QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

UGO FOSCOLO: LE GRAZIE

Questo carme allegorico-didascalico rimasto incompiuto fu ispirato al Foscolo dal gruppo scultorio delle Grazie, al quale lavorava Antonio Canova. L'opera si propone di liberare gli uomini dalla loro materialità e di innalzarli dalla bassa natura originaria alla bellezza di un mondo ingentilito dalle arti e dalla poesia.

Il carme si divide in 3 parti o inni:
- nel primo dedicato a Venere, dea della bellezza, l'azione si svolge in Grecia ed è cantata l'origine divina delle Grazie e il passaggio progressivo degli uomini dallo stato primitivo alla civiltà.
- il secondo, dedicato a Vesta, dea dell'ingegno, tratta dei riti compiuti da tre sacerdotesse davanti all'ara delle Grazie nel tempio di Bellosguardo, in Italia (le tre Grazie sono tre amiche del Foscolo: Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami, cioè la musica, la poesia, la danza).
- il terzo, dedicato a Pallade, dea della virtù, si svolge nell'isola di Atlantide, sperduta nell'oceano e vietata agli uomini; in essa Pallade prepara un velo, simbolo delle arti, col quale le Grazie potranno difendersi dai pericoli dell'amore violento e brutale.

Non è facile formulare sul carme un giudizio; nè i critici sono stati concordi nel valutarlo anche se riconoscevano la grandezza dei certi episodi e la coerenza dello stile. Infatti c'è chi ha ritenuto che lo stato frammentario in cui il carme è giunto fino a noi comprometta l'unità lirica e la validità dell'insieme, e c'è chi pensa, che la poesia delle "Grazie" debba dirsi episodica, e che l'incompiutezza riguardi la struttura, dovendosi in esse considerare raggiunto un esito artistico altissimo, in cui l'ispirazione e l'espressione trovano un'armonizzazione perfetta.
Qualche critico vede nel carme il capolavoro del Foscolo e il termine ultimo del suo itinerario artistico; per esservi ogni antefatto umano totalmente trasfigurato in poesia, a differenza dei "Sepolcri" dove non tutto sembra risolto e trasportato sul piano dell'arte.

UGO FOSCOLO: IL CARME DEI SEPOLCRI

Iniziato nel 1806, fu pubblicato a Brescia nel 1807: è in 295 endecasillabi sciolti e dedicato a Ippolito Pindemonte. Lo spunto occasionale a comporre il carme gli fu dato da una conversazione prima con Isabella Teotochi Albrizzi e poi con Pindemonte, il quale attendeva al poema "I cimiteri" in difesa del sentimento cristiano del culto delle tombe, che gli pareva violato da un editto napoleonico emanato a Saint-Cloud nel giugno del 1804 ed esteso all'Italia nel 1806. L'editto prescriveva  che i morti fossero seppelliti non nelle chiese o nei conventi, ma solo nei cimiteri posti fuori città (motivo igienico) e che le lapidi funebri fossero tutte uguali e che su di esse, non fossero incisi titoli o altri segni distintivi.

Il Foscolo meditando su quanto il Pindemonte aveva scritto, sentì l'alto significato che il culto delle tombe aveva nella storia degli uomini e nella vita civile di un popolo.

Nell'esordio (1-22) il Poeta si chiede a che cosa giovino le tombe per colui che ha perduto, morendo, i beni della vita. Risponde che esse non giovano a nulla, che anzi, una "forza operosa" travolge ogni cosa e l'uomo stesso. Prevalgono la cupa concezione dell'Ortis, l'ateismo illuministico.
Ma se le tombe sono inutili ai morti esse giovano ai vivi per 4 motivi:
1) motivi di sentimento (23-90) attraverso le tombe si stabilisce una "corrispondenza di amorosi sensi" tra il morto e il vivo (Tomba Parini)
2) motivi di storia (91-150) le tombe sono testimonianze delle imprese dei popoli. Esse sono tanto più venerate quanto più i popoli sono liberi e grandi (come quello inglese); sono invece un fasto inutile per i popoli fiacchi e servi (come gli Italiani del "bello italo regno" voluto da Napoleone).
3) motivi morali (151-225) le tombe dei grandi incitano gli uomini di forte animo ad imprese audaci e magnanime (così le tombe di Maratona fecero per i Greci; così le tombe di Santa Croce ispireranno gli Italiani, quando essi sapranno uscire dalla servitù presente e inizieranno la lotta per la loro indipendenza e la loro libertà) (Alfieri)
4) motivi di poesia (226-295) le tombe ispirano i poeti, i quali rendono immortali gli eroi (le tombe dei re troiani, ispirarono Omero, che cantò gli eroi greci e il valore sfortunato di Ettore, simbolo di tutti gli eroi, che combattono e muoiono per la loro terra).

Nel carme la poesia abbraccia l'antico e il moderno nella speranza che le miserie del presente possano essere riscattate dal passato e che le tombe dei grandi italiani, sepolti in Santa Croce, ispirino sentimenti di redenzione civile e morale, come avvenne ai Greci che trassero spirito di amor patrio dalle tombe di Maratona.
In questa trama Foscolo ha effettuato un volo pindarico cioè ha unito la storia antica con quella del suo tempo. Pindarici sono l'ispirazione, il tono e l'intento di accendere a nobili imprese gli animi sull'esempio delle grandi gesta del passato. L'atmosfera dominante è di ispirazione religiosa: ma è religiosità laica, che prende come oggetto di culto la storia, e avvicinandola al presente, restituisce ad esso i segni di una perenne modernità.

In questo mondo popolato di miti civili e di grandi personaggi, il poeta penetra con dignità sacerdotale, con l'intento di eternare la storia nel rito della poesia. Sotto la spinta di questa illusione il mondo di pensiero del Foscolo si allarga sempre più a una dimensione perenne in cui si esaltano gli elementi positivi quali la funzione purificatrice della bellezza, la corrispondenza d'amorosi sensi tra vivi e morti, il vincolo di solidarietà umana, la pietà per l'eroe vinto (Ettore).

Nei Sepolcri il Foscolo ha trovato veramente sè stesso come uomo e poeta: l'esasperazione dei sentimenti, gli sdegni impulsivi e gli abbandoni, le pose oratorie e l'enfasi verbale dell'Ortis sono un ricordo lontano. Il fine proposto era di scrivere un'opera che fosse un'audace guida degli animi intorpiditi; e tal fine tocca il segno, perchè la visione della vita espressa nel carme è resa più vitale e categorica dalla ragione poetica.

