, relativamente colta. Nell’estate del 1911 giunse a Torino per concorrere a una borsa di studio che gli consentisse di proseguire, dopo la licenza liceale, negli studi universitari. Iscrittosi alla facoltà di lettere, strinse rapporti di amicizia con Palmiro Togliatti e con Angelo Tasca, già allora giovane militante socialista.

Nel 1915 Gramsci lasciò l’università per il giornalismo e l’attività politica. Assunto alla redazione dell’Avanti!, incominciò a pubblicare i suoi corsivi in una rubrica intitolata Sotto la Mole e a occuparsi di critica teatrale.

Nel 1917 ricoprì l’incarico di segretario della sezione socialista torinese e diresse il settimanale della sezione, Il Grido del popolo, del quale fece uscire un numero unico dal titolo programmatico La città futura.

Nel 1919 Gramsci diede vita all’Ordine nuovo, una rivista settimanale alla quale partecipavano Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Piero Gobetti. Da quelle colonne formulò la proposta della costituzione dei consigli di fabbrica e seguì l’occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920.

L’anno seguente nel congresso di Livorno si realizzò la scissione del PSI e nacque il Partito comunista d’Italia, di cui Gramsci fu fin dall’inizio instancabile animatore, rappresentandolo sui banchi della Camera dei deputati così come nelle riunioni dell’Internazionale comunista.

Arrestato nel 1926, negli anni di prigionia si dedicò a uno studio approfondito e sistematico dello sviluppo delle vicende storiche e culturali del nostro paese. I Quaderni del carcere, pubblicati dopo la fine della seconda guerra mondiale, si imposero come un’opera destinata a rappresentare un profondo rinnovamento nella cultura italiana, confermando quel giudizio che Gramsci in una lettera alla madre aveva dato di se stesso, definendosi “un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata”.

Alla sua morte, avvenuta all’alba del 27 aprile 1937, soltanto la cognata Tatiana e il fratello Carlo furono ammessi a vedere la salma, che venne cremata il 5 maggio. Le ceneri di Gramsci, inumate in un loculo del Comune di Roma al Verano, furono trasferite al Cimitero degli Inglesi dopo la liberazione.

L’ANTOLOGIA

Il mensile fiorentino nasceva per iniziativa dell’editore e libraio Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), un ligure di famiglia ginevrina, di formazione protestante e di cultura cosmopolita.

Nel Gabinetto scientifico e letterario, da lui fondato nel 1812, riunì a Firenze scrittori di vario orientamento e provenienza, alcuni dei quali erano sfuggiti alla repressione dei moti del 1820 e 1821, offrendo loro nella sede di Palazzo Buondelmonti un centro nazionale di incontri e discussioni.

L’Antologia era strettamente collegata alle attività del Gabinetto e stampava oltre 700 copie, un buon numero delle quali veniva diffuso al di fuori della Toscana. Vi collaboravano alcuni degli intellettuali liberali più attivi fra il 1821 e il 1831: gli esuli napoletani Giuseppe Poerio, Gabriele Pepe, Pietro Colletta; Pietro Giordani, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montani, provenienti dall’esperienza del Conciliatore; i cattolici fiorentini Raffaele Lambruschini e Gino Capponi. Garantivano un apporto culturale e finanziario proprietari terrieri, aristocratici e uomini d’affari liberali, come Cosimo Ridolfi, Bettino Ricasoli, Enrico Mayer. Fautori del liberismo in economia, impegnati nella ricerca e nella divulgazione di nuove tecniche agrarie, promotori di asili e di scuole di mutuo insegnamento, i redattori del giornale cercarono di dare all’Antologia un’impronta illuministica moderata, caratterizzando il mensile in funzione pedagogica e riservando alla letteratura un posto marginale rispetto all’economia, alla statistica, al diritto, alle scienze. Nello sforzo di giungere fino ai contadini, alcuni dei collaboratori ripresero e divulgarono, attraverso giornali agrari e almanacchi popolari, le tematiche riformatrici del mensile di Vieusseux.

L’Antologia cessò le pubblicazioni nel 1833 a causa delle pesanti pressioni esercitate dall’Austria sul granduca di Toscana Leopoldo II dopo il fallimento dei moti del 1831.

 

LA BIBLIOTECA ITALIANA

La rivista mensile “Biblioteca italiana” nacque a Milano per iniziativa del conte Heinrich von Bellegarde, governatore della Lombardia e luogotenente del viceré fino al marzo del 1816, impegnato a creare intorno all’Austria il consenso degli ambienti intellettuali italiani. Originariamente Bellegarde aveva pensato di affidarne la direzione a Ugo Foscolo, la figura di maggior prestigio fra i letterati italiani, facendo leva sull’ostilità manifestata dal poeta veneziano nei confronti della politica napoleonica. Dopo il rifiuto di Foscolo, che alla collaborazione con gli austriaci preferì la via dell’esilio, e quello successivo di Vincenzo Monti, che declinò l’incarico dopo alcuni mesi di lavoro, Bellegarde nominò direttore Giuseppe Acerbi, diplomatico, viaggiatore e geografo, che divenne l’uomo di fiducia del governo austriaco.

Il primo numero apparve nel gennaio del 1816. Le pubblicazioni sarebbero proseguite, con rigorosa scadenza mensile, fino al 1840, quando la rivista assunse il nuovo titolo di “Giornale dell’Istituto regio lombardo di lettere e arti” con cui continuò a uscire fino al 1859. Vi collaborarono alcuni dei più illustri letterati del tempo, da Vincenzo Monti a Pietro Giordani. Finanziata, anche in modo diretto, dalle casse dello Stato, la rivista riuscì a raggiungere e a mantenere la ragguardevole cifra di oltre 700 abbonati. Secondo il programma iniziale, essa avrebbe dovuto accogliere le aspirazioni di una cultura “moderna”, al di sopra delle frontiere nazionali, ma dietro le dichiarazioni ufficiali si nascondeva l’obiettivo non meno importante di mostrare i vantaggi che derivavano alla Lombardia dall’appartenenza all’impero asburgico.

 

IL CONCILIATORE

Il progetto di un periodico contrapposto alla “Biblioteca italiana” nacque negli ambienti intellettuali milanesi che avvertivano l’esigenza di un giornale libero da legami con il governo austriaco e impegnato nella prospettiva politica di una nazione italiana indipendente.

Dopo una lunga fase di discussione, l’iniziativa si concretizzò nel settembre del 1818. Il Conciliatore uscì con cadenza bisettimanale, fino alla chiusura per ordine del governo austriaco nell’ottobre del 1819. Ne furono promotori Federico Confalonieri e Luigi Porro Lambertenghi, esponenti dell’aristocrazia milanese, liberali e convinti fautori delle riforme economiche e del progresso tecnologico.

Vi collaborarono soprattutto letterati che si autodefinivano romantici e si contrapponevano polemicamente ai classicisti della “Biblioteca italiana”: Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet, Ermes Visconti. A loro si unirono Melchiorre Gioia, Giandomenico Romagnosi, Giuseppe Pecchio, Giovanni Rasori. Esplicito era il richiamo al precedente settecentesco del “Caffè”, il periodico degli illuministi lombardi, di cui Il Conciliatore riprendeva la tensione etico-politica, l’apertura alla cultura europea, l’intenzione di superare le sterili polemiche letterarie per rafforzare l’impegno civile nella società. Alle recensioni letterarie il giornale milanese affiancava la trattazione di questioni legate allo sviluppo della tecnica o di interesse sociale (come l’istruzione elementare, l’illuminazione a gas, l’organizzazione carceraria) e novelle finalizzate all’educazione popolare. La circolazione del “foglio azzurro”, come venne chiamato per il colore delle sue pagine, rimase comunque ristretta: 240 abbonati, quasi tutti concentrati a Milano. Cessate le pubblicazioni, gli esponenti più rappresentativi del gruppo passarono all’attività clandestina, finendo coinvolti nella repressione del 1821. Anche per queste successive vicende, Il Conciliatore divenne un simbolo e un mito del risorgimento italiano.

 

GIOACCHINO MURAT

Nato a Labastide-Fortunière nel 1767, Gioacchino Murat, giovane e coraggioso ufficiale dell’esercito francese, fu accanto a Napoleone Bonaparte in tutte le più importanti campagne militari, sapendosi conquistare la fiducia dell’imperatore e la mano della sorella, Carolina Bonaparte.

Generale, poi maresciallo dell’impero, principe imperiale, granduca di Clèves e di Berg, divenne nel 1808 prima luogotenente generale di Spagna, poi re di Napoli. In Italia proseguì la politica antifeudale iniziata dal suo predecessore, Giuseppe Bonaparte, promulgò il codice napoleonico ed estese al Napoletano le riforme giuridiche francesi. Entrato in conflitto con Napoleone, alla cui tutela cercò di sottrarsi in nome dell’autonomia del Regno di Napoli, dopo la sfortunata campagna di Russia avviò trattative separate con Austria e Inghilterra cercando di salvare il regno dalla catastrofe dell’impero. Riuscì nel suo intento fino al 1815, quando volle seguire il cognato nell’avventura dei cento giorni seguita alla fuga dall’Elba, ma il suo tentativo di sollevare le popolazioni italiane contro la dominazione austriaca, espresso nel Proclama di Rimini, fallì nell’indipendenza quasi generale.

