1820: LA RIVOLUZIONE SICILIANA
La fine dell’autonomia siciliana, nel 1816, e le riforme del ministro Luigi de’ Medici avevano suscitato un forte malcontento in molti ambienti siciliani. Soprattutto a Palermo, città privata delle sue funzioni di capitale, una crescente ostilità contro il governo napoletano accomunava nobiltà, ceto civile, borghesia impiegatizia e le masse di artigiani e operai organizzati in settantadue “maestranze”. La rivolta scoppiata a Palermo il 15 luglio fu una grande sollevazione popolare spontanea, promossa e diretta dalle corporazioni operaie e solo in un secondo tempo appoggiata dalla nobiltà separatista. Nobiltà e borghesia della città dovettero piegarsi alla pressione popolare. La giunta provvisoria di governo di Palermo, composta da nove esponenti della nobiltà e nove della borghesia, fu costretta ad accettare le richieste delle corporazioni: indipendenza della Sicilia, Costituzione spagnola, abolizione del servizio di leva obbligatorio, potere di veto da parte delle maestranze su tutti gli atti della giunta, riduzione delle tasse, difesa dei privilegi corporativi. Solo Agrigento, fra le città siciliane, si unì tuttavia alle rivendicazioni palermitane e una vera guerra civile si scatenò nell’isola quando bande armate attaccarono e saccheggiarono Caltanissetta, rimasta fedele a Napoli. I moderati e i democratici napoletani, convinti che la rivolta nascesse da un complotto dei baroni di Palermo, furono questa volta uniti nella volontà di reprimere la sommossa siciliana. La dura repressione, condotta dal generale Florestano Pepe, segnò non solo un profondo indebolimento della rivoluzione costituzionalista nel suo complesso, ma contribuì non poco al rafforzamento dello spirito separatista nella Sicilia occidentale.