UGO FOSCOLO: LE ODI

La medesima necessità, vissuta nei sonetti, di ordinare ed equilibrare il proprio animo, di mitigare dentro di sè la commozione  poetica, di piegare l'esuberanza sua romantica alla misura classica e di cantarla con distaccata contemplazione artistica, ritroviamo nelle due odi:

- A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Mentre il Foscolo si trova a Genova, assediata dagli Austriaci, la Pallavicini, cade da cavallo e rimane ferita: la sua bellezza minaccia di restare deturpata. Il poeta le augura una presta guarigione. La consola ricordandole che anche Diana, precipitata giù per le pendici dell'Etna dalle cerve impaurite, ritornò, più bella tra le sue ninfe.

- All'amica risanata. E' più matura della prima. Protagonista è una donna amata dal Foscolo, la Fagnani-Arese, che egli rappresenta tornante in società dopo una lunga malattia, ammirata nelle sale milanesi mentre canta accompagnandosi con l'arpa, e mentre danza. L'ode si solleva in un'aura di mito e di simbolo, e diventa chiara ed alta celebrazione della bellezza femminile ed insieme lirica tradizione della nuova religione del poeta: della Bellezza, conforto dell'uomo, e della poesia eternatrice: la bellezza della donna, cantata dai poeti, diviene immortale.

ugo foscolo: la concezione della vita e dell'arte

Il Foscolo era nato in un periodo in cui la cultura europea era tutta impregnata dell'Illuminismo; ma in cui pure si avvertivano già i sintomi della nuova sensibilità romantica. Egli si era venuto formando attraverso gli Illuministi e concepiva perciò la vita in maniera rigidamente razionalistica e meccanicistica, che inaridì lentamente in lui quei sentimenti che egli aveva ereditato dalla natura. Il poeta si venne orientando verso un concetto pessimistico della vita, per cui tutto passa come travolto da una forza meccanicistica, che spazza via ogni ideale di vita, le più belle idealità dell'uomo svaniscono al contatto della realtà.
In questa cupa concezione vennero a cadere due grandi delusioni, che incupirono sempre più la visione che il Foscolo aveva del mondo: la cessione di Venezia all'Austria da parte di Napoleone, col trattato di Campoformio (17-10-1797), e l'amore deluso per la Teresa dell'Ortis. E' questa l'epoca delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Jacopo si uccide perchè riconosce che la virtù è vana nel mondo e non può dare agli uomini la libertà; ogni ideale crolla miseramente a contatto della realtà materialistica, sorda e sempre uguale.
Il De Sanctis disse che l'attività della vita (la guerra, gli amori, le avventure) salvò il Foscolo dal cupo pessimismo dell'Ortis e diede inizio ad una fase di passaggio, nella quale il poeta va guarendo dal suo pessimismo. Egli si era arruolato nell'esercito napoleonico che impegnato nella campagna d'Egitto, è inseguito ed assediato dagli Austro-Russi. Incontra donne nobili e belle, ama riamato, combatte, deve difendersi ed è costretto a pensare meno agli ideali che svaniscono; il pessimismo si attenua: questo lento svanire del pessimismo è segnato dai Sonetti.

I Sonetti sono idealmente completati dalle Odi; in esse il poeta celebra già la sua riconquista della vita e canta la bellezza consolatrice dei mali degli uomini.
Si apre così il momento più significativo della concezione foscoliana: quello dei Sepolcri. Le Odi avevano espresso il suo riconciliarsi con la vita; ma alla vita egli ora deve dare un contenuto, una giustificazione, un fine.
Il Foscolo allora, pur ammettendo che gli ideali umani sono fantasmi che svaniscono nell'urto con la realtà, tuttavia li accetta, così come sono, come illusioni.

Noi ci illudiamo continuamente nella nostra vita: le illusioni sono la Patria, la Gloria, l'Amore, tutte cose belle alle quali il poeta si aggrappa tenacemente, perchè senza queste illusioni la vita sarebbe impossibile e si tornerebbe sempre nella situazione dell'Ortis, mentre queste illusioni danno almeno uno scopo alla vita, la rendono degna di essere vissuta o per lo meno sopportabile. Perciò l'uomo può illudersi di sopravvivere alla morte, di perpetuarsi, di eternare la sua opera a patto che egli rimanga nel ricordo dei suoi cari e dei posteri attraverso una tomba e (quando questa sarà distrutta dal tempo inesorabile) attraverso il canto dei poeti, che trionfa sul tempo. Il poeta ha finalmente trovato uno scopo alla vita: è bello illudersi di sopravvivere alla morte, è bello illudersi di eternare la propria opera e quindi è bello produrre per l'umanità le grandi opere dell'arte e della scienza e del pensiero, è bello sacrificarsi per un'ideale santo, come quello di Patria se in questo modo l'uomo può vincere la morte e realizzare una delle più nobili e sublimi illusioni della vita, quella della Immortalità. L'ultima opera di poesia, le Grazie, è sostanzialmente il canto della Bellezza consolatrice dei mali dell'uomo.

ugo foscolo: i sonetti

Sono 12 e vengono distinti in due gruppi.
Gli 8 minori  (1798-1801) sono documenti storici o personali e notazioni sentimentali del poeta. Vi si riconosce lo stesso stile dell'Ortis: il fraseggiare breve ed epigrafico, la intensa e volutissima faticosità del periodo, la stridente durezza dell'espressione.
I 4 del secondo gruppo (1802-1803):
- In morte del fratello Giovanni si fondono sapientemente i temi cari al Foscolo (l'esilio, la disperata coscienza del proprio destino avverso, la vana speranza del ritorno in patria, il timore della tomba illacrimata, l'invocazione alla morte come porto unico di quiete, il ricordo della madre e gli affetti familiari, la corrispondenza di amorosi sensi fra vivi e morti).
- A Zacinto  ritornano ancora una volta il motivo dell'esilio e il pensiero doloroso della sepoltura non lacrimata; ma anche qui la passione che è presente in tutto il sonetto, è frenato in uno svolgimento di classica compostezza e di intima disciplina; e l'esilio, raffigurato nell'immagine favolosa di Ulisse, assume un tono quasi distaccato da ogni stato d'animo immediatamente autobiografico.
- Alla sera ricorrono i motivi ortisiani della morte simile alla notte, della morte come riposo, del nulla eterno, dell'universale distinzione di tutte le cose; ma la fremente passione del poeta si compone in una quiete serena, in solenne assorta meditazione, e si placa nell'ampio ritmo dell'endecasillabo.
- Alla musa di minore valore poetico dei tre, il Foscolo vi esprime la tristezza dell'inaridirsi, momentaneo, della sua vena di poeta. L'argomento suggestivo e romantico, che si prestava a sfoghi oratori, ad atteggiamenti ortisiani, è espresso con linguaggio temperato e con nitidezza classica.