Ripetutamente sconfitto dagli austriaci e indebolito dalla stessa ostilità di gran parte della classe dirigente napoletana, dovette lasciare il Regno di Napoli a Ferdinando IV di Borbone, fuggire in Francia e di lì, dopo la sconfitta di Waterloo, riparare in Corsica. Da Ajaccio coltivò ancora il sogno di riconquistare il regno perduto, contando sull’appoggio delle masse popolari, ma la sua spedizione in Calabria finì tragicamente, a pochi giorni dallo sbarco. Consegnato ai soldati borbonici dalla popolazione di Pizzo Calabro, Murat fu fucilato come nemico dell’ordine pubblico.

 

LEONE XIII E LA RERUM NOVARUM

Con l’enciclica del 15 maggio 1891 papa Leone XIII prese posizione sui problemi operai e più in generale sociali, al fine di porre su nuove basi i rapporti con gli Stati (gli storici hanno parlato di “riconquista cattolica”) e di accrescere l’influenza della Chiesa fra i lavoratori.

Opponendosi contemporaneamente ai principi del socialismo e agli “eccessi” del capitalismo, derivati principalmente dalla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, l’enciclica invitava i cattolici ad associarsi nella forma mista delle “corporazioni di arti e mestieri”, particolarmente idonea alla realizzazione dell’ideale cristiano di “conciliazione” fra le classi, ma anche in quella delle associazioni di soli operai. Allo Stato si chiedeva di favorire lo sviluppo della piccola e media proprietà, quale importante fattore di benessere e di stabilità sociale, e di agire per la tutela del riposo festivo, per la limitazione degli orari di lavoro, per la protezione delle donne e dei fanciulli.

Il risultato più rilevante dell’enciclica fu di incoraggiare l’attività dei movimenti democraticocristiani o cristianosociali e la formazione di associazioni sindacali cattoliche.

 

LINGUA DI CANE E FLAMMOLA

La flammola è una delle pochissime liane europee ed è in grado di avvolgersi intorno a qualsiasi cosa. In autunno e in inverno la pianta si ricopre di tanti fiocchi simili a lana. Servono per ripararla dal freddo.

La flammola ha di solito quattro petali, ma ha la particolarità di presentare spesso esemplari con 5 petali. Attenzione, questa pianta, come tutte quelle della sua famiglia, le Clematis, è velenosa. Se regali questi fiori, il significato è: Vorrei arrivare fino al tuo cuore.

La lingua di cane ha fiori piccoli che non attirano l’attenzione degli insetti. Per l’impollinazione le basta il vento.

I semi della lingua di cane contengono una sostanza lievemente tossica per l’uomo. Se li metterai sul davanzale della tua finestra, vedrai parecchi uccelli venire a prenderli. Per loro sono un ottimo cibo.

Questi due fiori hanno quattro petali. La pianta della lingua di cane va da 5 a 60 cm; quella della fiammola arriva a 500 cm.

Il fiore della lingua di cane lo vedi da aprile a ottobre, mentre quello della fiammola, da maggio ad agosto.

La lingua di cane cresce ai bordi delle strade e nei campi. La fiammola vive nei boschi, nelle macchie e nelle boscaglie.

 

SILVIO PELLICO E LE MIE PRIGIONI

Nato a Saluzzo nel 1789, Silvio Pellico si stabilì a Milano, dove divenne precettore in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi e si legò di amicizia con Ugo Foscolo, Vincenzo Monti e altri letterati italiani e stranieri residenti o di passaggio a Milano. Nel capoluogo lombardo Pellico conobbe il primo importante successo con la tragedia Francesca da Rimini, rappresentata per la prima volta nel 1815, ed ebbe modo di frequentare i circoli romantici e di diventare uno dei più assidui collaboratori del “Conciliatore”. Introdotto nella Carboneria da Pietro Maroncelli, Pellico venne arrestato dalla polizia austriaca il 13 ottobre 1820. Processato e condannato a morte nel 1822, venne graziato dall’imperatore che commutò la condanna in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza dello Spielberg in Moravia. Graziato nel 1830, ritornò a Torino, dove visse come bibliotecario dei marchesi di Barolo e riprese l’attività letteraria componendo tragedie, liriche di ispirazione religiosa e trattati morali. Morì nella capitale sabauda nel 1854. La sua fortuna letteraria è essenzialmente legata al libro di memorie Le mie prigioni, pubblicato nel 1832, nel quale Pellico rievocava la sua esperienza del carcere e della conversione religiosa. Non era intento dell’autore scrivere un’opera di propaganda antiaustriaca, ma Le mie prigioni furono lette, nel clima di repressione degli anni Trenta, come un atto di accusa nei confronti del duro regime carcerario dello Spielberg. Metternich lo definì un “libro di preghiere convertito in un libro di calunnie” più dannoso per l’Austria di una battaglia perduta.

 

LO STATUTO ALBERTINO

Emanato da Carlo Alberto sotto le forti pressioni popolari il 4 marzo 1848, lo Statuto albertino continuò a essere la legge fondamentale dello Stato italiano fino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana.

Come le altre carte costituzionali precipitosamente concesse dai sovrani nelle Due Sicilie, in Toscana e nello Stato Pontificio, lo Statuto albertino aveva le caratteristiche della charte octroyée, cioè della carta concessa dall’alto per grazia del sovrano e non come espressione della sovranità popolare. Era inoltre una carta “flessibile”, cioè modificabile attraverso un processo legislativo ordinario, il che permise di adattarla alle trasformazioni istituzionali e sociali che intervennero negli anni successivi alla sua applicazione. Lo Statuto albertino si componeva di 81 articoli, 22 dei quali erano dedicati a delineare i poteri del re. Il sovrano era titolare del potere esecutivo, capo nominale del potere giudiziario e partecipe con il Parlamento del potere legislativo; a lui spettava il potere di nomina dei ministri, che dovevano però godere della fiducia parlamentare. La rappresentatività era assicurata dalla presenza di due camere: un Senato, composto da membri nominati a vita dal re, e una Camera dei deputati, eletta secondo modalità definite da un’apposita legge elettorale che non faceva parte dello Statuto. In merito ai diritti dei cittadini, lo Statuto sanciva l’uguaglianza di fronte alla legge di “tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado” (art. 24); garantiva la libertà individuale (art. 26), la libertà di stampa (art. 28), l’inviolabilità della proprietà privata (art. 29), il diritto di pacifica adunanza (art. 32), il diritto di formulare petizioni (art. 58). La religione cattolica era definita “sola religione di Stato”, ma erano “tollerati conformemente alla legge” gli altri culti esistenti (art. 1).

TABACCO GLAUCO E GINESTRINA

Il tabacco glauco proviene dal Sud America ed è un parente stretto della pianta dalla quale si ricava il tabacco per le sigarette, la Nicotiana tabacum.

Quando un’ape si posa su una ginestrina, mette in moto un complesso meccanismo di pesi e contrappesi che spingono verso il suo ventre una piccola massa collosa di polline che verrà trasportata dall’insetto di fiore in fiore.

Il tabacco glauco sboccia da marzo a ottobre; la ginestrina da maggio a settembre.

Questi fiori sono a simmetria bilaterale. La pianta del tabacco arriva fino a sei metri; la ginestrina, invece, va da 5 a 35 cm.

Osservate le foglie della ginestrina e vi accorgerete che di sera prendono una posizione diversa. Questa particolarità ha aiutato Linneo, uno scienziato del 1700, a stabilire che le piante hanno una vita diurna e una notturna.

Il tabacco glauco cresce nei terreni incolti, mentre la ginestrina, chiamata anche trifoglio giallo, nei prati e ai bordi della strada.

In Italia, per coltivare la pianta del tabacco per sigarette, è necessaria un’autorizzazione ministeriale.

La ginestrina ha la possibilità di spingere le sue radici in profondità alla ricerca dell’acqua. Possono arrivare anche a un metro sotto terra.

 

LO SMEMORATO DI COLLEGNO

Con la pubblicazione sulla Domenica del Corriere della foto di uno sconosciuto, ricoverato da quasi un anno nel manicomio torinese di Collegno, si aprì nel febbraio del 1927 un caso giudiziario che avrebbe appassionato e diviso l’opinione pubblica italiana per anni. Quell’uomo, infatti, il 27 febbraio venne riconosciuto dalla signora Giulia Canella come suo marito Giulio, un professore di filosofia di Verona, scomparso in combattimento in Macedonia durante la guerra, nel dicembre del 1916.

Come tale lo smemorato fu quindi dimesso e riconsegnato ai familiari. Però pochi giorni dopo la polizia ricevette una segnalazione, da cui risultava che in realtà lo sconosciuto era Mario Bruneri, tipografo torinese, pregiudicato e ricercato per truffa, già condannato in contumacia a una pena di oltre quattro anni. L’informazione venne confermata dal confronto delle impronte digitali.

A questo punto lo smemorato tornò in manicomio ed ebbe inizio una lunga controversia nella quale le due famiglie si contesero l’uomo. Attorno al caso si polarizzò un’appassionata partecipazione popolare, equamente divisa tra “bruneriani” e “canelliani”.

Il 22 ottobre 1928 una prima sentenza del Tribunale di Torino, dopo ripetute perizie psichiatriche, sostenne che nei panni dello smemorato di Collegno si celava Mario Bruneri. Tale sentenza fu definitivamente confermata dalla Corte d’appello di Firenze il 1° maggio 1931.

CESARE LOMBROSO

Le teorie di Cesare Lombroso (Verona 1835 – Torino 1909) segnarono profondamente il pensiero medico e criminologico negli anni del positivismo. Laureato in medicina nel 1858, si arruolò come ufficiale medico e, dopo l’unità, partecipò a una spedizione contro il brigantaggio in Calabria, dove iniziò i suoi studi antropologici sui delinquenti.

