QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

1821: LA MORTE DI NAPOLEONE

L'Isola di Sant'Elena è rimasta nell'immaginazione popolare come uno scoglio sperduto in mezzo all'Oceano Atlantico, inospitale e flagellato dalle onde. Non è così: anzi quell'isoletta, che negli atlanti figura come un puntolino a metà strada fra l'Africa meridionale e il Brasile, è allietata da una bella vegetazione, corsi d'acqua e colline dal clima sanissimo.

La sua cattiva reputazione è legata al lungo esilio di Napoleone Bonaparte, che vi morì il 5 maggio 1821. Un ufficiale francese che l'aveva seguito, il conte de Las Cases, descrisse a tinte forti quella prigionia, mettendo sotto accusa il "carceriere" inglese, sir Hudson Lowe. Anche qui, però, la storia contraddice la leggenda. Certamente Lowe prese ogni opportuna misura per impedire la liberazione dell'ex imperatore, tanto più dopo le insistenti voci su complotti francesi. Ma vigilò sempre a distanza, poichè Napoleone lo riceveva solo in occasioni ufficiali, minacciando di sparare contro chiunque gli fosse entrato in casa senza permesso.

Del resto fu Lowe a chiedere e ottenere che le 8 mila sterline necessarie ogni anno per mantenere il prigioniero fossero aumentate a 12 mila, cifra assai elevata per l'epoca. Non che Napoleone spendesse molto per sè. Ma oltre ai cortigiani fedeli aveva, per esempio, undici giardinieri: dato anche questo che smentisce le accuse di inutile crudeltà nei suoi confronti.

A minare il fisico di Napoleone furono dunque il crollo psicologico dopo la sconfitta di Waterloo, le interminabili discussioni sui generali e politici traditori, la noia che pervadeva un uomo abituato a guerre e conquiste. In più, l'isola non disponeva di adeguate fognature ed era infestata dai topi, portatori di tifo. A curare l'imperatore era un italiano, il "dottor" Antonmarchi, che si fregiava della qualifica di medico ma era stato solo un assistente di autopsie nell'obitorio di Firenze. Napoleone dunque faceva coltivare la terra, andava a cacciasparando ai polli e alle capre che gli capitavano a tiro. Una volta colpì addirittura una mucca. Quando si sentiva meglio usciva per una cavalcata o un giro in carrozza: ma aveva pure l'abitudine di fare lunghissimi bagni caldi, che lo debilitavano.

Quasi tutti i maschi della famiglia Bonaparte avevano sofferto di tumori all'intestino, e Napoleone subì la stessa sorte. La dieta serviva a poco. Una volta, per questioni di cibo, insorse una buffa litigata. Gli ortolani avevano sostituito i fagioli bianchi (colore dei Borboni, i quali erano tornati a regnare a Parigi) con fagiolini verdi, colore delle divise napoleoniche. Lowe lo considerò un gesto di ribellione mentre, più semplicemente, l'imperatore preferiva i fagiolini.

Napoleone si mise definitivamente a letto nel marzo 1821. Il 21 aprile scrisse il suo testamento, dispensando agli amici cifre enormi, che in realtà non possedeva. Era diventato obeso, tanto da rendere difficile l'autopsia, protrattasi per sei ore. La notizia della sua morte giunse in Europa dopo due mesi. Alessandro Manzoni scrisse la famosa ode Cinque Maggio, il cui iniziò viene sovente letto tutto di seguito dagli studenti: "Ei fu siccome immobile..". Errore, perchè dopo "Ei fu" c'è un punto. E' la terra che resta attonita per quell'annuncio, "immobile" come la salma sepolta in quell'isola remota.

 

LE GRANDI CIVILTA': GLI ETRUSCHI

Nel VII secolo a.C., nell'Italia centrale (Toscana e Alto Lazio), vivevano gli Etruschi, la popolazione più progredita della penisola dopo i Greci. Nel V secolo il territorio da loro controllato raggiunse la massima espansione (Pianura padana a nord e Campania a sud), dopo di che iniziò il lento declino contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo di una nuova potenza, quella romana. Ma chi erano e da dove provenivano gli Etruschi? Le principali ipotesi sono tre: provenivano dall'Asia; erano originari dei luoghi in cui vivevano; erano una popolazione mista tra asiatici e indigeni. Quest'ultima ipotesi è quella più accreditata dagli studiosi del nostro secolo, ma il mistero non è ancora risolto.

FONDATORI DI CITTA'
Gli Etruschi si distinsero dagli altri popoli dell'Italia preromana perchè fondarono numerose città: Tarquinia, Cerveteri, Cortona, Perugia, Arezzo, Volterra, Capua, Pompei, Salerno, Bologna, Parma, Piacenza, Rimini e Marzabotto. A differenza degli altri centri abitati contemporanei, costituiti in gran parte da villaggi di legno, fango e canne, queste città erano costruite con sassi e mattoni e cinte da mura poderose. Sorgevano in genere sulle alture, spesso avevano pianta quadrangolare con vie rettilinee e perpendicolari (esempio tipico è Marzabotto, a 24 km da Bologna). Questa impostazione urbanistica sarà ripresa dai Romani. Ogni centro possedeva un sistema di fognature sotterranee ed edifici con archi e volte, novità tecniche introdotte in Italia proprio dagli Etruschi.

"I Lidi tramandano che durante il regno di Atis, una grave carestia si diffuse in tutta la Lidia (in Asia Minore). Per un certo tempo i Lidi la sopportarono, ma poichè la carestia non accennava a diminuire, anzi si aggravava, il re divise il popolo in due gruppi e sorteggiò quello che doveva rimanere e quello che doveva emigrare. A capo del gruppo destinato a rimanere in patria mise se stesso, e a capo del gruppo in partenza il proprio figlio, il cui nome era Tirreno.. Gli emigranti navigarono alla ricerca di una terra dove abitare. Dopo lungo viaggio..giunsero al Paese degli Umbri, dove costruirono delle città e dove abitano tuttora. Qui mutarono il nome di Lidi in Tirreni, dal re che li aveva guidati" (Erodoto, storico greco del V secolo a.C.)

"Ritengo che i Tirreni non siano coloni provenienti dalla Lidia; infatti non parlano la lingua dei Lidi... Mi pare perciò che sia più vicino al vero il parere di coloro che sostengono che questo popolo è originario del luogo in cui vive. Dai Greci essi sono stati chiamati Tirreni; forse perchè abitavano in torri o dal nome di qualche loro capo. Essi però, nella loro lingua, chiamano se stessi Rasenna, dal nome di un loro condottiero" (Dionigi di Alicarnasso, I secolo a.C.)

GLI OCCHI A MANDORLA
Gli Etruschi avevano statura media e corporatura robusta. Il volto un pò ossuto aveva zigomi sporgenti e marcati, grandi occhi dal taglio a mandorla e labbra sottili (caratteristiche che potrebbero avvalorare l'origine orientale). Il naso era stretto, diritto e di forma allungata. Gli uomini erano di carnagione più scura. Le donne portavano capelli lunghi, avvolti in trecce o riuniti a crocchia.

LA SACRA TRIADE
La religione etrusca era politeista, particolarmente venerata la triade TINIA (Giove), UNI (Giunone) e MENRVA (Minerva). Molte altre divinità dimostrano chiaramente l'influenza della mitologia greca (ARITIMI Artemide; APULU Apollo; TURAN Afrodite; TURMS Mercurio; NETHUNS Nettuno). Accanto a questi dèi erano venerate anche divinità indigene come NORTHIA (dea del Fato), VELTUNA (il dio nazionale), gli dèi "consentes", consiglieri di Tinia, e gli dèi "fulguratores", cui Tinia affidava il compito di scagliare i fulmini. Gli Etruschi credevano nella vita ultraterrena e avevano una cura scrupolosa dei loro morti, che venivano deposti in tombe sotterranee.

LA SCRITTURA
Quel che noi sappiamo degli Etruschi viene in gran parte dalla loro produzione artistica: dipinti, statue, oggetti in ceramica e metallo, ritrovati dagli archeologi soprattutto nelle tombe, oppure dai documenti in lingua greca e latina che li riguardano. Essi infatti avevano una scrittura che, però, non è stata ancora completamente interpretata. Sono stati decifrati i singoli segni e alcuni numeri, ma è tuttora incomprensibile il significato complessivo delle frasi, ad eccezione di circa trecento parole. Si conoscono per esempio i numeri da uno a sei: thu, hut, ci, sa, mach, zal. Tra le principali parole decifrate: clan (figlio), sec o sech (figlia), puia (moglie), zilath (magistrato), lautni (liberto), etera (servo).

Ferro, rame, stagno, piombo, zinco e argento abbondavano nel sottosuolo dei territori abitati dagli Etruschi che impararono ad estrarli e lavorarli con abilità e gusto, tanto da essere considerati dei maestri. L'estrazione avveniva, fin dove era possibile, con picconi, poi si ricorreva al fuoco: la roccia che conteneva il metallo veniva portata al massimo grado di calore e poi investita con getti di acqua fredda per spezzarla. Nelle tombe sono stati trovati anche elegantissimi oggetti d'oro.

Agricoltura, commercio, pastorizia e lavorazione dei metalli furono le principali attività, praticate con molta perizia. Fu costruito un sistema di cunicoli sotterranei per prosciugare valli e pianure paludose e renderle così coltivabili. Ne sono stati identificati 45 km sui pendii dei Colli Albani, 25 km intorno a Veio.

1898:LA RIVOLTA DI MILANO

A distanza di quasi un secolo, non si sa ancora se la grande rivolta milanese della primavera 1898 fu un moto organizzato oppure un'insurrezione spontanea, causata dalle pesanti condizioni di vita nel Paese. Certamente vi furono influenze politiche, ad opera di gruppi quali i socialisti, i repubblicani, anche alcuni cattolici, oltre naturalmente a quel pericolo pubblico che erano considerati gli anarchici. Ma la vera origine dell'esplosione popolare fu un'altra. Da molti anni i governi dell'epoca avevano cercato di rinsanguare le finanze statali imponendo tasse sul grando - la cosiddetta tassa sul macinato, fonte di proteste e disordini - e fissando quindi un dazio molto alto. Nel 1897, sebbene i prezzi agricoli stessero scendendo, il dazio fu elevato al 7,50 per cento, contro il 5 precedente: un gravame insopportabile per una popolazione che, al Nord come al Sud, si nutriva prevalentemente di pane e pasta.

Difficile dire dove si ebbero i primi segni della rivolta. Si registrarono dapprima, nell'autunno e nell'inverno 1897, dimostrazioni in Emilia, Marche, Campania, Sicilia, seguite da qualche saccheggio. A protestare erano soprattutto i braccianti, anche allora la classe più diseredata d'Italia. Ci furono scioperi anche in Lombardia, dove gli operai non stavano meglio dei contadini. Sotto la pressione popolare il Governo decise di far tornare il dazio sul grano al cinque per cento. Se questa misura fosse stata attuata prima, avrebbe avuto forse qualche effetto: ma ormai l'animo della gente era troppo acceso. A Roma si decise di reprimere con la massima energia ogni movimento di piazza. E gli effetti di una simile scelta si videro subito.

Dopo altre vampate insurrezionali in diverse regioni, sebbene il Governo - ancora tardivamente - avesse sospeso il dazio per due mesi, l'insurrezione cominciò ad avvicinarsi a Milano. I giornali riferivano di morti e feriti un pò dappertutto; ad operai e contadini si stavano aggiungendo gli studenti. Il 5 maggio 1898 i soldati uccisero a Pavia Muzio Mussi, poco più di un ragazzo, figlio di un deputato radicale. L'indomani la notizia raggiunse le fabbriche milanesi. Volantini socialisti cominciarono a girare di mano in mano alla Pirelli, dove già allora lavoravano 2500 persone. La polizia arrestò un operaio, i suoi compagni ne reclamarono il rilascio; nei cortili dell'azienda entrò la truppa. La mattina del 7 maggio si ebbe in pratica uno sciopero generale. Il Governo reagì decretando lo stato d'assedio e dando i pieni poteri a un duro generale piemontese, Fiorenzo Bava Beccaris, che si mise subito all'opera. Come primo provvedimento decise la chiusura delle fabbriche: grosso errore perchè gli operai, rimasti in strada, si unirono ai dimostranti oppure formarono capannelli sospetti, contro i quali i soldati spararono più volte. Si ebbero subito due morti: uno fra gli operai e uno fra i poliziotti.