ugo foscolo - le ultime lettere di jacopo ortis

Sono un romanzo epistolare a sfondo autobiografico.
Sono raccolte le lettere che Jacopo Ortis avrebbe inviato all'amico Lorenzo Alderani (Giovan Battista Niccolini), il quale le avrebbe pubblicate per rendere omaggio alla virtù dell'infelice amico, corredandole di una presentazione e di una conclusione e stabilendo le suture necessarie a colmare le lacune fra i vari gruppi di lettere.

La prima idea risale al 1796, quando Foscolo nel suo "Piani di studi" faceva cenno ad un romanzo dal titolo Laura, lettere, una storia d'amore e di morte, suggerita dalla sua esperienza amorosa con la Teotochi Albrizzi e dalla lettura del Rousseau "Jule, lettre de deux amants".
Successive esperienze letterarie, amorose, politiche, portarono alla redazione dell'Ortis, la cui stampa, cominciata a Bologna nel 1798, fu interrotta per la partecipazione del Foscolo alle vicende belliche contro gli Austro-Russi. L'opera fu continuata da Angelo Sassoli che pubblicò il romanzo nel 1799 col titolo di Vera storia di due amanti infelici. Solo nel 1802, sconfessando Sassoli, Foscolo pubblicò il romanzo, a Milano, poi ristampato a Zurigo e a Londra.

Jacopo, disperato per la sorte della patria, Venezia, ceduta da Napoleone all'Austria con il trattato di Campoformio (17-10-1797), si ritira sui colli Euganei (motivo politico). Qui conosce Teresa e si innamora (motivo amoroso); ma la fanciulla è promessa ad un altro. Jacopo peregrina per l'Italia (Ferrara, Bologna, Firenze, Milano, Genova, Ventimiglia) senza dimenticare Teresa, fremendo per la vista degli italiani vili e degli stranieri traditori, e ribellandosi contro la natura stessa, la quale sembra volere che sempre vi siano oppressi e oppressori. Ritorna da Teresa che si è sposata.
Dopo un'intensa lotta interiore, Jacopo si uccide.

Artisticamente l'Ortis non è riuscito: l'accensione troppo viva degli affetti cade spesso nel declamatorio. L'Ortis è uno sfogo; Foscolo è ancora lontano dalla serenità contemplativa necessaria all'arte. Nel libro, c'è un agitarsi di sentimenti che cercano una via e abbisognano di un'intima disciplina.

Tuttavia esso riveste una particolare importanza nella storia della nostra letteratura:
- sia per alcuni motivi interessanti (espressione della crisi dell'Illuminismo; incitamento all'amor di patria; il motivo dell'esule; il pensiero della morte; la considerazione del conforto che deriva a chi muore sapendo che la sua tomba non sarà dimenticata dai vivi, e della bellezza femminile che conforta l'umano vivere, gli affetti familiari);
- sia per pagine di valore artistico (descrizioni di paesaggi, notazioni di stati d'animo);
- sia perchè è il nostro primo libro romantico (il primo libro in cui il senso e la gioia della vita appaiono rosi alla radice, in un estremo rilassamento di fronte alla forza avversa della realtà).

ugo foscolo - le ultime lettere di jacopo ortis - i miti della patria, della politica e della liberta'

Proseguendo nel suo vagabondare Jacopo perviene a Genova e poi a Ventimiglia, presso i confini d'Italia. Qui, sulle sponde del fiume Roja, contemplando lo spettacolo maestoso e orrido insieme delle Alpi si immerge in amare e desolate meditazioni, che dalla tragedia d'Italia si allargano al destino dei popoli e degli uomini tutti fino alle alterne e incessanti vicende del cosmo.

Partendo dal sensismo e dal materialismo settecentesco il Foscolo approda qui a una concezione pessimistica e fatalistica della vita: essa è soltanto movimento della materia, di essa si può soltanto descrivere la fenomenologia che lega, deterministicamente, le sensazioni alle idee più complesse, ma essa non ha un fine, un perchè, una causa.
Il moto perenne della materia, che tutto trasforma, non è dunque illuminato e giustificato da una luce razionale.

E, naturalmente, in questo mondo senza ragione e senza speranza si rilevano falsi e bugiardi tutti i grandi ideali degli uomini: la libertà, la giustizia, l'immortalità e così via.
Jacopo, che in una lettera precedente (15 maggio 1798) aveva ancora esaltato il valore delle illusioni, come sole capaci di dare un senso alla vita ("Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore"), arriva qui a vanificare ogni speranza e ad approdare alle soglie della morte.

UGO FOSCOLO - LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS - L'INCONTRO COL PARINI

Nella lettera del 4 dicembre compaiono i motivi costanti di Jacopo Ortis: la disperata passione politica, il furore di gloria e la carità di figlio, il sentimento dell'amore e quello della morte; il tutto dominato da quel pessimismo "...colorito secondo il Momigliano - romanticamente dalla sua anima di poeta della fine del Settecento". Di qui lo stile acceso impetuoso cupo di queste pagine perchè Jacopo non è un politico che sa contenere la sua passione ma è un giovane che - secondo il Russo - "si lascia sopraffare dai commossi fantasmi della sua mente".