Dopo un periodo di insegnamento universitario a Pavia, interrotto nel 1871-1872 dall’attività di direttore del manicomio di Pesaro, nella quale Lombroso si distinse per la battaglia in favore dell’istituzione dei “manicomi criminali”, intesi come ospedali speciali per i delinquenti malati di mente, vinse la cattedra di medicina legale a Torino, dove si trasferì nel 1876. In quell’anno pubblicò il Trattamento antropologico-sperimentale dell’uomo delinquente, in seguito riedito e tradotto in diverse lingue, accrescendo notevolmente la sua fama italiana e internazionale. Le teorie lombrosiane, basate in una prima fase su un esame quasi esclusivamente fisico e “morfologico” dei delinquenti volto a delineare le diverse “specie” devianti, divennero in seguito più complesse grazie alla maggiore attenzione prestata agli aspetti psicologici e sociali della personalità dei soggetti studiati, per influsso soprattutto dell’impostazione sociologica del socialista Enrico Ferri. I critici non gli perdonarono però alcune idee cardine delle sue dottrine, fra cui l’esistenza di un “tipo criminale”, originato da fattori degenerativi ereditari, l’identificazione fra epilessia e delinquenza congenita, la poca considerazione per i fattori ambientali. Dal 1880 Lombroso pubblicò l’Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali. Negli ultimi anni si iscrisse al PSI, occupando per un breve periodo la carica di consigliere comunale a Torino.

 

IL NABUCCO

Con la prima rappresentazione alla Scala di Milano dell’opera in quattro atti Nabucodonosor, meglio conosciuta come Nabucco, Giuseppe Verdi (Parma 1813-Milano 1901) conseguì, dopo un esordio difficile, il primo di una lunga serie di trionfi di pubblico e di critica.

Il compositore parmense, che per le origini sociali modeste e le difficoltà finanziarie della famiglia si era visto negare l’ingresso al conservatorio di Milano, aveva incominciato a frequentare gli ambienti musicali milanesi negli anni in cui dominava il repertorio di Gaetano Donizetti e Giuseppe Saverio Mercadante. La sua prima opera comica, Un giorno di regno, tratta da un vecchio libretto di Felice Romani, aveva incontrato un clamoroso insuccesso.

Il Nabucco, tratto da un libretto di Temistocle Solera, narra come gli assiri, guidati dal re Nabucco (contrazione dell’originario Nabucodonosor), occupino Gerusalemme e conducano gli ebrei in cattività, ma come alla fine la vittoria arrida agli ebrei. La nota vicenda biblica consentiva a Verdi una lettura metaforica che trasferiva nella sofferenza e nella lotta degli ebrei quella degli italiani schiacciati dall’invasore austriaco.

In particolare il celebre coro del III atto, Va, pensiero, sull’ali dorate, coi suoi versi di trasparente attualità, “Oh mia patria sì bella e perduta!”, fu considerato un vero e proprio inno patriottico. Nell’anno successivo, con la prima alla Scala del dramma lirico in quattro parti I lombardi alla prima crociata, Verdi ripeté il trionfo del Nabucco, imponendosi come il maestro indiscusso della musica romantico-patriottica italiana.

LA NASCITA DEL CINEMA IN ITALIA

Nato a Parigi nel dicembre 1895, allorché i fratelli Lumière diedero inizio a regolari proiezioni, il cinematografo si diffuse in breve tempo anche in Italia, dove, benché si proiettassero soprattutto i film francesi dei Lumière, si avviò subito una produzione nazionale.

Al 1896 risale una delle prime modeste pellicole, L’arrivo del treno alla stazione di Milano, del milanese Italo Pacchioni; degli anni seguenti sono opere come Manovre degli Alpini al colle della Ranzola e La prima corsa automobilistica: Susa-Moncenisio, prodotte nel 1904 dal fotografo torinese Arturo Ambrosio e realizzate da Roberto Omegna, in seguito grande documentarista.

Del 1905 è La presa di Roma di Filoteo Alberini, tra i primi direttori (registi) di film italiani, che nel 1895 aveva brevettato un apparecchio cinematografico affine a quello dei Lumière.

Richiamandosi al modello francese dei Lumière, e non certo a Georges Meliès, da alcuni critici considerato il vero creatore dello spettacolo cinematografico per aver saputo fondere maestria tecnica e fantasia, il primo cinema italiano si proponeva la pura riproduzione della realtà ed era proprio il suo carattere realistico a meravigliare il pubblico.

Sedi della nuova industria cinematografica furono inizialmente Roma, dove Alberini fondò nel 1905 la prima casa cinematografica italiana, divenuta nel 1906 la CINES, e Torino, dove il primo stabilimento fu fondato da Ambrosio nel 1906.

 

L’ATLANTE

Perché si chiama così? La ragione deve ricercarsi in un’antica leggenda. Il gigante Atlante, figlio di Giapeto e della ninfa Climene, si mise un giorno a capo dei Titani ribelli e sfidò Giove, dio dell’Olimpo, perché voleva spodestarlo dal trono e diventare re di tutti gli uomini e di tutti gli dèi. Ma i Titani non la spuntarono. Nella lotta vinse Giove che punì tutti i ribelli. E Atlante venne condannato a portare sulle spalle per l’eternità il globo terrestre.

Quando verso la fine del Cinquecento si cominciarono a pubblicare le prime raccolte a stampa di carte geografiche, esse avevano nella copertina l’illustrazione di Atlante che reggeva sulle spalle il mondo.

Da quel giorno Atlante perse la maiuscola e diventò un nome comune.

ALLA CARLONA

Com’è facile immaginare, c’entra l’imperatore Carlo Magno (742-814). La storia sembra sia andata in questo modo. Un giorno Carlo Magno invitò parecchie persone a una battuta di caccia. Tutti gli invitati si presentarono indossando i loro vestiti più sfarzosi e veramente grande fu il loro stupore quando videro l’imperatore in abito dimesso, di ruvida stoffa da contadino.

“Non stupitevi”, disse l’imperatore, “capirete da voi stessi il perché di questo mio abbigliamento”. Ed ecco che di lì a poco si scatenò un violento temporale che inzuppò tutti gli eleganti cacciatori sino alle ossa, riducendo in condizioni pietose i loro costosissimi abiti. L’unico che passò indenne da quel diluvio fu l’imperatore, che non solo non rovinò un costoso abito, ma restò quasi completamente all’asciutto.

Da quel giorno si disse: “essere vestito alla carlona”, cioè alla maniera di Carlo Magno, per dire “essere vestiti male”, e poi la stessa frase si ripeté per tutte le cose fatte alla svelta e alla bell’e meglio.

 

PERCHE’ SI SONO FORMATE LE RAZZE UMANE

Le razze sono le suddivisioni della specie umana stabilite in base a certe caratteristiche ereditarie del corpo: colore della pelle, forma del cranio, statura, tipo di capelli, pelosità, frequenza dei vari gruppi sanguigni, eccetera. C’è da dire che le diversità fra un gruppo umano e l’altro non si sono originate all’improvviso e tutte insieme; non c’è quindi un periodo determinato nel quale sono nate le razze: qualcuna si sta formando ai nostri giorni, mentre altre sono già scomparse o vanno scomparendo.

Ma come e perché si sono formate le varie razze?
Tutto è dipeso dall’ambiente in cui si sono stabiliti i gruppi umani primitivi. A poco a poco, infatti, gli uomini hanno occupato ogni punto del nostro pianeta adattandosi al clima e alle altre condizioni ambientali incontrate nella varie regioni.

Questo adattamento è durato parecchi secoli e ha comportato un processo di selezione e il sorgere di nuove caratteristiche, le quali rendevano più facile sopravvivere in un determinato ambiente. E’ accaduto, per esempio, che gli individui di pelle scura si trovarono meglio nei Paesi caldi, mentre quelli a pelle chiara si trovarono meglio nelle zone fredde.

Per quanto riguarda la classificazione delle razze umane, non esiste un criterio scientifico preciso, perciò gli studiosi possono presentare sistemazioni talvolta molto diverse l’una dall’altra. Normalmente vengono elencate una cinquantina di razze, che si possono raggruppare in una quindicina di ceppi e, a livello generale, in quattro rami:
- europoide
- mongoloide
- negroide
- australoide

 

PERCHE’ LE MARMOTTE FISCHIANO

Quando sente avvicinarsi un pericolo, la marmotta, in posizione eretta, con le zampe anteriori ciondoloni, emette un fischio acuto e prolungato. E’ come se una sentinella avesse dato l’allarme nell’accampamento: in pochi istanti tutte le marmotte che si trovano nei paraggi corrono a nascondersi nella loro tana. E l’allarme raggiunge anche altri animali: topi, scoiattoli, camosci. Per tutti loro la marmotta è una sentinella preziosa.

Tra i nemici delle marmotte, un posto di rilievo spetta alle aquile e alle volpi e, per i piccoli, ai gufi e ai corvi. Naturalmente anche l’uomo è un pericolo. In un solo anno, nel 1944, in Svizzera furono uccise 16 mila marmotte, ricercate soprattutto per la loro pelliccia e il loro grasso. Oggi, fortunatamente, in tutto l’arco alpino sono in vigore norme che proteggono questa simpatica “sentinella” di montagna.

 

PERCHE’ GLI ANIMALI NON PIANGONO

Nell’uomo il pianto, quando non è una semplice reazione automatica (come avviene alle massaie quando tagliano la cipolla), è un linguaggio, un modo per comunicare. Gli animali invece lanciano messaggi con linguaggi diversi: lamenti, segni di minaccia, aggressioni e così via.