Come sempre accade, alla gente che protestava si aggiunsero delinquenti comuni: vennero saccheggiati negozi, s'impaurirono maggiormente i possidenti. Bava Beccaris fece subito arrestare quelli che giudicava i capi della rivolta: Turati e De Andreis, che poi furono condannati a dodici anni, un coraggioso sacerdote, don Albertario, che ebbe tre anni, e la famosa Anna Kuliscioff, cui diedero una pena di due anni. Alcuni giornali furono chiusi, su altri si esercitò la censura: l'informazione era così praticamente nelle mani del Governo.
L'8 maggio, una domenica, si udì ancora il rombo del cannone. Venne riferito a Bava Beccaris che stava arrivando la famosa banda del Pavese, il che non era vero. L'esercito occupò l'intera città, sparando anche quando non ve n'era alcuna necessità. Lunedì 9 altri gruppi innalzarono barricate, si combattè per l'intera giornata. Solo il 10 maggio la spinta insurrezionale apparve esaurita.  Il Governo si congratulò con Bava Beccaris, cui il re conferì un'altissima decorazione. Bagnata, si disse a Milano, dal sangue degli insorti uccisi (un centinaio di persone) e di tanta povera gente che si era trovata sotto il tiro dei soldati.

 

WOLFGANG AMADEUS MOZART

Ha composto il primo minuetto a 4 anni e la prima sinfonia a 8. Da bambino deliziava le corti europee esibendosi al violino e al pianoforte. Suonava con i guanti, con il naso o con la tastiera coperta da un tappetino. Riusciva anche a scrivere in carrozza: trasferiva le parti dei violini alle viole, dei clarinetti agli oboi. E tra un viaggio e l'altro sono nate pagine veramente indimenticabili.

Wolfgang Amadeus Mozart nacque a Salisburgo, in Austria, il 27 gennaio 1756. Non soltanto fu un bambino prodigio, ma uno dei più grandi musicisti della storia. Qualcuno dice il più grande.
In 35 anni di vita ha lasciato 626 composizioni, tra le quali 41 sinfonie, 21 opere, 20 concerti per pianoforte. E tutte, assicurano gli studiosi, sfiorano la perfezione.
Il padre Leopold, compositore al servizio dell'arcivescovo di Salisburgo, si accorse presto delle straordinarie doti di Wolfgang. Diventò il suo primo maestro: gli fece studiare il violino, il cembalo e l'italiano, che a quell'epoca era ancora la lingua della musica. Salisburgo, però, era troppo piccola per il talento del figlio. Leopold iniziò così un viaggio nelle principali città europee. A sei anni Wolfgang si esibì con la sorella Nannerì a Vienna davanti alla regina Maria Teresa.
Nel 1763 si trovava a Parigi, poi andò a Londra. Nel 1769 partì per l'Italia, dove visitò 13 città tra le quali Milano, Torino, Bologna e Napoli. A 14 anni, in una locanda di Lodi, compose il primo quartetto. Nel 1770, durante la Settimana Santa, Mozart e il padre si fermarono a Roma. A San Pietro ascoltarono il Miserere di Gregorio Allegri, una composizione per due cori a 9 voci del quale era vietata la pubblicazione. Wolfgang prese la carta pentagrammata e, tra lo stupore generale, lo trascrisse a memoria, nota per nota.

Dopo altri due viaggi, Mozart tornò a Salisburgo dove ebbe l'incarico di "Maestro dei concerti di corte". Con gli anni, però, diventò sempre più insofferente al lavoro di routine, alle dipendenze di un principe, e per di più in provincia.
Nel 1781 seguì l'arcivescovo a Vienna, città ricca, cosmopolita, che accoglieva i musicisti di tutta Europa. Quando l'arcivescovo ripartì per Salisburgo, Wolfgang si rifiutò di seguirlo: sentiva che la capitale austriaca gli poteva assicurare un futuro da libero artista.

Mozart aveva 25 anni. Era già celebre e, grazie alle lezioni e alle serate a pagamento (le "accademie" durante le quali eseguiva proprie musiche), aveva un buon tenore di vita. Abitava in una bella casa del centro (oggi trasformata in museo), con 4 stanze, soffitti decorati e pavimenti di legno. In questa piccola reggia Mozart invitò il musicista Franz Joseph Haydn ad ascoltare 3 nuovi quartetti. Al termine del concerto, Haydn confidò al padre di Wolfgang: "Suo figlio è il più grande compositore che io conosca".

Ma fu proprio al culmine del successo che Mozart cadde in disgrazia. Nel 1786 mise in scena Le nozze di Figaro, storia di un barbiere da quattro soldi che sbeffeggia un conte. Era un'opera troppo irriverente per quell'epoca. Venne allontanato dagli ambienti aristocratici. Si ritrovò senza allievi, lo accusarono di non pagare i debiti di gioco. Come unico lavoro gli rimase la composizione di musiche d'intrattenimento (chiamate Divertimenti e Serenate). Intanto nel resto d'Europa, soprattutto a Praga (dove il Don Giovanni debuttò con enorme successo), era stimato e applaudito. A Vienna, invece, faticava a sbarcare il lunario. Iniziò a lasciarsi andare, a fare vita disordinata.

All'inizio del 1791 la salute peggiorò. Mozart era solo, la moglie era a Baden, l'amico Haydn a Londra. Era in ristrettezze economiche: i mobili finirono uno dopo l'altro al monte dei pegni. Eppure riuscì a creare i capolavori della maturità:  Il flauto magico, il Concerto per clarinetto, il Requiem, che però non riuscì a finire.

Mozart si aggravò e morì all'alba del 5 dicembre 1791. Il giorno dopo la bara venne trasportata al cimitero viennese di San Marco: funerale di terza classe e sepoltura in una fossa comune. Non c'erano nè parenti, nè amici e neppure la vedova. Nessuna commemorazione. Solo poche righe su un giornale: "E' morto Wolfgang Amadeus Mozart. E' stato autore di buone musiche".

ANTONIO FOGAZZARO: PICCOLO MONDO ANTICO

L'AUTORE
Il romanziere e poeta Antonio Fogazzaro (nato nel 1842 a Vicenza, dove morì nel 1911) ebbe una grandissima fortuna tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del nuovo secolo. Educato in ambiente religioso, si laureò in giurisprudenza e sposò Margherita dei conti di Valmarana, di nobile famiglia vicentina. Il suo primo lavoro fu il poemetto Miranda, pubblicato nel 1874. Il primo romanzo, Malombra, vide la luce nel 1881.
Dedicò tutta la sua vita all'attività di scrittore e all'impegno politico nell'Italia unita (nel 1890 divenne senatore). Oltre a Piccolo mondo antico, altre sue opere importanti sono i romanzi Daniele Cortis, Il mistero del poeta, in forma di diario di un letterato italiano, Piccolo mondo moderno e Il Santo.

LA TRAMA
Franco Maironi è un giovane patriota, nipote di una vecchia marchesa che sta dalla parte dell'Austria. Sono gli anni del Risorgimento: lotta e delusioni, speranze di una Italia unita. Quando Franco sposa Luisa Rigey, una ragazza che ha le sue stesse idee, la nonna - madre di suo padre - lo disereda. Uno zio aiuta economicamente la giovane coppia, alla quale dà anche la sua casa sul lago di Lugano. Nasce Maria, che lo zio chiama affettuosamente Ombretta. Franco viene a sapere che esiste un testamento in suo favore, ma non vuole farne uso perchè la nonna, che l'ha nascosto, ne uscirebbe moralmente distrutta. Luisa protesta, critica il marito. Quando la miseria costringe Franco all'esilio in Piemonte, Ombretta muore annegata. Siamo nel 1859, Franco si arruola. Luisa aspetta un altro figlio, che vivrà nell'Italia liberata.

LA PROTAGONISTA
Mentre Luisa è dura e combattiva, esige giustizia, ha sue sicurezze sulle quali non vuole discutere, Franco è un artista disinteressato che crede piuttosto nella carità. Sebbene coraggioso, capace di rischiare la vita per le sue idee, ha un fondo di fatalismo. Ombretta soffre per questo scontro di caratteri, sente la tensione fra i genitori. Ma la sua è una natura allegra, che strappa il sorriso ai grandi anche nei momenti più aspri. Ragiona come una persona grande, e ha la forza dell'infanzia che vive in un proprio mondo, con regole che gli adulti non capiscono più. Quando Ombretta muore affogata nel lago di Lugano, la madre si dispera, il padre si rassegna.

LA MORTE DI OMBRETTA
Luisa si è appostata su una strada, vicina al lago, dove deve passare la vecchia marchesa, nonna di Franco. Vuole affrontarla, farle dire la verità sul testamento. E' una brutta giornata, la pioggia cade con tanta violenza che non si vedono più i contorni della montagna. Luisa ha lasciato a casa la figlia. Ombretta non ha nessuno con cui giocare. Non c'è lo zio Piero che la tiene sulle ginocchia recitandole filastrocche, sempre quelle. Ce n'è una che la bambina vuole sempre sentirsi ripetere. "Ombretta sdegnosa - del Missipipì - non far la ritrosa - ma baciami qui". Alla parola storpiata "Missipipì", Ombretta scoppia sempre a ridere e corre a baciare lo zio.
Bagnata dalla pioggia, con l'ombrello chiuso che stringe in pugno come fosse un'arma, Luisa ha tutt'altri pensieri. La marchesa arriva in portantina, accompagnata da amici e domestici. Quando vede la giovane, ritrae la testa e dice con rabbia soffocata ai portatori: "Avanti". Luisa non si lascia intimidire: "Non ho a dire che due parole". Non sente le voci lontane che la chiamano in dialetto lombardo: "Sciora Luisa, sciora Luisa..." Si avvicina alla vecchia, sta per parlarle. Le voci si fanno più vicine. "Signora, venga a casa subito, subito!". Il richiamo la strappa di colpo dalla sua passione. "Cosa c'è?". Le donne sanno dire soltanto: "Venga a casa, venga a casa". Ripete: "Che cosa c'è, stupide?". Rispondono: "La sua tosa..", sua figlia. Luisa è come impazzita. Cade a terra, la risollevano. Corre a casa a cercare Ombretta.
Vede gente che piange, qualcuno mormora: "Coraggio!". Entra in camera. E' ancora giorno, ma hanno dovuto accendere le lampade, tanto è buio per il maltempo. Ombretta è sul letto, svestita, con gli occhi e la bocca semiaperti, il corpo livido, il piccolo viso ancora roseo. Voleva mettere la sua barchetta in una tinozza, ma non c'era acqua. E' andata al lago, da sola. Un barcaiolo, disceso sulla darsena per assicurare i battelli scossi dalle ondate, ha visto un corpo galleggiare.
Nessuno si era accorto di niente. Ombretta è scivolata nel lago. Il suo corpo fluttua con il dorso a galla e la testa nell'acqua. Il barcaiolo urla, per l'angoscia e anche per chiamare qualcuno. Arriva gente, ma è troppo tardi.
Fuori della camera sono in tanti ad attendere. Si odono voci, ma non quella di Luisa. La donna sta immobile, silenziosa, vicina al corpo della figlia annegata. Dopo un'ora, due ore, si sente un urlo acuto, straziante, che gela le vene a tutti. Il medico ha detto a Luisa che non c'è più speranza. Poi tutto torna calmo. La pioggia è diventata fitta e minuta, e ha il suono come di un lamento. La stanza e il corridoio diventano bui, intorno al bianco del corpo di Ombretta.

MARIA TERESA D'AUSTRIA

Quando ancora la parola "femminismo" non era stata inventata, Maria Teresa dovette superare molti ostacoli per affermare la sua condizione di donna. Il padre, l'imperatore Carlo VI, fece approvare una legge apposita - la Prammatica Sanzione - per stabilire che la figlia potesse salire al trono. Ciò non impedì che, alla morte del sovrano, vari principi austriaci e anche alcuni stranieri ne contestassero la successione. Nata nel 1717, Maria Teresa aveva allora 23 anni. Una notevole forza le veniva dal marito, Francesco Stefano di Lorena, che pur evitando di inserirsi nelle questioni di governo le diede utili consigli per gli affari finanziari e militari. Morto Francesco, nel 1765, la regina non si perse comunque d'animo. Aveva dovuto affrontare dure lotte contro uno dei re più temuti del suo tempo, Federico II di Prussia. In tutta una serie di conflitti, culminati nella "guerra dei sette anni" (dal 175 al 1763), l'Austria dovette cedere la regione mineraria della Slesia.