ugo foscolo - le ultime lettere di jacopo ortis - la divina fanciulla

Dallo stato di sfiduciata inerzia e di funerei presagi, che emergono dalla prima pagina dell'opera, Jacopo crede per un momento di poter uscire dopo l'incontro con Teresa, "la divina fanciulla", che lo richiama alla vita suscitando in lui un amore appassionato. La figura di Teresa è costruita dal Foscolo, in gran parte, sulla scorta di suggestioni letterarie (Rousseau "Julie ou la Nouvelle Hèloise, lettre de deux amants"; Goethe "Werther") e non avrà nel romanzo un carattere ben rivelato. Comunque attraverso lei, già a partire dalla sua prima presenza, si fa strada, tra le lacrime e il sangue di una vita tenebrosa e senza senso, la luce consolatrice dell'amore e della bellezza muliebre, che è un altro dei grandi miti della poesia foscoliana.

ugo foscolo - le ultime lettere di jacopo ortis - alla vigilia di campoformio

La prima lettera mette bene in luce l'mportanza che assume in quegli anni il problema politico per il Foscolo, che aveva partecipato direttamente alla costituzione della Repubblica veneta e ne aveva patrocinato la difesa; ricorda infatti il Carrer, suo primo biografo ottocentesco, che il Foscolo fu tra quei patrioti che arrivarono a proporre di "doversi porre il fuoco a' canti della città, perire sotto un cumulo di rovine, ogni morte patire prima di cedere". Lo scrittore quindi trasmette al protagonista del romanzo la sua passione politica; ma, mentre per il Foscolo la caduta della repubblica non significò l'abbandono della lotta politica, nel personaggio, invece, prende rilievo uno sfiduciato abbandono, una vocazione di morte.

In questo senso la prima lettera definisce chiaramente l'atmosfera dell'opera, che è quella di una tragedia ormai al suo epilogo, quasi una tragedia alfieriana capovolta, che inizi dal quinto atto con la tragica scelta del protagonista: Jacopo - osserverà giustamente il De Sanctis - "fin dalle prime parole è un condannato a morte". E' importante infine notare come il motivo della tomba nella terra natia, confortata dal pianto degli amici, che sarà uno dei temi costanti della poesia foscoliana, dai sonetti ai Sepolcri.

vincenzo monti

Nato presso Ravenna nel 1754 studiò lettere e poi giurisprudenza. Nel 1778 si trasferì a Roma dove fu segretario del principe Braschi, nipote del papa Pio VI (ABATE MONTI). Per vent'anni ebbe successo nei salotti letterari della società romana, e nel 1791 sposò Teresa Pikler. Avversò gli eccessi della Rivoluzione francese (Basvilliana), ma poi rinnegò le idee professate e fuggì da Roma per raggiungere Napoleone (CITTADINO MONTI) che aveva conquistato l'Italia settentrionale con la campagna del 1796-97 (La Mascheroniana). Sconfitto Napoleone e caduto il regno italico nel 1814, il Monti cantò le lodi dei nuovi padroni, gli Austriaci, con la cantica Mistico omaggio (CAVALIERE MONTI). I suoi ultimi anni furono grigi a causa delle accuse politiche che si levarono contro di lui, di luttuosi eventi familiari e delle malattie sofferte (ode Per il giorno onomastico della sua donna per Tesera Pikler). Morì a Milano nel 1828.

I tempi del Monti furono certamente difficili, perchè si alternavano fugaci periodi di tregua a turbinosi periodi di rivoluzione e di guerra; devastazioni di eserciti nemici e persecuzioni politiche a governi conservatori.
Di fronte a questi avvenimenti più grandi di lui, il Monti, di carattere debole, si piegò, cantò gli avvenimenti e le opinioni dominanti del momento, pronto a cambiar bandiera appena gli avvenimenti e le opinioni cambiavano.

Fu definito dal De Sanctis segretario dell'opinione dominante.

I suoi cambiamenti furono dovuti al suo bisogno di non perdere la posizione di poeta ufficiale onorato e riverito. Non ebbe un vero ideale politico, nè una fede salda e sicura a cui informare la vita e l'arte.
Come l'uomo, fu pure così il Poeta: non vi fu in lui sviluppo, svolgimento di una concezione di vita e di arte. Il suo grande amore fu la poesia e la letteratura. Questo amore gli dettò i bei versi di melodiosi squarci delle sue opere, in cui egli si abbandona all'onda della musica, del bel verso e della bella immagine, da cui si lascia soggiogare.
Leopardi lo definì Poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun modo.
Si può allora comprendere perchè il suo capolavoro sia la traduzione dell'Iliade di Omero: gli dava il suo ricco e intenso mondo spirituale, il Monti dava a quel mondo la meravigliosa elegana del suo verso splendido e luminoso, puramente classico.

la questione della lingua: il purismo

Il ravvivarsi della tradizione nazionale si manifesta anche nel rinascere della questione della lingua, intesa come questione di arte e di stile, come lingua scritta, non parlata.
Si ha ora una maggiore consapevolezza che questo problema coinvolge quello dell'unità culturale italiana ed è espressione, come affermava il Monti di uno spirito di nazione e che la lingua comune è l'unico tratto di fisionomia che ci conservi l'aspetto di una ancor via e sola famiglia. Intenzione comune è quella di reagire alla rozzezza dei prosatori dell'ultimo Settecento e al loro uno indiscriminato di francesismi, attuando un ideale di prosa classicamente elaborato e più conforme alle tradizioni espressive e al genio della lingua italiana, e legata, al tempo stesso, alla vita moderna europea.
Anche qui le soluzioni proposte riflettono il contrasto dell'epoca fra il vecchio e il nuovo, fra un tradizionalismo meschino e municipale e uno moderno e progressivo. Al primo appartengono i puristi di stretta osservanza come Basilio Puoti, padre Antonio Cesari, maestro del purismo che propose il ritorno ai modi e al lessico del Trecento, strumento adeguato, per tutte le esigenze della cultura moderna.
Più viva e moderna fu quella di Pietro Giordani, che unì a un moderato purismo linguistico una concezione classica dello stile. Nella sua prosa volle unire lingua del Trecendo e stile greco, che non fu senza effetto sul giovane Leopardi.

 

il neoclassicismo

Pur ispirandosi sempre più alla realtà presente (Illuminismo) e a una sostanza d'affetti già orientata verso il Romanticismo, la poesia di quest'età è legata, in Italia, al gusto neoclassico.