Ci sono però animali che “piangono”, ma è una reazione fisiologica. I coccodrilli “piangono” per riflesso condizionato quando inghiottono un boccone voluminoso. Sembra abbiano una digestione difficoltosa.

Anche le tartarughe marine “piangono”, ma lo fanno per eliminare il sale in eccesso accumulato rimanendo nell’acqua del mare.

 

LA PELLE NERA

Il colore della pelle di alcune popolazioni dell’Africa è un’altra dimostrazione dello straordinario equilibrio della natura. La luce del sole, colpendo la nostra pelle, produce la vitamina D, essenziale per lo sviluppo delle ossa. Scarsa luce significa poca vitamina, con il conseguente rischio di malattie come il rachitismo, con le ossa che si piegano sotto il peso del corpo.

Ma anche troppa luce fa male, perché un eccesso di vitamina D porta a una dose esagerata di calcio che provoca malattie che colpiscono il cuore e le arterie.

In Africa i raggi del sole sono particolarmente infuocati e persone dalla pelle troppo chiara potrebbero andare incontro a gravi malattie. Di qui il “miracolo” della natura che, ancora una volta, interviene a equilibrare la situazione, creando un filtro sulla pelle grazie al colore nero, dovuto a una sostanza, la melanina, che è appunto destinata a proteggere l’epidermide dai raggi del sole.

 

SANGUE BLU

Il sangue è sempre rosso, anche nelle arterie dei nobili. L’espressione “avere sangue blu” è nata in Spagna nel Medioevo. La penisola iberica era stata occupata dagli arabi e nel giro di qualche secolo la maggioranza della popolazione era diventata di sangue misto. Soltanto i nobili non si erano mai mescolati con gli invasori e avevano perciò conservato la carnagione chiara.

Di conseguenza sulla loro pelle le vene superficiali apparivano più blu che non sulla pelle della gente comune. Da allora l’espressione “avere sangue blu” o “essere di sangue blu” sta a indicare una nobile discendenza.

Sono espressioni che vengono pronunciate scherzosamente anche nei confronti di chi si comporta in modo altezzoso, come certi antichi aristocratici.

 

ROMOLO E REMO

Ascanio o Julio, figlio del troiano Enea, fondò la città di Albalonga, sulla quale avrebbero regnato i suoi discendenti. Si narra che l’ultimo di questi re, Numitore, fu spogliato del regno da suo fratello Amulio, che ne uccise il figlio e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, perchè non si sposasse. Ma Rea Silvia era segretamente sposa del dio Marte ed ebbe due gemelli. Amulio ordinò che fossero affogati nel Tevere in piena. Ma il servo, incaricato del delitto, non ebbe il coraggio: depose i bambini in una cesta e l’abbandonò nel fiume.

La cesta, spinta dalla corrente nell’entroterra, si incastrò nelle radici di un fico selvatico. D’un tratto risuonò un ululato: una lupa dagli occhi ardenti correva verso il fico. Da poco le erano morti i cuccioli, aveva le mammelle gonfie di latte e aveva fame. Balzò sulla cesta, annusò i piccoli. Nel suo essere ferino prevalse l’istinto materno: si accucciò ad allattare i neonati. E li sfamò fino a quando non vide avvicinarsi un uomo e una donna, il pastore Faustolo e sua moglie Acca Larenzia: allora scappò. I due pastori allevarono i gemelli chiamandoli Romolo e Remo. I gemelli crebbero tra i pastori, sul monte Palatino. Quando, divenuti adulti, conobbero la propria origine, assalirono l’usurpatore e rimisero sul trono Numitore, il loro nonno. Romolo avrebbe poi fondato Roma, il 21 aprile del 753 prima di Cristo.

ORAZI E CURIAZI

Roma era in guerra con Alba. I due eserciti erano schierati e il re Tullo Ostilio stava per far squillare le trombe per l’attacco, quando Mezzio Fufezio, dittatore degli albani, chiese di parlamentare. “Le nostre città si contendono il predominio del Lazio. Ma se ci battiamo ci indeboliremo e gli etruschi ci salteranno addosso"”. “Hai ragione, Fufezio. Io propongo che si affrontino in duello i tre gemelli albani, i Curiazi: chi prevarrà, darà alla sua città il diritto di dominare l’altra”.

E l’accordo fu solennemente giurato. Iniziò il duello. In un attimo gli Orazi ferirono tutti gli avversari ma, subito dopo, due caddero esanimi. Il terzo Orazio, illeso, era circondato. Valutò la situazione: se si metteva a correre, i tre l’avrebbero inseguito, ma si sarebbero distanziati l’uno dall’altro, indeboliti dalle ferite. E corse veloce nella pianura assolata.

Orazio non si era sbagliato: poco dopo, soltanto uno dei Curiazi lo seguiva da presso. Allora si girò, lo assalì, lo trafisse. E balzò rapido a colpire il secondo e infine il terzo. Alba era ormai sottomessa a Roma.

Orazio difende il ponte
Orazio Coclite combattè da solo, vittoriosamente, contro i nemici etruschi mentre i compagni, alle sue spalle tagliavano il ponte Sublicio sul Tevere, ultimo accesso a Roma. Terminata l’opera, Orazio si tuffò nel fiume e, riparandosi con lo scudo dai colpi nemici, si mise in salvo.

Il sacrificio di Muzio
Gaio Muzio, introdottosi una notte nel campo etrusco per uccidere Porsenna, colpì per sbaglio uno scrivano del re. Catturato, con grandissimo coraggio “punì” la sua mano destra bruciandola in un braciere. Porsenna, ammirato, decise di concludere con i romani la pace. Da quel giorno Muzio fu chiamato Scevola, cioè “mancino”.

I MOSTRI DEGLI ABISSI

Nel fondo degli oceani vivono animali dalle forme strane: la forte pressione alla quale sono sottoposti e l’assenza completa o quasi di luce sono i fatti che hanno condotto gli esseri che vivono negli abissi marini ad assumere aspetti quasi mostruosi. Queste difficili condizioni comportano una ridotta possibilità di vita e perciò gli animali presenti alle alte profondità sono poco numerosi sia come numero di specie sia come quantità totale.

Mancanza di luce significa assenza di vegetazione: come tutti sanno, infatti, le piante possono svilupparsi solo grazie alla luce solare, essendo questa la fonte insostituibile di quella sintesi clorofilliana che regola le funzioni vitali dei vegetali. L’elemento fondamentale per la vita negli abissi è quindi sostituito con i resti di organismi che vivono più in alto e che precipitano sul fondo.

Gli animali abissali si suddividono perciò in due sole categorie: i consumatori di detriti e i loro predatori.
I primi trovano il loro alimento nella “pioggia” di sostanze organiche morte che cade dagli strati superficiali del mare.
I secondi si nutrono dei primi. Al di sopra di tutti, i calamari giganti, che qualcuno considerava frutto della fantasia umana e quindi personaggi degni di figurare solo nei romanzi di avventure, ma la cui esistenza è stata realmente dimostrata.

 

FRUTTA MATURA E ACERBA

La differenza è dovuta al fatto che le sostanze chimiche contenute nel frutto maturo sono assai diverse da quelle contenute nel frutto acerbo. Il maturarsi del frutto non è che un susseguirsi di vari cambiamenti chimici, di successive alterazioni, definite e precise, come quelle che avvengono in un laboratorio chimico. Nel frutto acerbo si trovano grandi quantità di acidi. L’acido malico si trova nelle mele acerbe; l’acido citrico si trova nelle arance, nei limoni e nei cedri. Il frutto matura quando la pianta, aiutata dal calore del sole, trova in sè le forze necessarie per mutare la composizione chimica di questi acidi. Probabilmente l’ossigeno dell’aria, combinandosi con gli acidi stessi, li brucia, o per lo meno li trasforma completamente. Ed è così che troviamo al loro posto una sostanza assai più complicata che si dice zucchero di frutta e che è dolce come tutti gli zuccheri. L’azione del sole è decisiva. In Italia ne abbiamo una prova lampante. Le uve dell’Italia meridionale, per esempio, sono molto più dolci, più cariche di zucchero, di quelle dell’Italia settentrionale. Queste potranno parere più gustose: ma ciò dipende non dallo zucchero bensì dagli aromi, dai profumi, che la speciale natura del terreno dà loro.

 

SARDEGNA: IL SUGHERO

Tempio Pausania (provincia di Sassari), capoluogo della Gallura, è il centro più importante della Sardegna e d’Italia per la lavorazione e il commercio del sughero. Le sugherete, boschi di querce da sughero spontanei o impiantati, sono tipiche dei Paesi mediterranei: Portogallo, Spagna, Algeria, Marocco, Tunisia e Italia. Da noi crescono in Toscana, Lazio, Sicilia, Calabria, ma soprattutto in Sardegna, su una superficie totale di 90 mila ettari. La Sardegna da sola fornisce 180 mila quintali di sughero l’anno, i due terzi della produzione nazionale, ma nel triangolo Tempio Pausania-Luras-Calangianus se ne lavorano almeno 50 mila in più, che vengono importati dalla Spagna e dal Portogallo per far fronte alle richieste del mercato.