In seguito però Maria Teresa provvide a rafforzare le sue alleanze internazionali, dando in sposa la figlia Maria Antonietta al principe ereditario di Francia, il futuro Luigi XVI, e altre due figlie al re di Napoli e al duca di Parma. Il legame più forte fu comunque quello con Maria Antonietta, che la madre continuò ad influenzare anche quando, nel 1774, era diventata a sua volta regina. Certo Maria Teresa non avrebbe mai previsto che la Rivoluzione Francese, prima che finisse il secolo, avrebbe portato alla decapitazione sia di Luigi sia della consorte.

Conclusa la cruenta guerra dei sette anni, Maria Teresa si occupò quasi esclusivamente di politica interna. Trasformò l'amministrazione austriaca con intelligenti riforme, dando poteri non solo all'aristocrazia ma anche alla piccola nobiltà e, più tardi, ai cittadini privi di titoli. L'aumentare della sua potenza portò anche alla formazione di un esercito stabile, per la protezione non più delle singole città ma dell'Intero Stato. Ottennero condizioni migliori di vita anche i contadini, migliorò il sistema scolastico. Quando Maria Teresa, morendo nel 1780, lasciò il trono al figlio Giuseppe II, l'Austria era una delle maggiori potenze europee, destinata a ingrandirsi ulteriormente nel secolo successivo.

Cattolica rigorosa, che ebbe anche la tentazione di espellere gli ebrei dal suo regno, Maria Teresa fece sempre prevalere l'autorità dello Stato su quella del clero. In sostanza il suo governo mantenne un costante controllo sulle attività della Chiesa. Anche nella politica scolastica l'Austria ebbe un indirizzo laico, trasformando in particolare le università in istituti di Stato. Quando tuttavia le maggiori Corti europee chiesero provvedimenti contro i Gesuiti, la regina non si associò, limitandosi ad attendere le eventuali decisioni del Papa. Ma intervenne subito nel 1773, allorchè il pontefice Clemente XIV emanò il suo "breve" di soppressione. I beni dei Gesuiti vennero liquidati e destinati alla cura delle anime e all'insegnamento.

Fra il secolo scorso e il Novecento sono stati pubblicati quasi tutti i carteggi di Maria Teresa, che aiutano a capire sia la sua mentalità sia i sistemi di governo. Ne esce una figura di una gran dama, fiera delle proprie prerogative, prodiga di consigli: tutto sommato, però, una regina che non si rende conto dei pericoli che, in tutta Europa, stanno per correre le monarchie assolute. Particolarmente interessanti le lettere alla figlia Maria Antonietta, che morirà a Parigi sulla ghigliottina. Non è escluso che l'indifferenza di Maria Antonietta verso le condizioni del popolo francese derivino anche dall'insegnamento, troppo superficiale, della madre.

L'EPOCA
Nel diciottesimo secolo l'Austria riconquista l'Ungheria, partecipa a una delle tante spartizioni della Polonia, favorisce la potenza russa contro quella prussiana. I vari governi non riescono però a mettersi d'accordo in modo soddisfacente, per cui le reciproche gelosie, dopo la morte di Maria Teresa, favoriranno l'espansione napoleonica. In quegli anni la crescente ricchezza delle colonie europee nel Nordamerica - gli attuali Stati Uniti - portano a un regime crescente di cambi mondiali: e in prima linea si trova l'Inghilterra, dove comincia una vera e propria rivoluzione industriale. Più faticoso è invece lo sviluppo in Francia, dove l'eccessivo potere della nobiltà e il malcontento popolare aprono la strada per la rivoluzione. In questo irrequieto panorama, l'Austria è un pò un'isola a sè, che guada al proprio interno pur consolidando i confini. una politica accorta, che manterrà al riparo i sovrani viennesi anche nei decenni successivi.

GIUSEPPE VERDI

Verso la metà dell'Ottocento l'Europa assiste a grandi sconvolgimenti. S'innalzano barricate contro le potenze nate dopo il Congresso di Vienna, che aveva restaurato le aristocrazie cancellate dalla Rivoluzione Francese e dalle guerre napoleoniche. Scoppiano i moti del 1848: libertà, unità nazionale e indipendenza sono i nuovi ideali che infiammano i popoli.

In Italia il clima rivoluzionario prende il nome di Risorgimento. L'unità è lontana: il Paese è diviso in sette Stati, gran parte del territorio è controllato dall'Austria. Molti patrioti prendono la via dell'esilio, sono imprigionati o impiccati nelle fortezze nemiche. La musica si fa interprete delle passioni civili. I cori e le melodie di un giovane compositore emiliano, Giuseppe Verdi, diventano il simbolo delle lotte per l'indipendenza.

Verdi nasce nel 1813 a Roncole di Busseto, provincia di Parma. E' di famiglia modesta: il padre fa l'oste, la madre la filatrice. Il suo paese è occupato dalle truppe di Napoleone, e così viene registrato all'anagrafe con i nomi di Joseph-Fortunin François. Da bambino studia musica e gli dà le prime lezioni di organo il parroco del paese.
A vent'anni si iscrive al Conservatorio di Milano, corso di pianoforte, ma viene bocciato all'esame di ammissione. Dicono che ha parecchi difetti nell'impostazione della mano. E poi ha superato i limiti d'età e non è neppure un suddito del Lombado-Veneto.

La fortuna di Verdi inizia quando incontra Vincenzo Lavigna, maestro concertatore alla Scala. E' lui che gli insegna a "piegar la nota al voler suo", cioè lo accompagna nei segreti dell'armonia.
Nel novembre 1839, a 26 anni, Verdi debutta alla Scala. La sua prima composizione è Oberto, conte di San Bonifacio. Gli applausi non mancano, tanto che l'opera fa registrare quattordici repliche.

Ma il grande successo arriva tre anni dopo, nel 1842. Alla Scala va in scena Nabucodonosor, poi abbreviato in Nabucco. L'opera diventa celebre per il coro degli ebrei, prigionieri in Babilonia, che dalle rive di un fiume sognano la patria lontana. E' la musica di Verdi risorgimentale. Le note di Va pensiero infiammano i patrioti impegnati nella lotta contro gli austriaci.

Verdi lascia la provincia e prende casa a Milano. Sceglie il mondo dei salotti e dell'aristocrazia. Piace alle donne e ai patrioti, s'intrattiene per ore dai sarti e in conversazioni brillanti. La città lo applaude, lo corteggia, ne fa un mito risorgimentale. Le fotografie d'epoca lo mostrano con il bastone e il cappello a cilindro sulla piazza della Scala.
Il culmine dello slancio patriottico arriva nel 1849, con l'opera La battaglia di Legnano. Verdi diventa ricco: le sue musiche sono applaudite in tutti i teatri d'Europa. Torna a Busseto e si fa costruire una villa a Sant'Agata, sulle rive del torrente Ongina. La registra a nome di "Verdi Giuseppe, di professione agricoltore e musicista". Perchè, nonostante i guadagni e gli onori, Verdi rimane per tutta la vita un gentiluomo di campagna.
Nel 1859 Verdi sposa il soprano Giuseppina Strepponi, la prima protagonista del Nabucco. E' un periodo di grande fervore artistico. Ogni tanto il musicista va in tournèe a Parigi, Londra, Pietroburgo. Ma ritorna sempre ai suoi pioppi e ai suoi poderi. E intanto scrive le opere più belle: Rigoletto, Il trovatore, La traviata. E ancora: Un ballo in maschera, La forza del destino, Aida.
Muore a Milano nel 1901, all'alba del nuovo secolo.

GIOVANNI ARPINO: LE MILLE E UNA ITALIA

L'AUTORE
La sua vicenda di scrittore comincia molto presto. Il suo primo libro, Sei stato felice, Giovanni esce nel 1952: è un romanzo sulla solitudine scontrosa dell'uomo di quegli anni, assediato da una società alienante. Giovanni Arpino nasce a Poa nel 1927; suo padre è un ufficiale in carriera, per cui i suoi primi anni li trascorre da una città all'altra. Per motivi di studio si trasferisce a Bra, una cittadina del Piemonte dove risiedono i nonni. Dopo il liceo, si iscrive all'Università di Torino dove si laurea in Lettere nel 1951. L'anno dopo, il primo di una lunga serie di romanzi. Dal 1959 avvia una fitta attività di collaborazione giornalistica su diversi quotidiani, prima di diventare inviato speciale de La Stampa. Muore all'età di sessant'anni nel 1987.

LA TRAMA
Riccio Tumarrano è un ragazzo che dalla Sicilia parte alla ricerca del Monte Bianco dove lavora suo padre, minatore al traforo. Siamo intorno al 1960: un momento politicamente inquieto in Italia. Nel suo viaggio, Riccio incontra straordinari personaggi: Garibaldi e Cavour, un Mussolini ragazzo. Pulcinella, Annibale cartaginese, poeti e artisti, politici e guerrieri di ogni epoca. Tutti hanno qualcosa da insegnare. Alla fine Riccio scrive ai fratelli rimasti in Sicilia: dovete studiare perchè l'Italia è bella ma difficile: "Chi non impara prima qualcosa dai libri non capirà mai bene tutte le cose che incontrerà attraversandola".

L'INCONTRO CON ANNIBALE
Figlio di un generale, con la spada in pugno fin da ragazzo, comandante di un esercito in Spagna ad appena 25 anni, Annibale Barca fu a un soffio dal cambiare il corso della storia. Nel 217 a.C. valicate le Alpi con carri ed elefanti, distrusse le armate romane al Trasimeno e a Canne. Era la seconda guerra punica, in cui Roma rischiò di scomparire. A decidere le sorti fu la mancanza di rifornimenti al capo cartaginese, che dovette tornare in patria dove fu definitivamente sconfitto, a Zama, da Scipione l'Africano. Autentico genio militare ma anche uomo colto, che parlava diverse lingue, Annibale è l'emblema del coraggio sfortunato e, forse, imprevidente. Tipico eroe dell'antichità, quando l'azione sembrava più importante della ragione.

In un pomeriggio d'estate, sulla strada polverosa che da Napoli porta a Roma, riccio vede un elefante che carica mastelli colmi d'acqua e va nella campagna senza versarne una goccia. Lo segue fra le canne e i cespugli fino a una capanna. Non è l'abitazione di un contadino: fuori della porta sono appoggiati lancia e scudo, una spada, una corazza. Compare un gran vecchio, un occhio coperto da una benda, l'altro fiammeggiante d'orgoglio. Veste una specie di sottana corta e cenciosa, ha un aspetto barbarico: ma Riccio, più che paura, sente pietà. Il vecchio gli offre del cibo, si capisce che cerca compagnia. "Chi sei?" domanda il ragazzo. "Indovina..".
E' il grande Annibale, solo, "illuso per secoli". Era a un passo da Roma. Fermo a Capua, aspettava i rinforzi. "I miei soldati", racconta, "sono spariti uno dopo l'altro". Erano dei guerrieri, si sono giocati le armi nelle taverne, sono diventati rubagalline, pastori, barbieri. Sembrava, nei primi tempi, una bella vita. I soldati cartaginesi, dopo tanta guerra, erano temuti e venerati dai ricchi del posto. Certi giorni Annibale partiva solo, a cavallo, e si spingeva fino alle colline che circondavano Roma. "Vedevo i templi, le grandi mura, i marmi dei palazzi. Il cuore mi scoppiava in petto". La vittoria pareva sicura. Così passò il tempo. "Guarda come sono finito..".
Riccio non ha nemmeno il coraggio di rispondere che lui, a Roma, ci sta andando davvero. Annibale gli propone una partita: se il ragazzo perde, si ferma per tre giorni; se vince, se ne va con un regalo, "anche un elefante". Si gioca ai dadi. Annibale fa undici. Riccio dodici. Cerca di consolare il vecchio guerriero: "Non hai fortuna": L'altro lo fissa, con l'occhio di pietra: "Scegli un regalo e vattene". Riccio non ha cuore di privarlo dei suoi poveri beni, si accontenta di un pezzo di formaggio. Annibale gli volta le spalle; la spada inutile da tanti secoli gli batte sulle borchie dei calzari. L'ultima occhiata di Riccio è per gli elefanti, immersi e indaffarati attorno a una macina.