Il Neoclassicismo, sorto nella seconda metà del Settecento, in seguito a scoperte archeologiche e a studi sull'arte classica del tedesco Winckelmann e dell'austriaco Mengs, si era subito esteso dalle arti figurative (pittura, scultura, architettura) alla letteratura.
Fondamentale era l'idea winckelmanniana che l'arte classica (greca) esprimesse, una "calma grandezza" e una "nobile semplicità", specchio dell'armonia spirituale e umana che veniva additata come carattere fondamentale dell'età antica. Di conseguenza, l'estetica neoclassica poneva come scopo dell'arte e della poesia la contemplazione della bellezza ideale intesa come unità di umano  e divino, vittoria sulle passioni e sui sensi, trasfigurazione della realtà contingente in immagini di un'intatta e spirituale bellezza fuori del tempo e della storia, consistente in una pura armonia di forme, di colori, di suoni.
Quest'ideale, nelletà napoleonica, si attua in forme contrastanti. Nella sua forma più diffusa penetrò nella moda, nel costume, nelle vesti, dalle feste agli archi di trionfo napoleonico, dalle pettinature alla greca delle donne elegantemente vestite con abiti leggeri e molto scollati, drappeggiati sul corpo, alla decorazione e all'ornamento delle case abbellite da decorazioni murali ispirate alle pitture ercolanensi e pompeiane, da Grazie e Amorini dipinti nelle camere da letto su pareti e su soffitti, da bronzi di "appliques" imitanti le forme classiche ecc.

Ed ecco lo scultore Antonio Canova eternare il bello ideale nel marmo: Venere, le tre Grazie, la divinizzata Paolina  Bonaparte in cui la rappresentazione della bellezza femminile si innalza in una sfera di serenità priva di sensualismo. Allo stesso mito della bellezza e dell'eleganza classica rivolgono il loro animo prosatori e poeti i quali raggiungono però risultati così diversi, che possiamo distinguere nel Neoclassicismo del tempo quattro espressioni:

1) un Neoclassicismo che si esaurisce nella ricerca dell'eleganza stilistica (Giordani e la questione della lingua)
2) un Neoclassicismo (detto napoleonico per l'età in cui si svolge) che attinge argomenti di contatto da avvenimenti contemporanei ma dà ad essi uno svolgimento spesso mitologico ed insieme rievocazione di belle forme e di espressioni classiche (V.Monti)
3) un Neoclassicismo idealistico, rappresentato da Ugo Foscolo, nelle cui opere l'aspirazione alla bellezza ideale è intima e profonda e rivela (assai più chiaramente che negli altri scrittori del primo ottocento) come all'origine del Neoclassicismo stia uno stato d'animo analogo a quello romantico: la tendenza dello spirito umano scontento della realtà, verso un ideale che esula dalla realtà stessa: l'aspirazione continua, anche se irrealizzabile, ad un mondo di bellezza e di armonia ed insieme desiderio di rivivere nostalgicamente il passato, il mondo pagano e mitologico, e di rinnovare, di questi, modi e concezione
4) un Neoclassicismo legato ancora al garbato sentimentalismo arcadico dell'ultimo Settecento (Ippolito Pindemonte)

la cultura italiana nell'eta' napoleonica

Il panorama letterario di quest'area appare scisso in aspetti contradditori.
Da un lato sopravvive la vecchia cultura accademica e cortigiana. Essa celebra i nuovi miti e i nuovi eventi, rispolvera l'antica mitologia, le risorse d'una consumata eloquenza per "abbellire" la realtà; è letteratura d'evasione fantastica, che elude i problemi reali della vita, costruendo per lo scrittore una torre d'avorio, o è servilmente adulatoria.
Dall'altro lato ci sono gli scrittori più seri che vivono la crisi del tempo fra Illusionismo e Romanticismo: avvertono il fallimento dell'astratto razionalismo illuministico e della sua promessa di una facile e rapida felicità per gli individui e per i popoli, reagiscono al materialismo e al sensismo, scoprono l'importanza della religione e delle forze irrazionali operanti nella storia, ricercano in essa il senso d'una continuità, di una tradizione e di una legge di progresso che ne regoli lo svolgimento, e proclamano il valore delle particolarità individuali e nazionali.

I nostri intellettuali migliori si sforzano di dare alla nostra cultura una maggiore impronta di italianità, conformemente al destarsi d'una coscienza nazionale che appare in contrasto con la politica napoleonica, nei più importanti stati europei. A Milano capitale del Regno Italico gli esuli napoletani della Repubblica Partenopea (Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco) fanno conoscere e diffondono il pensiero del loro compatriota, il Vico, precursore della romantica concezione della storia, intesa come svolgimento organico e progressivo, ed assertore della centralità del sentimento e della fantasia nella creazione poetica.

Frattanto Alfieri comincia a diventare un maestro per le nuove generazioni; la sua polemica antifrancese, il suo incitamento alla libertà, la sua fede nei destini dell'Italia, che dalla memoria del passato glorioso si proietta nell'attesa d'un grande avvenire, sono un chiaro incitamento in senso nazionale ed unitario.

l'eta' napoleonica in italia

Fra il 1796 e il 1815, l'Italia attraversò una delle sue epoche più travagliate della sua storia moderna: l'invasione delle armate rivoluzionarie francesi, delle guerre e dell'impero napoleonico. Queste vicende implicavano un'adesione o un ripudio in chi le viveva che coinvolgevano la sua concezione di vita, la sua coscienza morale e civile, i sentimenti e gli ideali più profondi.
La politica scendeva sulle piazze, fra le masse reclutava i nuovi eserciti rivoluzionari o controrivoluzionari, i nuovi generali, i nuovi re e imperatori; non v'erano più guerre d'eserciti ma guerre di popoli, che scendevano in campo in nome della libertà, della difesa delle loro tradizioni e del loro diritto alla vita.
Ma vi era ancora la violenza della ragion di stato: l'ancien régime riviveva nel dispotismo napoleonico, i grandi ideali di libertà, uguaglianza e democrazia mascheravano una spregiudicata politica di potenza. Nasce di qui il doloroso contrasto di quest'età, particolarmente avvertito in Italia. Le vecchie impalcature politiche, economiche, sociali crollavano sotto il vento impetuoso delle ideologie rivoluzionarie, ma queste, nell'urto con la realtà sembravano infrangersi, senza più riuscire ad acquistare un carattere di certezza e a costruire un mondo veramente nuovo, conforme alle loro promesse.
Così gli ideali di libertà e d'indipendenza politica italiana, vagheggiati fervidamente dai nostri patrioti, che spesso in nome di essi avevano combattuto accanto alle armate "liberatrici" dei Francesi, apparivano distrutti dalla prepotenza militare, dal cinismo politico e dal dispotismo di Napoleone. Sopravvivenza, in questa alternativa di speranze, illusioni, disinganni, un'ansia di libertà e di giustizia: si mutava in sentimento pessimistico (sfiducia nella realtà) magnanimo e combattivo, come vedremo nel Foscolo.
Nonostante il crollo degli ideali, i nostri uomini migliori comprendevano che l'esperienza napoleonica era stata positiva, in quanto stimolava il risveglio d'una coscienza nazionale italiana nel vivo della storia europea, e ridestava l'Italia da un sonno secolare, immettendola di nuovo nel vivo della storia europea. Comprendevano che la libertà non è un dono, ma deve essere consapevole e sofferta conquista d'un popolo, che in se stesso doveva trovare la forza per il riscatto. Maturavano così i germi del Risorgimento.