Coltivare sughero non è semplice, richiede pazienza e attenzione: per avere una produzione abbondante e di buona qualità le piante devono aver raggiunto almeno i 10 anni di età. Se vengono scorticate prima per vendere il prodotto, deperiscono rapidamente. E questo purtroppo succede e danneggia irreparabilmente il futuro della produzione. Quando la pianta ha raggiunto il giusto grado di sviluppo, si effettua la demaschiatura, cioè l’asportazione del sughero maschio o sugherone di qualità scadente. A questo punto la pianta incomincia a produrre il sughero migliore (femmina o gentile), che s’ispessisce sempre più e viene asportato dopo nove anni almeno. Dopo altrettanti anni di attesa si ripete l’operazione e così via per tutta la durata del bosco, che può essere anche di cento anni. Lo scortecciamento si esegue d’estate e interessa di volta in volta una superficie sempre più ampia di tronco fino ad arrivare ai rami. L’impianto di una nuova sughereta deve rispettare una certa distanza tra le piantine perchè le sugherete hanno bisogno di molta luce e di spazio; è necessario inoltre estirpare le erbe infestanti e il sottobosco, lasciando strisce di terreno prive di vegetazione per limitare il pericolo di incendi, tanto frequenti d’estate in Sardegna. Le querce da sughero, però, sono piante resistenti, per così dire, agli incendi: infatti la corteccia è isolante e protegge la parte vitale dell’albero, che rinasce dopo l’incendio, anche se questo ritarda e riduce il raccolto successivo.
La raccolta del sughero occupa operai fissi e altri stagionali. A Tempio Pausania c’è dal 1952 una stazione sperimentale che studia gli aspetti biologici (l’albero e le sue malattie) e gli aspetti tecnologici della coltivazione del sughero (impiego del prodotto e dei suoi derivati).

Il sughero viene utilizzato per la fabbricazione di turaccioli, galleggianti, rivestimenti isolanti e linoleum. Dalla lavorazione di un quintale di sughero si ricavano 10 mila turaccioli, che sono tanto migliori quanto migliore è la qualità della materia prima.

SENSIBILITA’ DI UN ELEFANTE

Quando si parla di una persona incapace di avvertire i piccoli problemi psicologici del prossimo, si dice che ha la “sensibilità di un elefante”. Niente di più errato, almeno a giudicare dal comportamento in natura degli elefanti, specie nei riguardi dei loro piccoli. Quando nasce un piccolo elefante, la madre è assistita da un’amica che si presta a far da ostetrica, mentre i maschi si dispongono intorno, in circolo, con le zanne rivolte all’esterno per scoraggiare ogni intruso. Per i primi tempi la madre si tiene l’elefantino fra le zampe per assicurargli la massima protezione, e quando il branco si sposta il piccolo viene sempre aiutato a guadare un fiume o a oltre passare un dirupo. Ma può succedere che la madre muoia: in questo caso c’è sempre un’altra femmina pronta ad adottare il giovane orfano e ad allattarlo come un proprio figlio. Più sensibili di così.

 

SICILIA: GLI AGRUMI

Secondo la leggenda, fu il mitico Ercole a diffondere la coltivazione degli agrumi, dopo aver ucciso il mostro che era a guardia del giardino delle Esperidi, dove questi frutti erano custoditi. In realtà si sa che gli agrumi sono originari dell’Asia orientale e meridionale e che sono giunti in Europa in varie epoche a seconda delle zone. In Sicilia sono stati portati come piante ornamentali dagli Arabi nell’VIII secolo.

Dapprima gli aranci e i limoni furono coltivati esclusivamente nei giardini dei palazzi e delle moschee e curati da esperti giardinieri persiani, ma poco alla volta si diffusero in tutta l’isola. Venivano utilizzati soprattutto per la preparazione di farmaci e profumi. Del resto le loro qualità salutari sono sottolineate ancora oggi dai medici che consigliano di mangiarne molti, soprattutto perchè ricchi di vitamine (A, B, C e P).

La produzione di profumi prese l’avvio in Italia nel Rinascimento e si basava appunto sull’acqua di arancia o sull’essenza di bergamotto. Verso la fine del Settecento gli agrumi fecero finalmente la loro comparsa sui mercati ed entrarono nell’alimentazione. Venivano coltivati ormai in tutto il bacino del Mediterraneo, lungo le coste asiatiche e africane, e in America.

Fino agli inizi del Novecento Italia e Spagna sono state le maggiori esportatrici di agrumi, ma poi sono state affiancate o superate da Stati Uniti (California e Florida), Marocco, Algeria, Grecia, Libano, Israele, Brasile e Sudafrica. Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale si è quintuplicata, causando addirittura una crisi sui mercati mondiali che ha portato molti Paesi a distruggere le produzioni in eccesso per evitare un crollo dei prezzi.

Attualmente il maggior produttore di agrumi è il Brasile, mentre l’Italia copre solo il 5 per cento del mercato, esportando il proprio prodotto soprattutto in Europa e in Canada. Tra le regioni italiane, la Sicilia è al primo posto, con più di 2 milioni di tonnellate di agrumi, seguita dalla Calabria. Più in dettaglio, la Sicilia produce ogni anno quasi 13 milioni di quintali di arance di diverse qualità, 6 milioni di quintali di limoni e 1 milione e 100 mila quintali di gustosissimi mandarini.

La Sicilia ha il clima ideale per la coltivazione degli agrumi che temono il freddo. Infatti, se talvolta ci capita di vedere piante di agrumi in altre zone non altrettanto calde, è perchè sono state costruite protezioni (come le serre) o ci troviamo in presenza di località che godono di un clima mite.

L’ORTICA

Le foglie dell’ortica sono coperte di peli ruvidi che penetrano nella nostra pelle come tanti spilli. Questi peli sono canaletti pieni di un liquido fortemente irritante e se esso penetra sotto la nostra pelle, anche in piccole quantità, ci procura appunto fastidio e bruciore.

L’acido dell’ortica si chiama formico perchè si trova anche nel corpo delle formiche. Si tratta di una delle tante armi di difesa che la natura ha messo a disposizione delle piante e degli animali; come i denti velenosi del serpente, l’inchiostro di cui si vale la seppia per nascondersi ai suoi nemici, l’olio velenoso che si trova nelle foglie di certe piante e così via.

 

LAZIO: IL FORMAGGIO

Prima della completa bonifica degli anni Trenta dell’Agro Pontino che si stende nella parte meridionale del Lazio, in provincia di Latina, la principale attività della regione era la pastorizia. Il patrimonio ovino del Lazio era il secondo in Italia dopo quello della Sardegna. Nei primi decenni del nostro secolo era possibile assistere frequentemente al passaggio delle greggi per le vie del centro di Roma. I pastori conducevano pecore e capre sui monti in estate e poi le riportavano in pianura in autunno.
Oggi la pastorizia non è più attività trainante dell’economia laziale, ma fa ancora parte del panorama economico della regione e, soprattutto, ha lasciato una grande tradizione in fatto di formaggi fabbricati con latte di pecora. A questi si sono aggiunti altri formaggi di latte di mucca (mozzarella e caciotta), perchè attualmente l’allevamento dei bovini e dei bufali è più sviluppato di quello degli ovini.

La produzione casearia resta prerogativa della provincia laziale, anche se Roma ha via via concentrato nella sua zona di influenza tutte le principali e più redditizie attività della regione, insieme con i tre quarti della popolazione. Il pecorino romano, la mozzarella, le caciotte e la ricotta, per citare i prodotti più famosi, vanno ad arricchire la lunga lista dei formaggi di produzione italiana (circa 400), molti dei quali vengono esportati in Europa e nel mondo intero.

I produttori più rispettosi della tradizione temono l’eccessiva industrializzazione della produzione a scapito della qualità e del gusto e difendono gli autentici formaggi laziali, che vengono preparati secondo le antiche regole. Per fare il pecorino, come dice il nome stesso, viene utilizzato latte di pecora riscaldato a 38 gradi. Si procede poi alla coagulazione con caglio in pasta che si realizza in 15-20 minuti. La cagliata viene frantumata, portata a 48 gradi di temperatura per 10-12 minuti e poi compressa con le mani in ogni senso. Si passa poi alla “frugatura” per purificarla del siero e ad una nuova compressione, per una ventina di minuti. Dopo due giorni si inizia la salatura che dura due mesi. L’ultima operazione è la stagionatura nella “caciaia” per 7-8 mesi ad una temperatura di 15-20 gradi. Il risultato è giudicato ottimale se la forma ha la crosta bruna, la pasta granulosa, senza occhiatura e un sapore un po’ piccante.

Pare che gli antichi Romani, e Plinio in particolare, apprezzassero il pecorino tanto da dire che aveva il sapore degli dèi.

SEGNI DELLO ZODIACO: SAGITTARIO

Dal 23 novembre al 21 dicembre ci si trova, secondo gli astrologi, nel segno del Sagittario. Di fatto gli astri, nel periodo che va dal 29 novembre al 17 dicembre, mostrano l’allineamento Terra-Sole-Costellazione dell’Ofiuco. Quindi i nati in questo periodo sono degli “orfani” astrologici, perchè negli oroscopi non si parla assolutamente dell’Ofiuco.

Nella Costellazione dello Scorpione, si narra del fatale e letale incontro fra il gigante Orione e il terribile aracnide velenoso.
Evidentemente la misera fine del grande cacciatore non poteva rimanere impunita. Così, nel sesto secolo avanti Cristo, un certo Cleostrato di Tenedo disegnò la figura zodiacale del Sagittario che, anche se non appartiene a particolari storie mitologiche, è sistemato in cielo in modo da scoccare le sue frecce proprio contro lo scorpione.
Secondo una tradizione militaresca, la costellazione del Sagittario vuole celebrare l’invenzione dell’arco e delle frecce.