DINO BUZZATI: LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA

L'AUTORE
Giornalista famoso, autore di libri di grande successo come Il deserto dei tartari, Dino Buzzati sosteneva - un pò per scherzo e un pò sul serio - di essere un pittore che di tanto in tanto scriveva. In verità questa storia di orsi e di persone, pur letterariamente assai pregevole, ha il suo motivo di maggior fascino nelle illustrazioni che la accompagnano, opera appunto di Buzzati. Anzi il testo rimanda continuamente alle figure, e viceversa, al punto che l'uno non potrebbe vivere senza le altre. Nato a Belluno nel 1906, morto a Milano a 66 anni dopo aver trascorso tutta la sua vita di lavoro come redattore e inviato speciale del Corriere della Sera, Dino Buzzati è una figura a sè nel mondo artistico italiano. Abilissimo nel trasfigurare la realtà, nei romanzi come nei racconti e nei quadri, fu al tempo stesso un cronista acuto e fedele, amatissimo dai lettori.

LA TRAMA
"Nel tempo dei tempi, quando le bestie eran buone e gli uomini empi", la Sicilia non assomigliava a quella che conosciamo. In tutta l'isola si alzavano montagne impotenti e aguzze, con le cime coperte dal gelo: solo i vulcani sparsi qua e là avevano la forma di pani. Uno esiste ancora, e continua a buttare fumo (l'Etna): non si vedono invece più gli orsi che in quell'epoca popolavano le caverne. Gli orsi avevano un re saggio e coraggioso, di nome Leonzio, il cui figlioletto Tonio viene rapito prima ancora che cominci la storia. Per cercarlo, l'esercito degli orsi scende in pianura. Conquista il castello dell'orco Troll, difeso dal terribile Gatto Mammone, e invade il regno del Granduca, dove il povero Tonio veniva usato per divertire il pubblico come orso equilibrista. Bestie e uomini vivono insieme per anni, ma a poco a poco gli orsi prendono le cattive abitudini degli esseri umani. Giocano, si ubriacano, rubano: e uno di loro tenta addirittura di uccidere il re. Prima di morire, Leonzio convince i suoi guerrieri a tornare sulle montagne: e forse sono ancora là, ma noi non conosciamo i loro segreti.

IL PROTAGONISTA
Prima di iniziare il suo racconto, Buzzati ne elenca i personaggi, alla maniera degli autori di libri gialli: e alcuni sono effettivamente dei protagonisti, altri compaiono per una sola riga (un gufo che lancia il suo urlo nella notte) o addirittura mai (il Lupo Mannaro, che nessuno sa cosa possa combinare). In testa a tutti dovrebbe venire dunque Re Leonzio: ma se vogliamo cercare il tipo più straordinario, questi è certamente una curiosa figura di mago, il professore De Ambrosiis, la cui bacchetta magica può compiere soltanto due prodigi. Quest'uomo altissimo e magro, la cui figura è prolungata da un'enorme tuba, tradisce spesso il re e vorrebbe fare i due incantesimi a suo esclusivo vantaggio: ma una volta per salvarsi da un branco di cinghiali, che ha trasformato in palloni, un'altra volta per salvare generosamente il figlio di Leonzio, il professore esaurisce la sua scorta di miracoli. Da ultimo riesce a costruirsi una nuova bacchetta magica: e chissà che un giorno, se gli capita una malattia, non la possa usare.

L'ORSACCHIOTTO MORENTE
Abbiamo detto che Buzzati è un narratore diverso da tutti gli altri. Riassumere la sua prosa significherebbe di conseguenza snaturarla, togliendone l'incantevole semplicità. Dovendo quindi estrarre una pagina della storia degli orsi, la scelta più sensata è di trascriverla.

Siamo a metà del libro quando Re Leonzio, che ha appena ritrovato il figlio, teme di perderlo subito. Infatti il malvagio Granduca ha sparato al suo prigioniero, provocandogli una ferita che ha tutta l'aria di essere mortale. Che fare? Arriva nel salone del castello la colomba della bontà e della pace, ma tutti la guardano male perchè è capitata proprio nel momento sbagliato. Non resta dunque che rivolgersi al professore De Ambrosiis, il quale ormai dispone di un solo incantesimo. Lo sacrificherà per salvare la vita del giovane orso? E qui lasciamo la parola a Buzzati.
"Adesso voi naturalmente non ci crederete, direte che sono storie, che queste cose succedono soltanto nei libri e così via. Eppure alla vista dell'orsacchiotto morente, l'astrologo sentì un improvviso dispiacere per tutte le canagliate commesse in odio a Re Leonzio e ai suoi orsi (gli spiriti, il Gatto Mammone), ebbe l'impressione che qualcosa gli bruciasse nel petto e, forse anche per il gusto di fare bella figura e di diventare una specie di eroe, trasse di sotto la palandrana la sua famosa bacchetta magica - ma come gli dispiaceva - e cominciò l'incantesimo, l'ultimo della sua vita. Poteva procurarsi montagne d'oro e castelli, diventare re e imperatore, sconfiggere eserciti e flotte, sposare principesse indiane: tutto avrebbe potuto avere con quell'estremo sacrificio. E invece "Fàrete", disse lentamente, e scandiva le sillabe, "Fàrete finkete gamorrè àbile fàbile dominè brùn stin màiela prit furu toro fifferit".
"Allora l'orsacchiotto riaprì tutti e due gli occhi e si levò diritto senza più traccia del buco fatto dalla pallottola (solo si sentiva un poco debole per la perdita del sangue), mentre Re Leonzio, come impazzito dalla gioia, si metteva a ballare da solo sul palcoscenico. E la colomba, finalmente soddisfatta, ricominciava a svolazzare di qua e di là più allegra che mai. Altissimo si levò il grido: "Evviva il professore De Ambrosiis!".
"Ma già l'astrologo era sparito. Sgusciato fuori dalla porticina del palco, correva a casa stringendo la bacchetta ormai inutile, e non avrebbe saputo lui stesso dire se malinconico o stranamente felice".

ITALO CALVINO: IL VISCONTE DIMEZZATO

L'AUTORE
Nato a Cuba dove lavorava il padre, ma ligure per formazione, Italo Calvino è stato uno dei maggiori letterati italiani del dopoguerra. Morto nel 1985, a 62 anni, ha lasciato numerosi racconti, saggi di grande valore e, fra i romanzi, una trilogia che è rimasta famosa: appunto Il Visconte dimezzato nell'anno 1952, e più tardi Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.

Altre sue opere di larga diffusione sono Paloma, Le Cosmicomiche, Il sentiero dei nidi di ragno e le Fiabe italiane, scelte e trascritte in base a vecchi racconti popolari. A parte questa produzione, Calvino fu una notevola figura di intellettuale, molto attivo anche nell'editoria di sinistra. Dopo aver aderito al comunismo, se ne staccò senza eccessive polemiche, limitandosi a criticarne gli aspetti totalitari e burocratici. Stava lavorando a una serie di conferenze da tenere in America quando fu stroncato da un'emorragia celebrale.

LA TRAMA
Il Visconte Medardo di Terralba è in guerra contro i Turchi, sulla terra di Boemia. Cavalca pensoso con il suo scudiero, vede il campo di battaglia pieno di soldati morti e di uccelli predatori. Medardo va all'assalto perchè quello è il suo dovere: ma quando si avvicina a un cannone, con la spada sguainata, un colpo lo taglia verticalmente in due. Gli rimane solo la metà destra del corpo: mezza fronte, mezza faccia, un braccio, una gamba. Eppure riesce a sopravvivere ed a tornare in patria. Avvolto in un mantello nero, fa paura a tutti. Mentre era partito da Terralba un uomo normale, il reduce sembra un concentrato di malvagità e fa uccidere senza motivo decine di persone. D'improvviso una specie di prodigio: torna un altro Visconte, ossia la parte sinistra del corpo, anche quella miracolosamente risistemata e guarita dai medici. Il secondo Medardo è buono quanto l'altro è cattivo: ma è tanto buono da risultare fastidioso. Alla fine i due si battono in duello, ferendosi di nuovo in verticale: e un dottore ha modo di riattaccare le due parti sanguinanti. Il Visconte è di nuovo un uomo intero, con i suoi vizi e le sue virtù, il suo coraggio e le sue debolezze. Come tutti.

IL PROTAGONISTA
Per tutta la prima parte del romanzo il protagonista è uno solo, anzi mezzo, appunto il Visconte spaccato in due dalla cannonata. La sua ossessione è di dimezzare tutto quel che trova, animali e fiori. Si regge su una stampella, cammina a piccoli balzi sulla sua unica gamba, regala ai bambini funghi velenosi. Ha pure funzione di giudice e fa impiccare non solo chi osa ribellarsi, ma anche chi esegue male i suoi ordini. La gente torna a sperare quando, ugualmente dimezzata, ritorna l'altra parte del Visconte. Ma il Medardo buono crea più problemi di quanti ne risolva. Danneggia i commerci, si fa a sua volta dei nemici. La soluzione arriva quando le due metà si innamorano della stessa ragazza, una contadinella che in realtà non gradisce nè uno ne l'altro. Il gran duello finale, con le due parti del corpo che si riuniscono, risolve tutto: Medardo ridiventa "un uomo intero", con il solito misto di cattiverie e bontà, "cioè apparentemente non dissimile da quello ch'era prima di essere dimezzato. Ma aveva l'esperienza dell'una e dell'altra metà fuse insieme, perciò doveva essere ben saggio". Così "ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo".

IL PROCESSO AI BRIGANTI
Gli sbirri del castello arrestano dei briganti, tutto il paese occorre per assistere al processo. Ma per strada si fanno strane scoperte. Nei boschi i funghi sono tagliati dall'alto in basso, cosicchè spuntano da terra con mezzo gambo e aprono solo mezzo ombrello. Anche delle pere resta solo una metà, mentre l'altra è recisa di netto. Per capire dov'è il visconte basta scoprire un mezzo melone: chiaro che è passato di là. Inutile comunque cercare troppo. Medardo è sul suo seggio di giudice, seduto tutto per storto e coperto dal suo mantello nero.
Portano i briganti, e con loro dei cavalieri toscani che erano stati assaliti e derubati dalla banda. I malviventi sostengono di avere scambiato quei gentiluomini per dei bracconieri, e di essersi perciò sostituiti agli sbirri "che non ci pensavano". Ma il Visconte non fa distinzioni. Condanna a morte i briganti perchè colpevoli di rapina. Condanna alla forca anche i cavalieri, rei di bracconaggio. Infine, visto che gli sbirri non erano intervenuti nè contro i cavalieri nè contro di banditi, fa impiccare pure loro.

Tutt'altro carattere ha il Medardo buono. C'è nella zona un gruppo di ugonotti, scappati dalla Francia per le persecuzioni religiose. Costoro non ricordano più i loro antichi riti e cantano gli inni sacri senza pronunciare le parole, temendo di sbagliarle. Per campare vendono i raccolti, e si arrabbiano quando il Buono trova che le loro tariffe sono troppo alte per la povera gente. Gli dicono: "Fare la carità, fratello, non vuol dire rimetterci sui prezzi".
E' lo stesso Calvino che, in una lettera a un critico, spiega le intenzioni del suo racconto. Che le due metà del Visconte "fossero ugualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un effetto comico e nello stesso tempo anche significativo, perchè alle volte i buoni, le persone troppo programmaticamente buone e piene di buone intenzioni sono dei terribili scocciatori". Chiaro il riferimento a una certa sinistra politica, i cui buoni propositi si traducono in oppressione.

LE GRANDI CIVILTA': I ROMANI

L'IMPERO
La data di nascita dell'Impero romano è ritenuta solitamente il 27 a.C. quando Ottaviano, ristabilita la pace, ottenne dal Senato il titolo di Augusto e governò da solo Roma come primo imperatore. Da quel momento fino al 476 d.C., anno della caduta dell'Impero romano d'Occidente, si susseguirono moltissimi imperatori di varia capacità e intelligenza, che portarono l'Impero alla massima espansione con 43 province e poi alla decadenza. L'ultimo imperatore fu Romolo Augustolo.

