1898:LA RIVOLTA DI MILANO
A distanza di quasi un secolo, non si sa ancora se la grande rivolta milanese della primavera 1898 fu un moto organizzato oppure un'insurrezione spontanea, causata dalle pesanti condizioni di vita nel Paese. Certamente vi furono influenze politiche, ad opera di gruppi quali i socialisti, i repubblicani, anche alcuni cattolici, oltre naturalmente a quel pericolo pubblico che erano considerati gli anarchici. Ma la vera origine dell'esplosione popolare fu un'altra. Da molti anni i governi dell'epoca avevano cercato di rinsanguare le finanze statali imponendo tasse sul grando - la cosiddetta tassa sul macinato, fonte di proteste e disordini - e fissando quindi un dazio molto alto. Nel 1897, sebbene i prezzi agricoli stessero scendendo, il dazio fu elevato al 7,50 per cento, contro il 5 precedente: un gravame insopportabile per una popolazione che, al Nord come al Sud, si nutriva prevalentemente di pane e pasta.
Difficile dire dove si ebbero i primi segni della rivolta. Si registrarono dapprima, nell'autunno e nell'inverno 1897, dimostrazioni in Emilia, Marche, Campania, Sicilia, seguite da qualche saccheggio. A protestare erano soprattutto i braccianti, anche allora la classe più diseredata d'Italia. Ci furono scioperi anche in Lombardia, dove gli operai non stavano meglio dei contadini. Sotto la pressione popolare il Governo decise di far tornare il dazio sul grano al cinque per cento. Se questa misura fosse stata attuata prima, avrebbe avuto forse qualche effetto: ma ormai l'animo della gente era troppo acceso. A Roma si decise di reprimere con la massima energia ogni movimento di piazza. E gli effetti di una simile scelta si videro subito.
Dopo altre vampate insurrezionali in diverse regioni, sebbene il Governo - ancora tardivamente - avesse sospeso il dazio per due mesi, l'insurrezione cominciò ad avvicinarsi a Milano. I giornali riferivano di morti e feriti un pò dappertutto; ad operai e contadini si stavano aggiungendo gli studenti. Il 5 maggio 1898 i soldati uccisero a Pavia Muzio Mussi, poco più di un ragazzo, figlio di un deputato radicale. L'indomani la notizia raggiunse le fabbriche milanesi. Volantini socialisti cominciarono a girare di mano in mano alla Pirelli, dove già allora lavoravano 2500 persone. La polizia arrestò un operaio, i suoi compagni ne reclamarono il rilascio; nei cortili dell'azienda entrò la truppa. La mattina del 7 maggio si ebbe in pratica uno sciopero generale. Il Governo reagì decretando lo stato d'assedio e dando i pieni poteri a un duro generale piemontese, Fiorenzo Bava Beccaris, che si mise subito all'opera. Come primo provvedimento decise la chiusura delle fabbriche: grosso errore perchè gli operai, rimasti in strada, si unirono ai dimostranti oppure formarono capannelli sospetti, contro i quali i soldati spararono più volte. Si ebbero subito due morti: uno fra gli operai e uno fra i poliziotti.
Come sempre accade, alla gente che protestava si aggiunsero delinquenti comuni: vennero saccheggiati negozi, s'impaurirono maggiormente i possidenti. Bava Beccaris fece subito arrestare quelli che giudicava i capi della rivolta: Turati e De Andreis, che poi furono condannati a dodici anni, un coraggioso sacerdote, don Albertario, che ebbe tre anni, e la famosa Anna Kuliscioff, cui diedero una pena di due anni. Alcuni giornali furono chiusi, su altri si esercitò la censura: l'informazione era così praticamente nelle mani del Governo.
L'8 maggio, una domenica, si udì ancora il rombo del cannone. Venne riferito a Bava Beccaris che stava arrivando la famosa banda del Pavese, il che non era vero. L'esercito occupò l'intera città, sparando anche quando non ve n'era alcuna necessità. Lunedì 9 altri gruppi innalzarono barricate, si combattè per l'intera giornata. Solo il 10 maggio la spinta insurrezionale apparve esaurita. Il Governo si congratulò con Bava Beccaris, cui il re conferì un'altissima decorazione. Bagnata, si disse a Milano, dal sangue degli insorti uccisi (un centinaio di persone) e di tanta povera gente che si era trovata sotto il tiro dei soldati.