Nel Sagittario, che alle nostre latitudini è molto basso sul l’orizzonte, non brillano stelle di grande luminosità, anche se questa è la zona più luminosa della Via lattea.

L’”alfa Sagittarii”, o Rukbat (dall’arabo “Ginocchio dell’arciere”, è cento volte più luminosa del Sole e dista da noi 250 anni luce.

Altre stelle “arabe” sono la “gamma Sagittarii”, o Alnasi (“Punta della freccia”), e “lambda Sagittarii”, o Kaus (“L’arco”).

La stella più luminosa della costellazione è “eta Sagittarii” che si trova a 140 anni luce dalla Terra.

In prossimità delle stelle che costituiscono l’arco del Sagittario vi sono molti ammassi stellari e nebulose, in gran parte osservabili con piccoli telescopi.

In direzione del Sagittario si trova il centro della nostra Galassia.
Gli ammassi stellari che appaiono numerosi nella Costellazione del Sagittario sono di due tipi: del tipo “aperto”, cioè associazioni di stelle il cui numero varia dalle dodici alle centoventi unità; oppure del tipo “globulare”, in cui è praticamente impossibile distinguere la quantità di stelle che li compongono. Si calcola che in quest’ultimo tipo di ammassi si trovino dalle 50 mila ai 50 milioni di stelle.

Nel Sagittario troviamo alcune nebulose bellissime da osservarsi al telescopio. La più nota è, senza dubbio, la M20, o “Nebulosa trifida”, così chiamata per la sua particolarissima forma a tre lobi.
E’ interessante notare, in questa nebulosa, che la parte superiore è illuminata per “riflessione” da una grande stella, un pò come la Terra e i pianeti vengono illuminati dal Sole; mentre la parte inferiore è illuminata per “eccitazione” da un sistema di stelle multiple, che causano un fenomeno di fluorescenza simile ai nostri tubi al neon. Nella trifida si trovano alcune piccolissime macchie scure, o globuli, che, secondo gli astronomi, sono stelle sul punto di nascere.

Potremmo quindi dire che questa nebulosa è una vera e propria incubatrice stellare.
La più brillante delle nebulose presenti nel Sagittario è la M17, detta anche “Nebulosa omega”.

OCCHIO DI LINCE

Si dice avere l’occhio di lince perchè la lince ha una vista formidabile. I suoi occhi giallo-verdastri fecero pensare, nel Medioevo, a una vista tanto penetrante da poter trafiggere le pietre. Come quella di Linceo, pilota degli Argonauti e figlio di Afareo, che secondo il mito era in grado di vedere oltre gli oggetti opachi. E’ stato questo eroe mitologico a dare alle linci il nome e la leggenda. La vista di questi animali è straordinaria ed è in grado di distinguere gli oggetti anche quando c’è poca luce. Un biologo tedesco ha dedicato molti anni allo studio di questi animali ed ha stabilito che la lince distingue un topo alla distanza di 75 metri, un coniglio a 300 metri e un capriolo a 500 metri.

La lince, chiamata anche “la grande cacciatrice”, vive su alcuni monti della Penisola iberica. Oltre alla vista, ha anche un udito eccezionale. Le orecchie di questo animale portano all’estremità un ciuffetto di peli, che ha la funzione di scacciare gli insetti. Durante la siesta dei pomeriggi afosi, non potendo usare la coda per allontanare tafani e zanzare, perchè troppo corta, se ne libera voltando la testa e agitando le orecchie.

 

LE TROMBE D’ARIA

La tromba d’aria è un fenomeno atmosferico che consiste in un movimento vorticoso dell’aria sulla terraferma. Non si conoscono ancora con certezza le cause di questo fenomeno. Secondo molti studiosi, comunque, la tromba d’aria nasce dall’urto di una massa d’aria calda e umida con un’altra massa d’aria fredda e secca. La forte perturbazione, che deriva dalla mescolanza di queste due masse d’aria, genera un mulinello, che diventa poi rapidamente un vortice di grosse dimensioni, nel cui interno l’aria calda sale velocemente verso l’alto provocando una fortissima depressione. E’ proprio questa depressione che causa i danni maggiori: spostandosi qua e là sul terreno, infatti, la tromba d’aria risucchia tutto ciò che incontra, sradicando alberi, scoperchiando case, sollevando automobili. La sua tremenda furia distruttrice dura generalmente una ventina di minuti.

Quando si verifica sul mare, la tromba d’aria viene chiamata tromba marina. In questo caso il vortice aspira l’acqua del mare sollevandola ad altezze considerevoli e si sposta mantenendosi in posizione verticale. Il diametro del vortice può variare dai 30 ai 1000 metri. Se è particolarmente violento, può sollevare come fuscelli anche le grosse imbarcazioni. In Italia le zone più colpite da trombe d’aria sono il Friuli, lo stretto di Messina e, in parte, le coste dell’Abruzzo, del Lazio e della Liguria.

 

PERCHE’ IN MONTAGNA FA FREDDO

La temperatura che si registra in un determinato luogo non dipende dalla maggiore o minore lontananza dal Sole. La Terra dista mediamente dal Sole quasi 150 milioni di chilometri: perciò la differenza di poche centinaia o migliaia di metri (cioè il dislivello tra mare e montagna) è assolutamente ininfluente.

Le sensazioni di caldo o di freddo che noi proviamo dipendono dalla temperatura dell’aria.  Ma l’aria non è dappertutto uguale. L’atmosfera che circonda il nostro pianeta ha uno spessore di migliaia di chilometri, ma le sue condizioni di densità e pressione variano con l’altezza. Basta pensare che il 90% dell’intera massa d’aria si trova al di sotto di 17 chilometri di quota. L’atmosfera è insomma particolarmente densa a livello del mare e va rarefacendosi verso l’alto.

Ora bisogna tenere presente che l’aria più è densa e più ha capacità di assorbire il calore. Ma soprattutto bisogna considerare che l’aria si scalda non tanto per la radiazione diretta del Sole quanto piuttosto per la radiazione a onde lunghe proveniente dalla superficie terrestre. Ecco perchè negli strati bassi (e quindi al mare) è normalmente più calda che negli strati alti (e quindi in montagna). Sino a circa 13 chilometri di altezza la temperatura dell’aria diminuisce gradatamente e in modo regolare, alla media di 6,5 gradi centigradi per ogni chilometro di quota.

 

IL REFERENDUM

Perchè si chiama referendum? Che sia una parola latina è facile da capire. Si usava, nel passato, insieme a un’altra parola, nella seguente espressione: convocatio ad referendum, che vuol dire “convocazione per riferire”. Oggi il suo significato più usuale è quello di intervento popolare, mediante il voto, per decidere direttamente, e non attraverso il Parlamento, su singole leggi.

Bisogna ricordare che negli Stati moderni, in cui il potere di fare le leggi spetta al Parlamento (deputati e senatori), il popolo normalmente non interviene per decidere quale legge deve essere fatta. Può succedere però che i politici perdano contatto con i problemi veri della gente e in qualche caso approvino leggi che contrastano con la volontà popolare. Allora si dà la possibilità a tutti i cittadini con diritto di voto di esprimere direttamente il loro parere, approvando o disapprovando, proprio mediante referendum, ciò che la legge stabilisce.

Ecco cosa dice la Costituzione all’articolo 75: “E’ indetto il referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”.

Quindi, una volta che 500.000 persone hanno fatto richiesta (raccolta di firme) di abrogare (annullare) o cambiare una legge, il referendum avrà luogo.

LA UNION JACK

L’espressione Union Jack significa letteralmente “bandiera dell’Unione”, cioè la bandiera del Regno Unito (Gran Bretagna e Irlanda del Nord): è nata all’inizio del XVII secolo, quando fu adottato un vessillo che “riassumeva” quelli dei due regni, uniti sotto un unico sovrano.

L’attuale bandiera britannica è una combinazione di bandiere diverse. All’origine c’era la bandiera inglese, che presentava la croce rossa di san Giorgio (patrono dell’Inghilterra) su un drappo bianco. Nel 1603, alla morte della regina Elisabetta I, il re di Scozia Giacomo I divenne re d’Inghilterra e tre anni dopo adottò, come simbolo dei due regni uniti, una nuova bandiera che fondeva insieme quella inglese e quella scozzese (formata quest’ultima da un drappo blu con la croce bianca di sant’Andrea).

Un’ulteriore modifica fu fatta all’inizio del secolo scorso. Il 10 agosto 1800, infatti, avvenne l’unificazione dell’Irlanda con l’Inghilterra e fu introdotto il nuovo vessillo che alle croci di san Giorgio e di sant’Andrea aggiungeva quella rossa di san Patrizio, patrono dell’Irlanda.

GLI ANIMALI E IL LETARGO

Il letargo è lo stratagemma con cui la natura aiuta certi animali a superare il periodo più freddo dell’anno. Non è però semplicemente un lungo sonno invernale. Il vero letargo è qualcosa di più: la respirazione si fa decisamente più lenta, il battito cardiaco è quasi impercettibile, la temperatura del corpo si abbassa a 10-15 gradi, l’apparato digerente è praticamente inattivo e anche la sensibilità ridotta al minimo.

Al momento di cadere in letargo l’animale ha accumulato nel suo corpo notevoli riserve di grasso, da cui attinge le energie necessarie per sopravvivere, perchè il grande sonno può durare parecchie settimane durante le quali l’animale non mangia nulla.

Il record di durata del letargo spetta al ghiro, che dorme per sei mesi filati. Quando il clima si fa mite, il piccolo roditore si sveglia, mangia una buona quantità di gemme e frutti e si riaddormenta ancora per qualche tempo.