GLI DEI
I Romani veneravano un gran numero di divinità, che si dividevano in "familiari" - come i Lari, protettori della casa, i Penati, custodi delle provviste, i Mani, spiriti degli antenati - e "nazionali", comuni a tutti. Molti di questi dèi si distinguevano da quelli greci solo per il nome.
Ecco i principali:
Dèi romani - Dèi greci - Attribuzioni
Giove - Zeus - re degli dèi
Giunone - Era - moglie di Giove
Minerva - Atena - sapienza e lavoro
Marte - Ares - guerra
Venere - Afrodite - amore e bellezza
Mercurio - Ermete - commercio
Cerere - Demetra - agricoltura
Giano -            - inizio e fine
Nettuno - Poseidone - mare
Plutone - Ade - regno dei morti
Apollo - Apollo - sole
Diana - Artemide - caccia
Bacco - Dioniso - vino

I DISCENDENTI DI ENEA
La leggenda racconta che Roma fu fondata nel 753 a.C. da Romolo, figlio di Marte, dio della guerra, e di Rea Silvia, sacerdotessa della dea Vesta e figlia di Numitore, re di Alba Longa, discendente dell'eroe troiano Enea. Numitore era stato spodestato dal fratello Amulio, che fece abbandonare il neonato Romolo e il gemello Remo su una cesta in balia delle acque del Tevere. I due, destinati a morire, si salvarono e furono allevati da una lupa. Diventati adulti, decisero di fondare una città. Subito dopo, però, litigarono: Romolo uccise Remo e divenne il primo re di Roma.

I SETTE RE DI ROMA
La leggenda ci tramanda il nome di sette re di Roma: il latini Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio e gli etruschi Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Gli storici ritengono che siano stati più numerosi, ma non negano che i sette re ricordati siano realmente esistiti.
La Monarchia ebbe fine nel 509 a.C. ad opera dei patrizi (i nobili).

LA REPUBBLICA
Sorta sulle ceneri della Monarchia, la Repubblica era governata da due consoli eletti ogni anno, aiutati da altri magistrati (censori, pretori, questori), da un'assemblea di cittadini e dal Senato. Il periodo vide l'espansione di Roma in Italia, nel Mediterraneo e in gran parte dell'Oriente.
All'interno non mancarono lotte civili, dapprima tra patrizi e plebei per la parità di diritti, poi tra la varie fazioni, simili in qualche modo ai nostri partiti politici. Queste lotte, spesso sanguinose, portarono alla fine della Repubblica e all'avvento dell'Impero.

EROI LEGGENDARI
Orazio Coclite
da solo impedì agli etruschi di attraversare il ponte Sublicio sul Tevere, ultima difesa di Roma. Mentre tratteneva gli avversari, combattendo coraggiosamente, i suoi compagni tagliarono con le scuri il ponte di legno alle sue spalle. Gettatosi, infine, nel fiume, riuscì a salvarsi e ricevette grandi onori.
Muzio Scevola aveva tentato invano di uccidere il re etrusco Porsenna: catturato dai nemici, davanti agli occhi dello stesso Porsenna, tese sul fuoco la mano destra, che aveva fallito, e la lasciò bruciare. Per questo gesto eroico gli fu concessa la libertà.

LA FAMIGLIA
Il padre aveva potere assoluto sulla moglie e sui figli, anche adulti. I figli dei ricchi andavano a scuola. Gli insegnanti erano in genere greci, talvolta schiavi o liberti (ex schiavi). Le figlie a 13 anni smettevano di andare a scuola ed erano educate a diventare brave casalinghe.
I Romani portavano tre nomi: il primo (prenome) era quello personale; il secondo (nome) era quello della "gens" (il gruppo cui facevano capo più famiglie con un antenato in comune); il terzo (cognome) era quello proprio della famiglia.

1861: LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA

Nel 1861 l'Italia non è più un mosaico di Stati. Scomparsi i ducati e i granducati in Emilia e Toscana, ridotto il dominio pontificio alla sola zona del Lazio, tramontate da Napoli a Palermo le fortune dei Borboni, solo il Veneto e Roma mancano a completare l'unità della Penisola. E' in quest'anno che viene decisa la proclamazione del Regno d'Italia. Il conte di Cavour, primo ministro del re piemontese Vittorio Emanuele II, aveva giocato molto abilmente alleandosi con la Francia contro l'Austria. Nel 1859 aveva sfidato la potenza viennese facendo pronunciare al sovrano una frase rimasta famosa: "Mentre rispettiamo i trattati, non possiamo restare insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi". Confermato così pubblicamente che Torino appoggiava i moti di indipendenza nelle altre regioni italiane, era naturale che scoppiasse la guerra.

Le ostilità contro l'Austria cominciarono il 28 aprile 1859: dopo una prima vittoria a Magenta e l'ingresso trionfale a Milano, i franco-piemontesi batterono le forze imperiali a San Martino e Solferino. Non si trattò, per Cavour, di un successo totale. Sebbene i patti iniziali fossero diversi, i francesi lasciarono l'Austria la regione triveneta e chiesero per sè Nizza e la Savoia. Nizza era la patria di Garibaldi, che si oppose inutilmente; la Savoia era addirittura la culla dei re chiamati appunto sabaudi. Ma a compensare queste delusioni sopravvenne l'epica impresa dei Mille di Garibaldi: nel 1860 venne conquistato il Regno delle Due Sicilie, e un grande plebiscito ne segnò l'annessione all'Italia. Nella stessa forma passavano sotto il controllo piemontese anche l'Umbria e le Marche.

Cavour aveva lavorato per l'Italia unita, pur rendendosi conto che l'integrazione delle zone meridionali non sarebbe stata facile. Così Cavour agì in maniera apparentemente contradditoria. Da una parte agì per dissipare l'impressione di un Piemonte che si annetteva altre terre, quasi fossero state delle colonie. Nello stesso tempo però fece approvare, nell'ottobre 1860, una legge elettorale che assegnava in pratica i maggiori privilegi al Nord. Ridusse il numero dei deputati, limitò il diritto di voto ai cittadini maschi che avessero più di 25 anni e pagassero almeno quaranta lire - somma notevole a quei tempi - d'imposta all'anno. Il risultato fu che potè votare appena il 2 per cento della popolazione. E poichè i dirigenti cattolici lanciarono la parola d'ordine "nè eletti nè elettori", mostrando così la loro avversione sia per Cavour sia per Garibaldi - entrambi impegnati per conquistare Roma -, alla fine votarono soltanto 240 mila dei 418 mila aventi diritto, su 22 milioni di cittadini.

Con questa legge elettorale Cavour aveva favorito i cittadini del Nord, più ricchi, a spese di quelli meridionali. La conseguenza fu che nelle zone del Sud i piemontesi si comportarono da conquistatori e nelle zone annesse esplosero ribellioni di contadini, fino a forme molto gravi di banditismo.

Un altro elemento di divisione fu poi la questione cattolica, Pio IX considerava i piemontesi come degli usurpatori.
In questa complessa situazione Cavour si comportò con maestria. Offrì al Pontefice quella che sarebbe stata poi la soluzione finale ossia "libera Chiesa in libero Stato": fine del dominio secolare dei Papi, ma libertà religiosa pienamente garantita dallo Stato italiano. Molti cattolici, come si vide dall'andamento delle elezioni, mantennero verso l'unità d'Italia un atteggiamento di distacco. Nessuno comunque poteva opporsi al disegno di Cavour. E il 14 marzo 1861 viene finalmente proclamato il Regno d'Italia, sovrano Vittorio Emanuele.

 

ITALO CALVINO: IL BARONE RAMPANTE

Autore: Italo Calvino (1923 - 1985)
Lingua originale: italiano
Data di nascita: 1957
Genere: racconto fantastico su un uomo che "visse sugli alberi, amò sempre la terra, salì in cielo"
Epoca storica: seconda metà del 1700

L'AUTORE
Italo Calvino, morto nel 1985 a 62 anni, ha un posto di rilievo nella letteratura italiana del nostro secolo. Il barone rampante  è uno dei tre romanzi che compongono il ciclo I nostri antenati. Gli altri due, non meno famosi, sono Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente. Scrittore ironico e fine, saggista capace di affrontare anche questioni scientifiche e problemi filosofici, Calvino è ricordato inoltre per Palomar, Se una notte d'inverno un viaggiatore e, opera giovanile,  Il sentiero dei nidi di ragno, dedicato alla guerra partigiana. Autore di livello internazionale, stava per tenere un giro di conferenze in America quando l'ha colto la morte. Il testo di questi discorsi, pubblicato in seguito, è una delle sue opere maggiori.

LA TRAMA
Corre l'anno 1767 quando, in un caldo giorno di prima estate, il giovane Cosimo si ribella in una volta sola al padre, al cibo che gli si vuole far mangiare, alla sorella che gli fa i dispetti. Cosimo ha 12 anni e insieme al fratello minore, Biagio, vive sotto il dominio dell'austero capofamiglia, il barone Arminio che passa la vita sognando di diventare duca. La madre, figlia di un generale, dirige la casa come se fosse un accampamento militare. La sorella Battista tiene prigionieri dei mucchi di lumache in un barile. Quando i due maschietti tentano di liberarle, lei se ne accorge e, per punirli, serve le lumache a pranzo. Cosimo si rifiuta di mangiarle e, ai rimproveri del barone, si arrampica su un albero giurando che di là non scenderà più.
A mantenere la parola lo aiuta Viola, un'altra nobile ragazzetta che lo prende in giro. E' bellissima, ama giocare con i piccoli straccioni della zona, vicino a Genova. In quell'epoca la Liguria, il Piemonte, la Francia erano pieni di alberi. Passando da un ramo all'altro si poteva arrivare a Parigi senza toccar terra. Cosimo non si limita a scorrerie nel giardino di Viola, o a combinar guai insieme ai figli dei poveri. A poco a poco scopre la bellezza della natura. Diventa un esperto di querce, pini, ulivi, castani, olmi, lecci. Crescendo, poi, si accorge che è possibile vivere lontani dalla gente, o meglio al di sopra, frequentando banditi fuggiaschi, parlando con gli animali, leggendo i libri che il fratellino gli porta. Gli altri, quelli che stanno al riparo delle case, non si scandalizzano troppo. Pensano che sia un ricco originale, e presto non ci fanno più caso.
Il mondo degli alberi diventa così il regno del giovane barone. Trascorrono gli anni, i rassegnati genitori muoiono. Cosimo lascia tutti i suoi averi al fratello. Un giorno incontra un gruppo di esuli spagnoli, come lui sugli alberi perchè le autorità genovesi impediscono loro di "toccare il suolo". Si innamora di una ragazza che però, per un'amnistia, deve tornare in patria. Finalmente rivede Viola, che ha sposato un ricchissimo e vecchio duca, rimanendo subito vedova. Anche lei lo ama e condivide la sua vita tra i rami. Ma è una donna inquieta, presto se ne andrà. Solo, deluso ma irremovibile, Cosimo non cambia vita. Finisce il vecchio regime, arrivano i soldati di Napoleone ma, per la popolazione, nulla cambia. Una mattina passa sopra il bosco una mongolfiera. Il barone rampante, sebbene in agonia, balza come faceva da giovane e si aggrappa alla corda che regge l'ancora. Il pallone vola via, lui resta aggrappato. Nessuno lo vedrà più.

I PERSONAGGI
Cosimo: A un certo punto della sua vicnda aerea, il barone fa una scoperta che gli sembra di alto significato. Aiutando i paesani, avvertendoli  dei pericli, sentendosene apprezzato, egli si accorge che "le associazioni rendono l'uomo più forte, mettono in risalto le doti migliori dell'uomo, e danno la gioia di vedere quanta gente c'è onesta e brava e capace". Invece, vivendo per conto proprio, capita più spesso "di vedere l'altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada". Concetti che rispecchiano le idee politiche dell'autore.

Il barone padre: Noioso, non cattivo, "la sua vita era dominata da pensieri stonati, come spesso succede nelle epoche di trapasso". Sebbene stiano per scomparire re e nobili, a causa della Rivoluzione francese, il barone non pensa che al titolo di duca, è convinto che esso gli spetti; studia genealogie e successioni, progetta alleanze con altri titolati. Non capisce per niente il figlio Cosimo, anzi se ne vergogna. Solo alla fine della sua vita riuscirà a parlargli con amicizia: ma ormai è troppo tardi.