vittorio alfieri: le opere minori

Tra le opere minori alfieriane ricordiamo, nonostante essa sia piena di retorica, l'ode Parigi sbastigliata (saluto alla rivoluzione francese) condanna degli entusiasmi illuministici del cicisbeismo, della monarchia assoluta e disprezzo per il volgo costituiscono l'argomento delle 17 satire (in terzine) prive quasi sempre di valore poetico; tumultuosa polemica politica è il Misogallo, un insieme di prose e di poesie, dettate da odio antifrancese, da opposizione agli errori e alla crudeltà della rivoluzione e insieme da amore per l'Italia. Povera cosa, artisticamente, anche le sei Commedie, in endecasillabi sciolti. 4 di esse sono di argomento politico: L'uno (contro il governo monarchico) I pochi (contro il governo oligarchico) I troppi (contro il governo democratico) L'antidoto (cioè il rimedio; dove dimostra che il governo meno cattivo è una specie di monarchia costituzionale in cui si fondono le tre forme precedenti: esempi la Repubblica Veneta e la monarchia inglese). Le altre due commedie sono: Il divorzio, una satira contro il matrimonio alla moda, circondato da tante clausole - nomina del cicisbeo e piena libertà agli sposi - da essere in realtà un divorzio; e la Finestrina (soltanto una finestra aperta nel petto dell'uomo può far conoscere il suo vero cuore); queste due ultime commedie sono di argomento morale.

vittorio alfieri: le rime

Accanto alle tragedie vanno subito collocate le Rime per le quali l'Alfieri merita un posto di privilegio nella tradizione lirica del Settecento.
Si tratta di circa 300 componimenti (canzoni, odi, sonetti ecc). Nelle "Rime" il poeta traduce, in una autobiografia poetica, le sue esperienze umane, i suoi più segreti e contrastanti sentimenti, le sue meditazioni e le sue riflessioni sulla realtà contemporanea e sui miti della sua cultura, la sua sofferta e complessa visione del vivere. Si suole parlare di un petrarchismo alfieriano; ed in realtà sono continue nelle "Rime" le suggestioni petrarchesche. Ma l'Alfieri, dal Petrarca, trae soprattutto la lezione esemplare dell'esplorazione interiore e della trasposizione delle esperienze interiori sul piano della evocazione o della trascrizione poetica. E nell'imitare forme e motivi del Petrarca, l'Alfieri cala in essi la sua complessa e inconfondibile personalità. Giustamente è riconosciuta l'eccellenza dei sonetti che riflettono le più autentiche e segrete voci dell'interiorità del poeta. Molti sono di ispirazione amorosa per la contessa d'Albany: si configurano come un diario; l'amore non è inteso come galanteria, bensì come condizione fondamentale del vivere come sommo bene terreno, come conquista di una più alta ed autentica umanità. In altri sonetti troviamo il tema della malinconia; in un sonetto l'Alfieri disegna il proprio ritratto fisico e morale. Piuttosto fredde risultano invece le canzoni e le odi.

vittorio alfieri: saul

Il Saul è l'unica tragedia che si ispira alla Bibbia (primo libro dei Re). Saul, abbandonato da Dio e tormentato da uno spirito maligno non è più il re vittorioso. La sua ira è rivolta contro Achimelech, sommo sacerdote, accusato di aver unto re David (genero di Saul, in quanto sposo della figlia Micol). Perciò, anche per le esortazioni malefiche del ministro Abner, David è bandito. Tornerà nel momento della lotta contro i filistei, ma Saul non ne accetterà l'aiuto nè condividerà il suo piano di battaglia così Saul sarà vinto e attingerà la grandezza nel suicidio lasciandosi cadere sulla sua spada.

Il personaggio di Saul è il più riuscito dell'intero teatro alfieriano: personaggio potentemente umano e drammatico, nella sua intera grandezza e nella sua cupezza sconsolata, nella sua qualità di sovrano e insieme nella sua condizione di padre, che prega che Micol possa salvarsi non come sua figlia ma come moglie di David.
La scena finale del suicidio è quella in cui meglio si esprime la poesia dell'Alfieri: poesia del "forte sentire" del dolore e della morte come affermazione estrema della libera volontà.
E' poesia della solitudine: perchè Saul, come Mirra è solo, e le figure di contorno sono troppo inferiori al protagonista. Ma proprio tale solitudine potenzia l'umanità di Saul; ed è questa vanità che lo differenzia dagli altri tiranni alfieriani e ne fa un personaggio completo e mirabilmente delineato. Il medesimo Alfieri riconosceva che in Saul c'è "di tutto di tutto assolutamente"; e così ben coglieva quel carattere di "totalità" umana ed artistica che è proprio di questo suo personaggio.
Il Saul è l'espressione più compiuta del mondo interiore dell'Alfieri ed il suo capolavoro di poesia.

vittorio alfieri: mirra

Cecri, moglie di Ciniro, re di Cipro, ha offeso Afrodite (Venere) e la dea per vendetta ha ispirato nell'animo della loro figlia Mirra un'indomabile passione per il padre. Nè i genitori, nè la nutrice Euriclea sanno trovare spiegazione al fin troppo palese turbamento di Mirra, che non sembra causato dalle prossime nozze con Pereo. Dopo avere ancora una volta assicurata al padre la sua decisione di sposare Pereo, Mirra si appresta alle nozze, ma sviene durante i preparativi. Pereo, ormai sicuro di essere odioso a Mirra, si uccide, e Ciniro, sconvolto, interroga ancora la figlia. Nel corso del tempestoso colloquio Mirra si lascia sfuggire la confessione fatale uccidendosi subito dopo con la spada del padre.