Tra i mammiferi, vanno in letargo anche le marmotte e i ricci. Gli orsi, gli scoiattoli e i pipistrelli, invece, trascorrono l’inverno in uno stato di semiletargo: dormono molto, ma di tanto in tanto si svegliano e vanno in cerca di cibo.

Nei paesi freddi sono molti gli animali che cadono in letargo nel periodo invernale: serpenti, lucertole, chiocciole terrestri, tartarughe, rospi, rane, tritoni, vermi, farfalle e tanti altri insetti.

 

PERCHE’ A PASQUA “SI SCIOLGONO” LE CAMPANE

Le campane hanno sempre avuto grande importanza nella vita dei cristiani. Dall’alto dei campanili delle chiese suonano tutti i giorni per annunciare la celebrazione della messa o altre funzioni religiose: benedizione eucaristica, battesimi, matrimoni, funerali. Tacciono soltanto il Venerdì Santo e il Sabato Santo, cioè nei giorni in cui si ricorda la morte di Gesù. In tale occasione le campane sono “legate”, una parola che oggi ha un significato metaforico, ma che in passato rispondeva alla realtà. Un tempo, infatti, le campane venivano effettivamente legate con una corda, affinchè non emettessero alcun suono, neanche qualora fosse il vento impetuoso a farle oscillare. E venivano sciolte a Pasqua. Anche oggi si usa dire che a Pasqua “si sciolgono le campane” per indicare che a mezzanotte tra il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua le campane tornano a suonare, gioiosamente, per ricordare la risurrezione di Gesù.

 

PERCHE’ IN PRIMAVERA ARRIVANO LE RONDINI

Le rondini vivono, durante la bella stagione, in quasi tutta l’Europa, nella fascia centrale dell’Asia, negli Stati Uniti e nella parte meridionale del Canada. Verso la fine di settembre, all’arrivo dei primi freddi, questi uccelli cominciano a migrare verso territori più caldi. Dall’Europa e dall’Asia si dirigono verso l’Africa, dal Nordamerica vanno invece a svernare nella parte superiore del Sudamerica.

All’inizio della primavera le rondini lasciano i quartieri di svernamento per tornare nei territori di nidificazione. Gli esemplari che ricompaiono nelle nostre regioni arrivano dall’Africa.
Al loro ritorno le rondini si preoccupano innanzitutto del nido. Se il vecchio nido, lasciato pochi mesi prima, è ancora in buone condizioni, la rondine ne riprende possesso e provvede rapidamente ai piccoli lavori di restauro. In caso contrario, inizia subito la costruzione di una nuova “casa”, utilizzando minuscoli ramoscelli, fili d’erba e fango. I nidi, a forma di mezza coppa, sono situati generalmente all’interno di edifici rurali, sotto le grondaie o in altri posti ben riparati.

 

MOLISE: LA PASTA

Nella “sagra del Convito”, che si svolge a Campobasso il giorno di San Giuseppe, c’è un pò tutta l’economia molisana, la sua semplicità e la sua genuinità tradizionale. Abbondanti pranzi, composti da tredici portate e accompagnati da grandi bevute di vino locale, vengono offerti anche ai turisti. Nell’occasione si rinnova un’antica tradizione, quella di permettere anche ai meno abbienti di vivere una giornata da signori davanti ad un lauto pranzo. Il menù, naturalmente, prevede i piatti tipici della regione ed è preparato con ingredienti tutti di produzione locale: lenticchie, fagioli, verdure, maccheroni con acciughe e tonno, spaghetti con la mollica, baccalà, riso dolce con latte, calzoni ripieni di pasta di ceci e miele serviti con il pane cotto, secondo le antiche usanze, con vini bianchi e rossi. Le portate a base di legumi e pasta trionfano; del resto la produzione molisana in questi due settori è notevole, soprattutto se considerata rispetto all’economia in generale che non può certo definirsi fiorente.

Il Molise, infatti, è sempre stato penalizzato dalla natura del suo territorio, in prevalenza montagnoso, aspro e selvaggio. Per questo nei decenni passati ha assistito ad una massiccia emigrazione dei suoi abitanti alla ricerca di posti di lavoro. Negli spazi ridotti in cui è possibile praticarla, l’agricoltura fornisce soprattutto grano, girasole, granoturco, fagioli, fave, molto utilizzate nell’alimentazione quotidiana locale, meloni e olive, con una discreta produzione di olio.

Negli ultimi anni è stato compiuto anche uno sforzo notevole per sviluppare industrie alimentari che sfruttassero i prodotti della terra, e sono così sorti pastifici, zuccherifici, industrie conserviere ed oleifici. Il settore sul quale oggi si punta maggiormente è quello della produzione industriale della pasta, il cui consumo nel mondo è in aumento grazie alla sempre più incalzante diffusione della dieta mediterranea. Il Molise è già presente coi suoi prodotti sul mercato, ma la concorrenza interna ed estera è grande. In Italia ci sono molte industrie che producono tonnellate di pasta di grano duro di moltissimi formati diversi, una produzione che ci colloca nettamente al primo posto nel mondo.

Per il Molise, come per tutti i produttori minori, si tratta di superare i confini regionali e di sviluppare una rete di vendita su tutto il territorio nazionale, rivolgendosi in particolare al Meridione d’Italia che assorbe i due terzi della produzione nazionale di pasta.

PERCHE’ LE ZANZARE PUNGONO

Ogni volta che arriva il caldo rispunta il problema delle zanzare. La zanzara è un insetto che appartiene all’ordine dei ditteri. Si dice che ce ne siano duemila specie sparse in tutto il mondo. Fra le più pericolose, quelle del genere Stegomya, che sono responsabili della trasmissione della febbre gialla, e le famigerate Anopheles, portatrici della malaria.

Quelle italiane sono in maggioranza “zanzare pigolanti”, così chiamate per la nota acuta che emettono. Suono che nasce dal movimento rapido delle ali (tremila vibrazioni al secondo). E’ una zanzara abbastanza innocua: si limita a succhiare qualche goccia di sangue e a provocare prurito.
Chi punge è soltanto la femmina. I maschi sono inoffensivi. Inoltre hanno vita breve. Si nutrono di succhi vegetali.

Perchè la zanzara punge? Perchè solo nel sangue l’insetto femmina trova il nutrimento necessario per deporre uova sane e robuste.
La zanzara cerca una zona dove la pelle ricopre un vaso sanguigno. Qui applica la sua corta e larga proboscide che contiene tutti i “ferri chirurgici” necessari per anestetizzare, incidere la pelle, iniettare una goccia di saliva mista a sostanze anticoagulanti (quella che poi provocherà prurito), infine aspirare il sangue.

Le zanzare hanno bisogno dell’acqua per compiere il ciclo vitale. Solo sull’acqua, purchè stagnante, le femmine depongono le uova (dalle 200 alle 400 per volta) sapendo che qui le larve troveranno il cibo necessario. Acqua vuol dire uno stagno, ma anche soltanto una pozzanghera o poche gocce rimaste sul fondo di un vaso.

Come difenderci? I medici dicono che si può fare ben poco, se non cercare di prevenire l’assalto di questi insetti con sistemi in commercio che tutti conoscono. Ottimi sono i liquidi protettori da spalmare sulla pelle.

SEGNI DELLO ZODIACO: VERGINE

I nati nella Vergine, dal 23 agosto al 22 settembre, sono, secondo gli astrologi, dotati di una certa modestia. In questo mese si ha, di fatto, l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Leone, quindi i “vergini” diventano “leoni” che sono, così si dice, fieri e orgogliosi.

Secondo alcune leggende mitologiche, la Vergine è la figlia di Aurora che, come tutti sanno, è la bellissima dea che precede il Sole il quale viaggia sul suo maestoso e splendente cocchio dorato. Il poeta greco Esiodo che, per motivi personali, aveva avuto qualche screzio coi giudici del tempo, dice che la Vergine rappresenta Dike Astrea, la dea della giustizia che si era ritirata in cielo, dato che in terra non c’era più posto per lei. Per altri la Vergine è Demetra, la dea dell’agricoltura (chiamata Cerere dai Romani), in quanto la stella più splendente è Spiga, cioè la spiga di grano. Ma la storia più commovente è quella in cui la Vergine è Erigone, la figlia di Icario. Icario era un semplice e mite contadino al quale Dioniso (Bacco), in segno di gratitudine per la sua ospitalità, aveva regalato del vino, allora sconosciuto, e aveva insegnato l’arte della viticoltura. Icario, tutto contento del dono ricevuto, invitò gli altri contadini ad assaggiare la nuova bevanda. Per farla breve, questi si ubriacarono e uccisero il povero Icario, credendo che questi li avesse avvelenati.

Erigone, la figlia di Icario, che stava custodendo gli armenti in un pascolo piuttosto lontano, ebbe la notizia del fatto direttamente dal fantasma del padre, che, supplicandola, le chiese di cercare la sua sepoltura. Seguita dalla sua fedele cagna Maira, Erigone cercò e cercò con la più profonda disperazione le spoglie del padre. Quando le trovò, sopraffatta dal dolore, si impiccò a un albero. Attirati dai lamentosi latrati della cagna, alcuni viandanti scorsero Erigone appesa all’albero e, misericordiosamente, la seppellirono.
Nemmeno a dirlo, la povera cagna morì di crepacuore sulla tomba della padrona. A questa tragedia si commosse persino Giove, che trasferì gli sfortunati protagonisti direttamente nel firmamento, trasformando Icario nella Costellazione di Boote (il guardiano dei buoi), Erigone in quella della Vergine e la cagna Maira nella stella Sirio, che splende nella Costellazione del Cane maggiore.