Il fratello Biagio: E' lui che racconta la storia di Cosimo, che un pò ammira ma senza voglia alcuna di imitarlo. Classico uomo qualunque, che subisce gli avvenimenti, Biagio porta i viveri al fratello, lo aiuta a coprirsi e sistemarsi fra gli alberi. Di più non fa. Accetta volentieri l'amministrazione dei beni di famiglia, fa vita brillante. Quando incontra a Parigi la bella Viola, corteggiatissima, non trova di meglio che parlarne male a Cosimo. Ma che importa ormai? Il vecchio mondo è morto, solo sugli alberi resiste la saggezza.

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA: IL GATTOPARDO

L'AUTORE
Tomasi principe di Lampedusa è morto nel 1957, un anno prima che venisse pubblicato il suo romanzo. L'aveva sottoposto a editori di prestigio e fu un notissimo scrittore, ascoltato consulente, a respingerlo: per stupidità, incomprensione, invidia, non si è mai capito. In vita, del resto, Tomasi non aveva avuto alcuna fortuna letteraria, malgrado il suo gusto finissimo e la sua sterminata cultura. Incoraggiato tuttavia da qualche amico, si impegnò alla stesura del Gattopardo per tre anni di seguito, praticamente sino alla morte. Il libro ebbe immediatamente uno straordinario successo, con centinaia di migliaia di copie vendute e traduzioni in tutto il mondo.

LA TRAMA
Nella Sicilia del 1860 è sbarcato Garibaldi. Da quel momento cambierà tutto. O forse no, perchè c'è chi pensa che si fingerà di cambiare, lasciando tutto come prima.
Nell'immenso palazzo dei Salina vive il principe Fabrizio, che nel blasone ha un gattopardo baffuto. E' un uomo di statura imponente, biondo, con un prestigio naturale. Assiste con distacco agli avvenimenti, pur capendo che la sua epoca sta per finire. Altri uomini vengono avanti, come il sindaco Calogero Sedàra, "don Calò", brutto e piccolo, privo di classe ma astuto e pieno di soldi. Don Calò ha una figlia bellissima, Angelica, che ha fatto studiare nel continente. Di lei si innamora Tancredi, nipote di don Fabrizio, che è stato con Garibaldi. E' l'incontro fra la nobiltà e il denaro; i due si sposano anche se una figlia del principe, Concetta, era a sua volta innamorata di Tancredi. Passano gli anni, le speranze portate da Garibaldi sono deluse. Il principe muore; nel vecchio castello resta Concetta, che si è sposata. Un odoro di cose perdute, un mondo che non rinascerà più.

IL PROTAGONISTA
Il Gattopardo, pubblicato dopo la morte del suo autore, è stato venduto in oltre un milione di copie e tradotto in tutte le lingue. Nella figura del principe Fabrizio è facile vedere una biografia intellettuale dello stesso Tomasi di Lampedusa: intelligenza, senso della tradizione ma consapevolezza che il mondo si muove, senso di un'epoca perduta. Fabrizio è un uomo che capisce l'inutilità di opporsi alla storia: sotto questo aspetto un uomo moderno, anche se in apparenza fedele alle regole del passato. Verso il suo ambiente sente insieme amore e noia; verso le novità interesse e sfiducia. Sa che l'uomo è quello che è: le sue passioni e le sue aspirazioni non cambiano. Una sua frase, forse la più famosa: "Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, che si trova a disagio fra tutti e due".

IL BLASONE E IL DENARO
Nel paese di Donnafugata, dove si trova il palazzo dei Salina, si vota per l'annessione all'Italia. Il plebiscito dà 512 "si" su 512 votanti. Nessuno contrario. Don Fabrizio trova strano questo risultato e, andando a caccia, ne parla con un uomo del posto che lo accompagna, don Ciccio Tumeo. Questi gli confida che voleva votare "no", ma tanto non c'è rimedio: i vincitori avrebbero fatto ugualmente quello che volevano. Come don Ciccio si sono comportati tanti altri. Don Fabrizio riflette: è come se a Donnafugata fosse stata strangolata una neonata, in buonafede.
Ma il principe ha un altro argomento che gli sta a cuore, il nipote Tancredi, innamorato di Angelica. Che cosa si pensa in paese, domanda, della famiglia Sedàra? Don Ciccio non si fa pregare. Comincia col dire che don Calogero Sedàra non è peggiore di tanta altra gente. Ma subito si sbottona. Sebbene ricchissimo, don Calò è un avaro; quando la figlia era in collegio, lui e sua moglie mangiavano un uovo in due. Ma farà carriera. Ha spianato politicamente il terreno ai garibaldini, prevenendone la vittoria. Andrà certo deputato al Parlamento di Torino, diventerà il più grande proprietario della provincia.
Don Fabrizio insiste: e la famiglia? Risponde don Ciccio: la moglie di don Calogero non l'ha mai vista nessuno. Si sa che è bellissima ma come una specie di animale: non sa nè leggere nè scrivere, non conosce l'orologio, quasi non è capace di parlare. Suo marito la tiene nascosta a tutti. Il padre era un affittuario sudicio e torvo, chiamato con un soprannome infamante. Don Ciccio è lanciato e descrive senza complimenti anche la bellezza di Angelica: ma poi di colpo capisce che c'è di mezzo Tancredi, nipote del principe, e non sa come continuare. Don Fabrizio è seccato: da una parte pensa che si sta parlando della futura nipote; dall'altra capisce che don Ciccio non ha colpa se non sa niente. Lo informa di botto che Tancredi chiederà la mano di Angelica; si esprima quindi don Ciccio con il dovuto rispetto. Il pover'uomo è allibito. Un nipote del principe che si mette con la figlia di un nemico di classe? "E' una porcheria. E' la fine dei Salina!". Il principe sta per saltargli addosso, ma si calma. E' un uomo di scienza, un matematico, abituato a vedere tutti i lati delle cose. "Andiamo a casa don Ciccio, voi certe cose non le potete capire". Mentre discendevano la strada "sarebbe stato difficile dire chi fosse Don Chisciotte e chi Sancio Pancia".

VIRGILIO: L'ENEIDE

L'AUTORE
Virgilio nacque il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Visse in campagna fino a 12 anni e la natura fu la sua prima maestra e ispiratrice. Studiò, poi, a Cremona, a Milano e a Roma dove si trasferì definitivamente dopo la confisca delle proprietà terriere del padre. Qui visse dolorosamente le guerre civili che portarono alla fine della Repubblica, senza parteciparvi. Tornata la pace ad opera di Ottaviano Augusto, potè godere della protezione dell'imperatore e dedicarsi agli studi e alla poesia, sue uniche passioni. Per le sue opere minori era diventato famoso a tal punto da essere considerato da Augusto "poeta ufficiale" di corte. L'Eneide, suo capolavoro, a cui dedicò dieci anni di vita, fu scritto per esaltare le origini di Roma e con esse Augusto che aveva ridato alla città splendore e pace. Morì il 22 settembre del 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia, senza aver potuto rivedere e completare il poema.

LA TRAMA
Il viaggio di Enea da Troia al Lazio dura sette anni, tra mille ostacoli. La prima tappa è in Tracia, l'attuale Romania. Poi nell'isola di Delo a consultar l'oracolo del dio Apollo, da sempre amico dei Troiani. Successivamente nell'isola di Creta, dove scoppia una pestilenza; nelle isole Strofadi (Mar Ionio); ad Azio e a Butroto nell'Epiro (Albania), dove Enea incontra Andromaca, moglie di Ettore, divenuta schiava di Pirro, figlio di Achille. Dall'Epiro alla Sicilia, dove muore Anchise. Di qui una tempesta, scatenata da Giunone, che odia i Troiani, spinge Enea e i suoi compagni in Africa. Dopo un lungo soggiorno a Cartagine, il viaggio riprende con una nuova tappa in Sicilia per onorare la memoria di Anchise, poi una sosta a Cuma per consultare la Sibilla e infine l'arrivo sulle coste del Lazio.

IL CAPOSTIPITE DEI ROMANI
Siamo nel XII secolo a.C. Dopo dieci anni di guerra, Troia viene conquistata e incendiata dai Greci, ma per volontà degli dèi si salva un eroe troiano, Enea, con il padre Anchise, il figlio Ascanio e un gruppo di compagni. A lui è affidata dal Fato la missione di fondare una grande città in Italia. Dopo un lungo viaggio per mare con molte tappe e imprevisti, Enea approda sulle coste dell'Africa, dove viene ospitato da Didone, regina di Cartagine, che si innamora di lui. Enea, però, deve obbedire al destino, abbandona Didone, che lo maledice e si uccide, e riparte. Nel frattempo il padre Anchise è morto, ma Enea lo incontra nei Campi Elisi, durante un viaggio nell'oltretomba che gli è concesso dagli dèi per conoscere il luminoso frutto della stirpe romana di cui sarà il capostipite. Ripreso il viaggio, Enea giunge finalmente sulle coste del Lazio alla foce del Tevere e incontra il re Latino e le altre popolazioni del luogo. Le sue sofferenze non sono finite: dovrà affrontare in guerra Turno, re dei Rutuli, che si sente spodestato dall'arrivo dell'eroe troiano. La posta in palio è la mano di Lavinia, figlia del re Latino, promessa dalla madre a Turno, e di conseguenza il dominio sul Lazio. Dopo alterne vicende Enea vince. Un suo discendente, Romolo, fonderà la grande Roma.

Figlio della dea Venere e di Anchise, Enea, personaggio secondario nell'Iliade, è protagonista indiscusso del poema che da lui prende il nome. E' un uomo "pio", nel senso che i Romani attribuivano al termine: rispettoso degli dèi, del Fato, delle tradizioni, della famiglia, della patria, guerriero coraggioso e leale, ma soprattutto animato da un forte senso del dovere e della responsabilità verso i compagni, anche quando, come spesso accade, è provato dalla sventura. Virgilio lo propone come modello ai suoi contemporanei.

Virgilio descrive e fa agire gli dèi come Omero, che egli considera il suo Maestro: immortali, degni di onore e rispetto, ma non esenti da difetti e atteggiamenti umani e perciò non completamente felici. Li fa intervenire nelle azioni dei personaggi a favore o contro: Giove agisce con una certa imparzialità, mentre - per esempio - il confronto tra Giunone, contraria ai Troiani, e Venere, madre di Enea, ha le caratteristiche di un duello. Al di sopra di tutti gli dèi sta il Fato (destino), di cui Giove è il custode. Una forza implacabile e immutabile, lontanissima dalle gioie e dai dolori degli uomini e della Storia.

DANTE ALIGHIERI: LA DIVINA COMMEDIA

L'AUTORE
Il "sommo poeta", la figura più grande di tutta la letteratura italiana, nacque a Firenze (maggio 1265) da agiata famiglia guelfa (i guelfi erano sostenitori del Papa contro l'Imperatore). Suo padre era giudice e notaio, la madre morì quando egli era ancora fanciullo, nel 1278. Cinque anni dopo, Dante rimase orfano anche del padre. Continuò comunque gli studi.
Amava il disegno e la musica, ma sapeva usare anche le armi, tant'è che prese parte alla grande battaglia di Campaldino, dove nel 1289 si scontrarono guelfi fiorentini e ghibellini (i sostenitori del poter imperiale) d'Arezzo.
Innamorato - ma non corrisposto - di Beatrice Portinari, che aveva conosciuto all'età di nove anni, ne cantò le lodi in versi dolcissimi. Tuttavia sposò Gemma Donati, dalla quale ebbe tre figli.
Dante svolse attività politica ricoprendo cariche pubbliche finchè non fu accusato di corruzione e costretto all'esilio. Fu con l'inizio delle sue peregrinazioni - che lo portarono a Verona, in Lunigiana e in tante altre parti d'Italia - che prese forma il grande capolavoro letterario: la Divina Commedia.
Ammalatosi di febbre malarica a Venezia, Dante morì il 14 settembre 1321 a Ravenna, dov'è tuttora sepolto nella chiesa di San Francesco.