La tragedia è tutta imperniata sull'incestuosa passione della fanciulla per suo padre. Da uno spunto così esile l'Alfieri ha saputo ricavare una tragedia ampia e complessa, interamente dominata dalla figura della protagonista: e va rilevato che il dramma si svolge tutto nell'anima di Mirra e si sviluppa tremendo e inesorabile in un'atmosfera di solitudine.
Mirra infatti è sola, vive sola, ritenendo una profanazione la vicinanza delle persone care, disdegnando di comunicare con tali persone e chiudendosi nel suo tormento, e muore sola dopo aver reso attoniti i suoi di fronte alla finale rivelazione dell'insano amore.

i motivi della tragedia alfieriana

L'argomento è vario: tragedie di ribellioni contro volontà tiranniche, di ambizione regale, di affetti domestici, di passioni intime.
Unico orientamento della scelta: i grandi popoli e i grandi personaggi dotati di alti sensi e di potenti passioni i quali sono per l'Alfieri i soli soggetti tragediabili, in quanto egli intende "che gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti retti e magnanimi".
Le più grandi tragedie dell'Alfieri sono quelle in cui il dramma si svolge tutto nell'interno della coscienza del protagonista: la Mirra e il Saul.

argomenti, composizione, struttura delle commedie alfieriane

Alfieri ci ha lasciato 19 tragedie. Gli argomenti furono tratti dall'antichità greca (fra questi Mirra) e romana (Virginia, Bruto I, Bruto II) dalla storia medievale (Rosmunda) dalla storia moderna (Filippo) e uno dalla Bibbia (Saul).

La tragedia veniva compiuta in 3 fasi (respiri) successive: ideazione (rapido cenno in prosa), stesura (la distribuiva nelle scene e negli atti), verseggiatura (poneva in versi quanto aveva scritto in prosa).
L'Alfieri:
- conservò le tre unità
- usò l'endecasillabo sciolto
- soppresse le lungaggini dei nunzi e dei confidenti
- concentrò l'azione su uno o due personaggi e svolse rapidissimi verso la catastrofe gli avvenimenti
- non ammise l'elemento amoroso, se non quando fosse la ragione stessa della vicenda tragica.

La lingua usata è generalmente quella della tradizione toscana, ma non senza innovazioni dettate dalla necessità dei tempi.

la tragedia prima dell'alfieri

La tragedia (canto del capro) è un genere fondamentale del teatro drammatico, caratterizzato dalla solenne narrazione di fatti gravi riguardanti pesonaggi importanti e dallo scioglimento luttuoso della trama, e alle dispute sul genere tragico nel secolo XVIII.
Le dispute divisero i contendenti in due campi: tragedia greca e a quella del nostro cinquecento o alla tragedia francese instaurata da Corneille e da Racine.

TRAGEDIA CLASSICA
- unità di tempo = nell'arco della giornata
  unità di luogo = nello stesso luogo, senza cambiare scena
  unità di azione = semplice e lineare
- intervento del soprannaturale = intervento di un Dio che scioglieva ogni problema
- partecipazione dei nunzi = messaggeri
- partecipazione dei cori = cantano

TRAGEDIA FRANCESE
- nega il soprannaturale
- nega cori e nunzi
- inseriva nelle scene degli antefatti = collega le scene
- elemento amoroso
- inseriva personaggi di alta dignità

Altra questione fu se nella tragedia si dovesse usare l'endecasillabo sciolto, misto ad altri versi.

Incontrò maggior favore il tipo di tragedia, cui dette autorità la Merope di Scipione Maffei nella quale conciliano gli influssi francesi e quelli della tradizione classica: rispetto delle tre unità, senza coro stabile, senza nunzi e tutta scritta in endecasillabi sciolti.

vittorio alfieri: i trattati politici

Il trattato Della Tirannide, in due libri costituisce una prima chiave di interpretazione del teatro alfieriano basato in genere su un drammatico conflitto tra tiranno e tiranneggiato.
Nel primo libro si indica infatti l'origine della tirannide nel lusso, nello strapotere del clero e della milizia e nella viltà del volgo; nel secondo si afferma la necessità che l'uomo libero debba uccidere il tiranno o uccidersi, perchè la libertà non è un diritto ma l'essenza stessa dell'uomo senza la quale non ha significato la vita.

Nel trattato Del principe e delle lettere, in tre libri, il poeta affronta il problema del rapporto tra il principe e il letterato. Per lui lettere e potere politico non possono essere che naturali nemici: infatti il principe tende per sua natura a soffocare la libertà dei cittadini e a condizionarne la vita morale, mentre le lettere (come le intende l'Alfieri) hanno soprattutto il compito di promuovere nei lettori l'amore della libertà, la coscienza dei propri diritti, la responsabilità inalienabile del proprio destino. Severo è il giudizio dell'Alfieri sul fenomeno del mecenatismo, giudizio che non investiva solo i principi ma anche quei poeti (come Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso) che in ogni tempo secondo lui si erano fatti cortigiani ed adulatori. Da quest'opera emerge esplicitamente la nozione che l'Alfieri aveva del letterato: questi si configura come un'eroe al quale spetta un'alta missione educativa, al di là di ogni lusinga e di ogni compromesso. Soprattutto maestro di libertà, il poeta, e non solo nei tempi di tirannide politica, ma in ogni tempo perchè in ogni tempo la libertà può essere insidiata e compromessa e rischia di essere ingannata o perduta se non è difesa con vigile coscienza da ogni minaccia.
Il trattato chiude con l'esortazione a liberare l'Italia dai barbari riprendendo il titolo posto dal Machiavelli all'ultimo capitolo del suo "Principe", per mostrare che in diversi modi si può ottenere lo stesso effetto: con gli scritti di "caldi e ferocissimi spiriti". In tal modo l'Alfieri inaugura la letteratura-azione, che troverà nel Foscolo il primo fervidissimo discepolo.

vittorio alfieri: la vita

La Vita ci dà la testimonianza diretta, oltre che delle vicende esteriori, anche di alcuni intimi travagli del poeta. L'opera è divisa in 2 parti e 4 epoche: la puerizia; l'adolescenza, cioè quando era all'Accademia di Torino; la giovinezza, che comprende 10 anni di vita irregolare e disordinata; la virilità che va dalla "Cleopatraccia" fino alla morte.