La Vergine è una costellazione primaverile. Possiamo osservarla, sui nostri cieli, per tutto il periodo che va dalla fine di marzo alla fine di luglio.

La stella più importante della Costellazione della Vergine è “alfa Virginis”, che si chiama Spica o Spiga, con chiaro riferimento alle origini agricole di questo segno zodiacale. Spiga è più di mille volte più luminosa del nostro Sole e, per fortuna, si trova alla ragguardevole distanza di 220 anni luce.

“Beta Virginis”, o Alaraph, è soltanto due volte più luminosa del Sole.
”Gamma Virginis” è una delle stelle doppie più famose fra gli astronomi. E’ infatti composta da due stelle di pari luminosità, lontane dalla Terra 35 anni luce.
Un’altra stella che non scherza in quanto a luminosità è “delta Virginis” o Minelauva, che equivale a 400 dei nostri Soli.
”Epsilon Virginis”, o Almuredin o anche Vindemiatrix, è così chiamata poichè un tempo, con il suo sorgere eliaco (poco prima del Sole), annunciava l’epoca del raccolto dell’uva. Anch’essa ha una luminosità che è almeno quaranta volte più intensa di quella del nostro Sole.
”Zeta Virginis”, conosciuta anche con il nome di Heze, è, al pari della compagne nominate, molto ben visibile a occhio nudo.

Nella Costellazione della Vergine si trovano moltissime nebulose, sia sotto forma di ammassi, sia come strutture singole. Ce ne sono di tutti i tipi, tutte ai limiti della visibilità dell’occhio umano.
Una di queste, la M87, possiede un “jet”, o protuberanza, osservabile soltanto con strumenti adeguati. La nebulosa a spirale M104 è chiamata, per la sua forma caratteristica, “Nebulosa a sombrero”.

PERCHE’ L’AGNELLO E LA COLOMBA SONO SIMBOLI DELLA PASQUA

L’agnello si ricollega all’episodio biblico della liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana. Prima di mettersi in viaggio verso la Terra Promessa, gli israeliti ricevettero l’ordine di sacrificare in ogni famiglia un agnello e di segnare con il suo sangue le imposte delle loro case. Nella notte l’angelo del Signore imperversò sui sudditi del faraone facendo morire tutti i primogeniti degli uomini e degli animali, ma risparmiò le case degli ebrei segnate con il sangue dell’agnello. Per i cristiani questo animale mite e innocente divenne il simbolo di Gesù: l’Agnello di Dio che con il suo sacrificio ha liberato gli uomini dalla schiavitù del peccato.

La colomba ricorda invece il racconto biblico del diluvio universale: cessata la pioggia, Noè fece uscire per tre volte dall’arca una colomba. Quando questa tornò portando un ramoscello d’olivo. Noè capì che le acqua si erano abbassate, segno che l’ira divina era ormai placata e la terra era di nuovo abitabile. Per i cristiani la candida colomba (come pure l’olivo) simboleggia la pace tornata tra cielo e terra, la riconciliazione dell’uomo con Dio operata da Gesù con la sua morte e risurrezione. Alla festa di Pasqua è legata anche la tradizione delle uova colorate o di cioccolata. L’uovo dà origine a un nuovo essere. E’ considerato perciò un simbolo della vita, in particolare della nuova vita predicata da Gesù e “provata” dalla sua risurrezione.

 

PERCHE’ SI DICE “SEMBRA UNA SFINGE”

E’ un modo di dire per indicare qualcuno che non lascia capire quello che pensa, oppure perchè è per natura enigmatico e strano.
La Sfinge è una figura mitologica presente nelle antiche civiltà del Mediterraneo, in particolare in Grecia e in Egitto.

Nella mitologia greca la Sfinge è raffigurata come un mostro con il volto di donna, il corpo, le zampe e la coda di leone, le ali di uccello rapace. Secondo la leggenda, la Sfinge si trovava su un’alta rupe lungo la strada di Tebe, in Beozia, e proponeva a tutti i passanti un difficile enigma: “Qual è quell’animale che all’aurora cammina con quattro zampe, al meriggio con due e alla sera con tre?”. Poichè nessuno sapeva rispondere, il mostro uccideva e divorava tutti i viandanti. Ma un giorno passò di lì Edipo, il quale sciolse l’enigma (“L’uomo”, fu la risposta, “che quando è bambino cammina a quattro zampe; quando è grande con due e quando è anziano si aiuta con il bastone”). La Sfinge per la disperazione si buttò giù dal precipizio e non si fece più vedere.

Diversa è la raffigurazione della Sfinge nell’arte egiziana. Qui appare come una figura con il corpo di leone e la testa di uomo (generalmente il faraone). Al posto della criniera c’è il copricapo reale con due appendici che scendono sul petto. Solo raramente la Sfingi egiziane hanno le sembianze femminili: in tal caso raffigurano una regina o una dea.

La Sfinge più famosa è quella colossale che si trova presso le piramidi di Giza. E’ stata scolpita su un grande nucleo roccioso naturale ed ha il volto del faraone Chefren: è lunga 57 metri e alta 20.

LA PERLA DELLA LIGURIA: PORTOFINO

Il mare profondo della Liguria batte contro coste alte e rocciose: è la principale attrazione del turismo italiano e internazionale. Ma questo mare non è soltanto bellissimo, esso rappresenta anche la fonte primaria del commercio e dell’industria liguri, la via insostituibile per i traffici di questa regione stretta fra acqua e montagne, priva di pianure per respirare.

Se si percorre tutto l’arco della costa ligure su un atlante, si notano due escrescenze più grandi: il promontorio che chiude a ovest il Golfo di La Spezia e quello che sporge tra Rapallo e Camogli e comprende la Punta di Portofino.

Il fatto di trovarsi un pò distanti dalle strade che percorrono la costa ha fatto sì che questi due luoghi si salvassero dalla valanga di case che, su quasi tutto il resto del litorale, ha invaso il paesaggio. Infatti, se in automobile si viaggia da Ventimiglia alle Cinque Terre (vicino a La Spezia) ci si accorge come le uniche zone verdi della Liguria siano queste.

Delle due zone sfuggite al cemento, Portofino è certo la più importante e fantastica: veramente un luogo unico in cui si può ancora osservare quale fosse la natura di questa riviera prima dei guasti compiuti dall’uomo. Il quale uomo sembra che non si rassegni di essersi lasciato sfuggire la preda: e ogni anno tenta, soprattutto con gli incendi, di porre anche su questo piccolo paradiso il suo marchio.

Il Monte di Portofino non è grande: appena 1500 ettari. Ma in questi pochi chilometri quadrati c’è davvero tutto.
Arrivando al Monte dall’entroterra ci troviamo avvolti in un ambiente prealpino: un folto bosco di castagni e carpini, fresco e umido, che giunge fin quasi sulla vetta. Nell’ombra verde fioriscono piante tipiche delle montagne: centauree montane, crochi violacei, scille, genziane di bosco, mentre frassini e querce spuntano tra i castagni.

Qui, dove la vegetazione è più folta, vivono scoiattoli e ghiri, insidiati dalle volpi piuttosto numerose; d’estate vi nidificano i rigogoli e in autunno vi sostano molti migratori che calano dal Nord per andare a trascorrere i mesi freddi in Africa: tra questi la timida beccaccia, i veloci tordi, i potenti colombacci, tutte prede ambite dai cacciatori che qui, per fortuna, non possono entrare. Quando, giunti presso la vetta, attraversiamo il passo delle Pietre Strette e ci affacciamo sul mare, il paesaggio muta improvvisamente e radicalmente: l’ombrosa foresta lascia il posto alla macchia mediterranea.

Qui c’è il trionfo delle forme, dei colori e dei profumi che la brezza salmastra che sale dal mare esalta e moltiplica: ecco il lentisco dalle foglie piccole e lustre e dall’odore pungente; ecco il corbezzolo le cui bacche rosso fuoco e arancione spiccano sulle fronde verdissime; ecco il mirto delicato e profumato sia nelle foglie, sia nei fiori candidi, sia nelle bacche; ecco i ginepri compatti, le ginestre fiorite, i ruvidi cisti dalle foglie raspose e dai fiori di cartavelina rosata. Anche qui gli incendi hanno provocato ferite, che lentamente vengono coperte dai pini marittimi e dai pini d’Aleppo. Qui cantano i classici uccellini della macchia: la capinera, l’occhiocotto, la sterpazzolina. C’è qualcuno che crede che nei valloni più impervi viva ancora la bella lucertola ocellata, un sauro lungo fino a 80 cm con bellissime macchie sui fianchi. Sulle rupi a picco sostano i grandi gabbiani reali ed è possibile, ogni tanto, scorgere la sagoma del gheppio.

Ma la sorpresa più felice la troviamo sulla costa di Portofino. Le rocce tra cui sorge, nascosta, la meravigliosa abbazia di San Fruttuoso, sono sotto il pelo dell’acqua un vero campionario di organismi marini: alghe calcaree e alghe verdi, alghe brune e alghe rosse, gorgonie gialle e aranciate, spirografie flessuose inalberanti il ciuffo leggero dei tentacoli, spugne di ogni colore, anemoni di mare, attinie rosse. Più in basso, ove giungono solo i subacquei con gli apparecchi di respirazione, i mirabili coralli vermigli. Pesci, a causa di una pesca eccessiva, ce ne sono pochi.

Tutto il Monte di Portofino è oggi protetto per legge.