LA TRAMA
Un uomo di età media, che ha vissuto amarezze e delusioni nell'Italia rissosa del 1300, compie un viaggio che oggi si definirebbe di fantascienza: un'esplorazione del regno dei morti in compagnia di un grande poeta dell'antichità, Virgilio. L'inferno è una voragine a forma di cono rovesciato, un abisso che insieme racchiude e simboleggia il male. Il Purgatorio è un'isola dall'altra parte del globo, che contiene alla sommità il Paradiso  terrestre.
Dante e Virgilio scendono di continuo nelle viscere della Terra, accorgendosi a poco a poco che in realtà stanno risalendo, dall'oscurità verso la luce. Alla fine Dante si troverà vicino alla Divinità; il termine del suo viaggio è la conoscenza di Dio, bene supremo e beatitudine irraggiungibile dall'uomo.

IL PROTAGONISTA
Specialmente nell'Inferno, Dante fa trasparire quella che è stata la storia della sua vita: un amore infantile e poetico per Beatrice, un matrimonio sfortunato, una carriera pubblica che lo portò prima ad alti incarichi nella sua Firenze e poi alla sconfitta e all'esilio. Dante è ancora pieno di collera verso i suoi nemici: non ha perdonato specialmente i traditori, chi per viltà ha servito le peggiori cause.
Mentre scrive è ospite di benefattori; è grato, ma ammonisce "come sa di sale/lo pane altrui e come è duro calle/lo scendere e 'l salir per l'altrui scale". La tristezza si stempera nei Canti successivi: qui emerge con forza il Dante che ha studiato filosofia e metafisica, l'uomo di pensiero che purifica le miserie terrene avvicinandosi, un passo dopo l'altro, a quelle vette in cui l'uomo è più a contatto con il Creatore.

IL CONTE UGOLINO
Dante e Virgilio sono arrivati al fondo dell'Inferno, un lago gelato nel quale soffrono i traditori. Da una buca spuntano due corpi coperti di ghiaccio. E' uno spettacolo davvero orrendo. Uno dei due uomini sta addentando la testa dell'altro. Dante domanda la ragione di questo spettacolo bestiale: perchè tanto odio?
"La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator". E' il conte Ugolino della Gherardesca, capo dei guelfi di Pisa, che si alleò con l'arcivescovo Ruggieri, capo dei ghibellini, per togliere la signoria della città a Nino di Gallura. Cacciato Nino, il conte Ugolino ebbe come premio il tradimento: rinchiuso in una torre con due figli e due nipoti, fino a morire di fame. La testa che egli sta mordendo è quella dell'uomo che lo ha ingannato, Ruggieri.
Prima di parlare, Ugolino si pulisce la bocca dai capelli, poi comincia: "Tu vuo' ch'io rinovelli/disperato dolor che 'l cor mi preme". E' un'emozione che lo divora, e il conte sente l'inutilità del suo racconto. Ma ha di fronte un fiorentino, e spera che le sue parole fruttino infamia al traditore.
Si era fidato di lui. Ha poca importanza, dice Ugolino della Gherardesca, spiegare come sia stato prima catturato e poi lasciato morire. Gli preme soltanto dire quale fine spaventosa è stata riservata a lui e ai suoi cari. Chiuso in prigione, risvegliandosi dopo un incubo, il conte sente i figli che piangono nel sonno e chiedono un pezzo di pane. E' l'ora in cui di solito i carcerieri portano il cibo; ma quella mattina non viene nessuno. Anzi, si sente il rumore delle chiavi che chiudono per sempre la porta della torre. Ugolino impietrisce; i figli piangono e gli domandano che stia succedendo. Il prigioniero non risponde. Tace per l'intera giornata, poi la notte, poi un giorno ancora.
Al risveglio vede i quattro ragazzi che lo guardano e capisce dalla loro espressione quanto stiano soffrendo. Si morde le mani per il dolore. Gli dicono i figli: "E' meglio che tu mangi la nostra carne. Tu ci hai dato la vita, tu ce la puoi togliere". Si lamenta Ugolino: "Ahi dura terra, perchè non t'apristi?". Al quarto giorno un figlio mormora: "Padre mio, che non m'aiuti?", e muore.
Fra il quinto e il sesto giorno si spengono anche gli altri. Ugolino si getta sui loro corpi: per due giorni invoca il loro nome. "Poscia, più che il dolor potè il digiuno". Frase oscura: forse Ugolino muore di fame, o forse per fame divora le carni dei suoi figli.

GIOVANNI VERGA: I MALAVOGLIA

L'AUTORE
Giovanni Verga (nato a Catania nel 1840 e là morto all'età di 82 anni) scrisse il suo primo romanzo (Amore e patria, mai pubblicato) all'età di 16 anni. Di famiglia benestante, non finì gli studi di giurisprudenza per dedicarsi alla stesura delle sue opere. Il secondo romanzo, I carbonari della montagna, in quattro volumi, narra le imprese della Carboneria calabrese contro il regime napoleonico di Gioacchino Murat. Oltre a I Malavoglia, le sue opere più importanti sono Mastro Don Gesualdo, Una peccatrice, Storia di una capinera. Famosissime anche le novelle siciliane raccolte sotto i titoli Vita dei campi e Novelle rusticane.

LA TRAMA
Il mare cattivo, il pettegolezzo, il contrabbando, le guardie, lo scoppio di collera che porta al delitto, la fatica ossessiva per uscire dalla miseria: in questo intreccio si muove una famiglia sfortunata fin nel nome, i Malavoglia. Il vecchio capo di casa, Padron 'Ntoni, vede ripetutamente naufragare la sua barca. La disgrazia maggiore è quando muore suo figlio tentando di trasportare, per qualche soldo, un carico di lupini. Padron 'Ntoni è pieno di debiti, i nipoti non riescono ad aiutarlo. Uno rimane ucciso in guerra, un altro si dà a cattive compagnie e, sorpreso dalle guardie, ne accoltella una, prendendosi cinque anni di carcere duro. Una delle ragazze di casa, diffamata dalle comari, se ne va per sempre. Destino dei poveri, in un mondo spietato.

IL PROTAGONISTA
C'è forse una inconsapevole crudeltà, in Verga, quando descrive i malanni che uno dopo l'altro abbattono il protagonista de "I Malavoglia". Padron 'Ntoni non è soltanto un buono. E' un saggio. Sa vedere lontano, capisce le cose, ha una sua profonda cultura interiore. E' un cattolico che non si limita ad aspettare la grazia dei santi, ma crede nell'iniziativa dell'uomo, sia quando tenta la sorte sia quando raccomanda il buonsenso. Eppure questa innata intelligenza non serve a niente. Quando la famiglia, colpita dalla sventura, tenta di rialzarsi e comincia a vedere un pò di luce, arriva puntuale un nuovo colpo della malasorte. Padron 'Ntoni, sempre sconfitto, mai vinto veramente, resiste fino in fondo. Morirà come un patriarca, fra l'amore di tutti: la sua unica ma vera vittoria.

UN COLPO DI COLTELLO
Il vecchio Padron 'Ntoni, forte nonostante le sciagure, continua a lavorare per pagare i debiti di casa. Suo nipote, il giovane 'Ntoni, è di un'altra pasta. Non ha più speranza, si compiange, si fa mantenere all'osteria da Santuzza, la figlia del padrone. Ha come rivale don Michele, il capo delle guardie. Santuzza vuole bene a 'Ntoni, ma il suo contegno la irrita. Lo vede ciondolare fra i bicchieri di vino, sempre più sporco e malandato. Don Michele fa dell'ironia. Corteggia Santuzza, si fa vedere anche con Lia, la sorella di 'Ntoni. Nella Sicilia dell'Ottocento sono sgarbi sanguinosi. Una sera, all'osteria, 'Ntoni litiga prima con Santuzza, poi salta addosso a don Michele. Bicchieri rotti, botte alla cieca, avventori che prendono a calci i contendenti per separarli. 'Ntoni se ne va giurando vendetta. Sono in molti ad aver sentito le minacce.
Passano alcuni giorni. 'Ntoni si è messo con un gruppo di contrabbandieri. Don Michele con altri gendarmi gli tende una trappola. Piove, nella notte non si vede niente. In mezzo agli scogli si sente un "Chi va là? Fermi tutti!". 'Ntoni fugge saltando un muro ma si trova naso a naso con don Michele, che ha la pistola in pugno. Ha ancora il ricordo della rissa per Santuzza, urla furibondo: "Voglio farvi vedere se ho paura della pistola!". Don Michele spara, il colpo va in aria. Va a segno invece la coltellata di 'Ntoni. La guardia stramazza a terra. 'Ntoni corre via "saltando come un capriolo, mentre le fucilate piovono come grandine"; ma i gendarmi gli sono addosso, lo buttano a terra e lo legano con le catene.
Comincia il processo. Padron 'Ntoni si provvede di un avvocato, anche se sa che in questo modo se ne andranno i suoi ultimi soldi. Per attenuarne la colpa del giovane 'Ntoi, l'avvocato chiama a deporre le comari del paese. E' un disastro. Le donnette fanno sapere che, oltre alla rivalità per Santuzza, c'è di mezzo anche l'altra nipote di Padron 'Ntoni, Lia, che se l'intendeva con don Michele. Il povero vecchio resta come fulminato.
'Ntoni rimarrà in galera, Lia se ne va di casa come una pazza, nessuno la vedrà più.

OMERO: ILIADE

L'AUTORE
Il nome di Omero è noto in tutto il mondo, eppure di questo poeta non si sa nulla di preciso. Se si considera che l'Iliade  e l'Odissea risalgono probabilmente all'800 a.C., la data di nascita di Omero va collocata nella seconda metà del IX secolo. Anche sul luogo dove nacqua i pareri sono discordi: le città che lo rivendicano sono una decina, ma le più quotate sono Chio e Smirne. In quest'ultima, sulle coste dell'Asia Minore (l'attuale Turchia), Omero trascorse la giovinezza facendo il maestro e qui scrisse l'Iliade. Si dice che un mercante lo convinse poi a seguirlo nei suoi viaggi per il Mediterraneo, permettendogli di conoscere Egitto, Libia, Spagna, Italia, Grecia e le isole dello Ionio e dell'Egeo. Diventato cieco per una malattia, si stabilì nell'isola di Chio, dove completò l'Iliade e compose l'Odissea. Morì molto vecchio, mentre cercava di raggiungere la Troade per visitare i luoghi cantati nell'Iliade.

LA TRAMA
Il poema si ispira alla guerra di Troia, durata 10 anni, ma narra gli avvenimenti che si verificano nell'ultimo anno nell'arco di 51 giorni. Nel campo greco scoppia una lite tra Agamennone, comandante della spedizione, e Achille, il guerriero più forte dei Greci. Questi, offeso, decide di non combattere più e con lui Patroclo, il suo amico fraterno. I Troiani, guidati da Ettore, approfittando dell'assenza di Achille, incalzano il nemico. Ad un certo punto stanno per raggiungere le navi greche ed incendiarle. Patroclo, preoccupato, chiede ad Achille il permesso di scendere in campo, ma viene affrontato ed ucciso da Ettore. Achille, sconvolto per la sua morte, decide di vendicarlo, fa strage di Troiani e li costringe a rifugiarsi dentro le mura. Soltanto Ettore resta in campo ed accetta il duello. Achille ne esce vincitore e fa scempio del cadavere del nemico. Soltanto l'intervento della madre, la dea Teti, lo induce a restituire le spoglie di Ettore al vecchio padre, il re Priamo, perchè possa celebrare solenni funerali.

L'AMBIENTE
Il titolo del poema deriva da Ilio, altro nome di Troia, fondata da Ilo. Sia Troia che Micene, Argo, Tirinto, Pilo e le altre città citate da Omero esistettero realmente. La scoperta dei resti di Troia, sulla sponda asiatica dello stretto dei Dardanelli, si deve al tedesco Schliemann, nel secolo scorso. Risalgono al 1200 a.C. Lo stesso archeologo rinvenne i resti di Micene, la più importante città della Grecia proprio tra il XVI e il XII secolo. I documenti monumentali e scritti confermano le condizioni politiche e sociali illustrate da Omero.

I PROTAGONISTI
Ettore. E' l'eroe dei Troiani, ma è anche padre e sposo tenerissimo e gode dell'incondizionata simpatia di Omero. E' un eroe coraggioso e leale, rispettoso degli dèi, convinto del suo dovere di difendere la patria e la famiglia, di mantenere alta la fama del suo nome perchè la moglie e il figlio abbiano stima e rispetto da parte di tutti. Sa che la fine di Troia è vicina, ma non pensa a mettersi in salvo e sacrifica se stesso.