La Vita ci dà il "ritratto eroico" dell'Alfieri, l'immagine di una personalità tutta chiusa nella sua solitudine.
L'Alfieri domina sulla scena dalla prima all'ultima pagina, col suo amore per gli spettacoli più solenni e solitari della natura, quali i mari e i deserti: così sono anche i protagonisti e l'ambiente delle tragedie, di cui La Vita è come una preparazione alla lettura.
Essa è, dopo le tragedie, l'opera più significativa come storia della formazione interiore del poeta, più che opera di vera poesia. Ad esprimere questo stato d'animo concorre lo stile rapido e senza abbandoni, irto di "alfierismi" parole che il poeta inventa o deforma.

vittorio alfieri

Nacque ad Asti il 16 gennaio 1749. All'Accademia di Torino uscì col grado di porta-insegna del reggimento di Asti. Avuta dal re la licenza di partire dal reggimento, viaggiò per anni per divagare l'irrequietezza che lo tormentava interiormente. Tornato a Torino cominciò a scrivere prima in francese poi in italiano cose di poco conto finchè nel 1774 scrisse la sua prima tragedia Cleopatra. Dal 1776 al 1790 è un periodo importante della sua vita che comprende la composizione di tutte le tragedie. Agli inizi della rivoluzione inneggiò al movimento con l'ode Parigi sbastigliata, ma poi rimase deluso e nel 1792 si ritirò a Firenze dove morì l'8 ottobre 1803. In Santa Croce troviamo il suo movimento eretto da Canova.

carlo goldoni: i rusteghi

Rusteghi, secondo la definizione che ne dà il Goldoni, sono quegli uomini "di rigida maniera e insociabili, seguaci degli usi antichi e nemici ostinati delle mode del divertimento e delle conversazioni".

La trama della commedia è assai semplice: due dei Rusteghi Lunardo, padre di Lucieta e Maurizio, padre di Filiberto hanno concluso fra loro il matrimonio dei due giovani; questi non solo non ne sono informati, ma - secondo le usanze del buon tempo antico - non devono neanche vedersi prima del matrimonio. Ma Felice moglie del rustego Cancian, che lei è riuscita a domare interamente, organizza, con la complicità timorosa delle altre donne, un piano che permetterà ai fidanzati di vedersi. Quando il complotto viene scoperto, la reazione sdegnosa dei Rusteghi (il quarto è Simon) rischia addirittura di far fallire il matrimonio. Ma alla fine i quattro sono costretti a cedere di fronte alle argomentazioni piene di buon senso di Felice.

La commedia composta è rappresentata nel 1760, è tra i capolavori del teatro goldoniano, della cui "riforma" costituisce in un certo senso il coronamento supremo. Tema della commedia è il contrasto tra la vecchia generazione, legata severamente ai vecchi costumi, e la nuova, desiderosa di una libertà maggiore, anche se tutta onesta. Ma potrebbe dirsi che tema vero della commedia sia non tanto questo contrasto quanto la rappresentazione piena di cordialità e di simpatia della borghesia veneziana con i suoi concittadini e i suoi mercanti, con le sue virtù e i suoi difetti; e il Goldoni vi propugna ed esalta una borghesia operosa cosciente dei suoi delitti, lontana tanto dalla rusticità del vecchio costume, quando da certo lassismo immorale del nuovo.

carlo goldoni: la locandiera

La bella locandiera Mirandolina è maestra nel far innamorare gli uomini. La corteggiano già il ricco conte di Albafiorita e lo spiantato marchese di Forlimpopoli, ma non il cavaliere di Ripafratta, che disprezza le donne. Mirandolina mostrando prima di stimarlo per la sua misoginia, poi trattandolo con particolari riguardi, fingendosi turbata al punto di svenire alla notizia ch'egli lascia l'albergo, e infine ostentando un'improvvisa freddezza, lo riduce nel giro di un giorno ai suoi piedi: per poi avvilirlo di fronte a tutti smascherando la sua passione al tempo stesso in cui conclude le sue nozze con Fabrizio, cameriere della locanda.

Mirandolina è una persona accorta, attenta ai suoi interessi; essa desidera essere vagheggiata e corteggiata, ma non crede nell'amore; è fredda, lucida, calcolatrice.
Il marchese di Forlimpopoli è l'espressione della vecchia nobiltà veneziana; il conte d'Albafiorita è il rappresentante della nuova nobiltà di origine borghese.
Il cavaliere di Ripafratta è il personaggio nel quale il Goldoni si è polemicamente immedesimato, per vedersi in controluce vittima delle donne. E' un materiale, un selvaggio, arrogante e scontroso, che teme le finzioni femminili più per sentito dire che per diretta esperienza di esse, ama troppo la libertà per farsi prendere al laccio del matrimonio. Ha pratica solo per quelle donne che si sta per un pò di divertimento.
Il quarto uomo è Fabrizio il cameriere che Mirandolina manovra a suo piacimento. La sua presenza e le sue pretese su Mirandolina disturbano gli altri corteggiatori. In lui c'è dell'affetto per Mirandolina però lui vede il matrimonio non come il coronamento di un sogno d'amore ma come una sistemazione, e per questo è pronto a chiudere un occhio sulle civetterie di Mirandolina.

Le due comiche con il loro modi volgari e goffi di donne avide, fanno da contrappunto alla "recitazione" fine e garbata di Mirandolina. La Locandiera è lo spaccato di una locanda che l'autore ha immaginato in Firenze, ma che potrebbe immaginarsi altrove soprattutto a Venezia.

Nella commedia c'è un impasto linguistico: il linguaggio dei due titolari ricercato e galante; quello del cavaliere, rudo e appassionato, quello delle comiche volgare e prezioso e il linguaggio di Mirandolina scintillante di civetteria e di intellettuale misura. Una lingua viva e vera che, nella sua dimensione teatrale, è ricca di riflessi sociali, ariosa e vera.