Achille. Re di Ftia, in Tessaglia, figlio della dea Teti e di Peleo, era da tutti considerato il più grande guerriero greco. Secondo il mito, la madre lo aveva reso invulnerabile in tutto il corpo, tranne che nel tallone. E' un personaggio dai sentimenti forti sia nell'ira, sia nel dolore, sia nella vendetta. Soltanto l'amicizia e l'affetto per Patroclo e la commozione di fronte al dolore di Priamo, lo rendono più vicino ai comuni sentimenti umani.

La regina di Sparta. La guerra è cominciata quando Paride, principe troiano, ha rapito la bellissima Elena, moglie di Menelao, re di Sparta. E gli eserciti non possono dimenticarsene perchè Elena si affaccia spesso sulle mura della città, combattuta fra il timore che vincano i Greci e il rimorso per le stragi che ha causato. Caduta Troia, Elena tornerà con il primo marito, Menelao.

Mentre alcuni dèi, tra cui Giove (Zeus), preferiscono rimanere neutrali, altri si schierano chi a favore dei Greci, chi a favore dei Troiani. Giunone (Era), moglie di Giove, e Minerva (Atena) sono ostili ai Troiani perchè Paride nel "giudizio della bellezza" preferì a loro Venere. Favorevoli ai Greci sono anche Nettuno (Poseidone), Mercurio (Hermes) e Vulcano (Efesto). In favore dei Troiani si schierano Marte (Ares), Apollo, Diana (Artemide), Latona e Venere (Afrodite).

OMERO: ODISSEA

Autore: Omero
Lingua originale: greco antico
Genere: poema epico di 24 libri di esametri
Epoca storica: la guerra di Troia XIII secolo a.C.

LA TRAMA
L'Odissea è in qualche modo il seguito dell'Iliade. Troia è stata conquistata grazie allo stratagemma del cavallo di legno ideato da Ulisse ed è stata distrutta. Da questo momento, dopo 1o anni di guerre, inizia il ritorno degli eroi greci alle proprie case: Omero descrive in particolare quello di Ulisse che peregrinò per altri 10 anni prima di rivedere Itaca, la sua patria. L'azione del poema dura una quarantina di giorni, da quando Ulisse lascia l'isola della ninfa Calipso, fino al momento in cui riprende il possesso della sua reggia, insidiata dai Proci. Il resto del viaggio è raccontato dallo stesso protagonista ai suoi ospiti, dopo il naufragio sull'isola dei Feaci, dove regna Alcinoo. Ulisse ricorda gli scontri con la natura, gli dèi e gli uomini: i Ciconi, i Lotofagi, i Ciclopi e la paurosa avventura con Polifemo, i Lestrigoni, la maga Circe, la lunga sosta nell'isola di Ogigia presso Calipso e, infine, l'arrivo nell'isola ospitale dei Feaci. La parte finale del poema descrive l'arrivo di Ulisse ad Itaca. I Proci spadroneggiano nella reggia e pretendono che Penelope, la moglie di Ulisse, sposi uno di loro. Tutti ormai credono Ulisse morto, tranne Penelope e suo figlio Telemaco, al quale Ulise si rivela prima di passare all'azione e di sterminare i Proci.

I PROTAGONISTI
Ulisse. E' certamente il personaggio più complesso della letteratura antica. Fu guerriero poderoso e violento. Mostrò saggezza ed equilibrio rincuorando Achille e impedendo ai greci di tornare in patria abbandonando l'assedio di Troia. Astuto, talvolta subdolo, fece costruire il cavallo di legno che ingannò i troiani: stordendolo con il vino, accecò Polifemo. Romantico, sognava la patria lontana, Itaca. Innamorato e vendicativo, tornato dalla moglie Penelope sterminò i Proci. Uomo di fede, ebbe sempre l'aiuto della dea Athena. Ma forse l'essenza autentica del personaggio è il grande senso d'invididualità. Ulisse è il ribelle che sa affrontare l'ignoto.

Penelope. Per tenere a bada i Proci, disse che avrebbe scelto un nuovo sposo appena avesse finito di tessere un telo. Ma ogni notte disfaceva quanto aveva tessuto durante il giorno. Penelope simboleggia le fedeltà coniugale; è l'unica "moglie di eroe" omerico a non tradire il marito.

Telemaco. Figlio di Ulisse. Durante l'assenza del padre fu educato e aiutato dalla dea Athena che aveva assunto l'aspetto del vecchio insegnante Mentore. Non si conosce con esattezza la sua fine. Qualche mito dice che Telemaco uccise la maga Circe, ma dalla figlia della maga, Cassifone, fu ucciso a sua volta per vendetta.

Calipso. Ninfa regina dell'isola Ogigia. Profondamente innamorata di Ulisse, gli offrì il dono dell'immortalità per convincerlo a restare sempre con lei. Ma Ulisse rifiutò per tornare a Itaca da Penelope.

Circe. La maga, figlia di Elios, il sole. Abitava in un'isola vicino alla costa italica, a poca distanza dal Capo Circeo. Aveva mutato in mostro marino per gelosia la ninfa Scilla. Mutò in porci i marinai di Ulisse.

Polifemo. Il mostruoso enorme ciclope, figlio di Posidone, dio del mare. Aveva un solo occhio in mezzo alla fronte; abitava una caverna nei pressi del monte Etna. Cannibale, divorò alcuni compagni di Ulisse, che lo accecò dopo averlo fatto ubriacare.

GLI EROI GRECI
Agamennone.
Dopo un lungo viaggio, nella sua reggia di Micene trova la morte a tradimento per mano della moglie Clitennestra e di Egisto. In quell'occasione perde la vita anche la profetessa Cassandra, figlia di Priamo.

Menelao. Otto anni dura il suo viaggio di ritorno da Troia. Mentre torna con Elena e i tesori del bottino di guerra, una tempesta lo coglie presso il promontorio Melea ed è sbalzato con le sue navi in Egitto.

Aiace Oileo. Triste la storia del "piccolo" Aiace, che si era fatta nemica la dea Athena, perchè nel saccheggio di Troia, penetrato nel tempio, aveva portato via con forza Cassandra. Athena lo punisce facendolo naufragare. Aiace riesce a salvarsi su uno scoglio e a gran voce si vanta che non ha bisogno di protezione di alcuna divinità. Posidone (Nettuno), sdegnato da questa insolenza, con un colpo del suo tridente spacca lo scoglio e Aiace sprofonda in mare.

Diomede. Torna felicemente ad Argo. Avendo avuto dai parenti una fredda accoglienza, riprende la via del mare. Finito sulle coste italiane, prende parte alla guerra dei Dauni contro i Massapi. Fonda diverse città, tra le quali Benevento, Arpi e Brindisi.

Teucro. Fratellastro di Aiace Telamonio, torna a Salamina, ma il padre non vuole accoglierlo perchè non ha custodito la vita del fratello (si è ucciso dopo un litigio con Ulisse). Teucro si reca a Cipro.

VICTOR HUGO: I MISERABILI

L'AUTORE
Victor Hugo nacque a Besançon nel 1802 e morì a Parigi nel 1885. Partecipò intensamente come uomo, come scrittore e come politico a tutti gli avvenimenti più importanti della Francia del XIX secolo. Figlio di un generale di Napoleone, visse in parte al seguito del padre in Corsica e Spagna, in parte con la madre e i fratelli a Parigi. Fu proprio la madre inizialmente ad indirizzarlo verso la letteratura. Subito riscosse un immenso successo di critica e di pubblico e tuttora è considerato il più grande romanziere francese.
Politicamente si schierò con i rivoltosi parigini, partecipando alle barricate del 1848 e pronunciando infuocati discorsi contro la miseria e per il miglioramento delle condizioni di vita del popolo, contro la pena di morte e a difesa del suffragio universale e della libertà di stampa. Divenuto imperatore, con un colpo di Stato, Luigi Napoleone nel 1851, Hugo fu costretto a vivere esule per 19 anni; fu prima in Belgio e poi nelle isole inglesi di Jersey e Guernesey, da dove continuò la sua attività di propaganda contro l'imperatore e di sostegno agli esuli e ai patrioti repubblicani. Quando cadde Napoleone III, nel 1870, Hugo tornò a Parigi, accolto trionfalmente come poeta e guida della nazione e considerato quasi maestro degli ideali democratici. Egli aveva in mente molte riforme sociali, ma fu deluso anche dal nuovo governo. Nonostante questo, continuò a parlare e scrivere contro la tirannia, in difesa dei perseguitati e degli oppressi, fino all'ultimo giorno della sua vita. Tutta Parigi partecitò ai funerali e gli fu concesso l'onore della sepoltura nel Pantheon, tra le glorie nazionali.

LA TRAMA
Composto tra il 1850 e il 1862, il romanzo è dedicato alle vittime dell'ingiustizia sociale, cioè a coloro che vivevano nella miseria dei bassifondi parigini e nell'ignoranza. Jean Valjean ha trascorso 19 anni in carcere per aver rubato un pezzo di pane e poi tentato la fuga. Quando torna in libertà è ospitato dal vescovo di Digne, ma lo deruba dell'argenteria e fugge. Catturato con la refurtiva, finirebbe nuovamente in prigione se il presule non lo scagionasse, dicendo di avergliela regalata. Colpito da tanta generosità, Valjean si redime, cambia vita e nome e diventa un benefattore. Tra le sue buone azioni vi è la difesa di Fantine, una poveretta abbandonata con la figlia Cosette e maltrattata dall'ispettore Javert. Fantine, che era stata arrestata, viene rilasciata, ma Javert riconosce Valjean sotto la nuova identità e lo perseguita, tanto da costringerlo di nuovo ad una vita randagia. Intanto Fantine muore e Valjean adotta Cosette che, fornita da lui di dote, troverà la felicità sposando Mario, nipote di un nobile, passato dalla parte dei rivoluzionari nei moti del 1832 ai quali ha partecipato anche Valjean. Il protagonista, assistito dai due giovani, che ne hanno compreso la profonda bontà, muore stringendo le loro mani, mentre al suo capezzale ardono due ceri dentro i candelabri d'argento del vescovo di Digne.

JEAN VALJEAN
L'esperienza dell'ex forzato, costretto all'esilio e alla fuga, ha un riferimento autobiografico. Intorno a lui ruota il mondo dei poveri senza diritti (Fantine), dei buoni (il vescovo) e dei cattivi (l'ispettore Javert), quella Parigi che Hugo conosceva a fondo. Jean Valjean è alto, ossuto, forte e severo, agisce da protagonista nel male e nel bene. Pentitosi della sua condotta disonesta, si rifà una vita senza dimenticare però il suo passato di solitudine e infelicità. Perciò capisce a aiuta Fantine, disprezzata da tutti; in nome della giustizia rinuncia alla condizione di benessere che si era costruito per salvare un contadino che, scambiato per lui dal perfido Javert, sta per essere condannato; quando - durante i moti del 1832 - gli viene affidato in custodia come prigioniero Javert, infiltratosi tra gli insorti per spiarli, potrebbe ucciderlo, ma non lo fa e lo rimette in libertà. Questo gesto fa di lui il vincitore morale e l'eroe da imitare. Lo stesso Javert, che si è sempre comportato da freddo difensore della legge, identificata con il bene, si trova a dover riconoscere che c'è del buono anche in un ex galeotto, è sconvolto e, a sua volta, smette di perseguitarlo. Per questa catena di avvenimenti, di cui è protagonista e in cui coinvolge chiunque lo incontri, Jean Valjean è un grandioso personaggio della letteratura.

ITALO SVEVO: LA COSCIENZA DI ZENO

L'AUTORE
Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, è considerato dalla critica il maggior romanziere italiano del nostro secolo. Nato a Trieste nel 1861 e morto a 67 anni nel Trevigiano in seguito a un incidente d'auto. Svevo ebbe una singolare storia letteraria. Avviato dal padre al commercio dopo lunghi studi in Germania, dovette impiegarsi poichè la ditta di famiglia era fallita. I suoi primi racconti descrivono l'ambiente delle banche. Seguì una lunga esperienza giornalistica, tuttavia di scarso rilievo. Nel tempo libero Svevo scriveva: ma la sua prima e pur bellissima opera, Senilità, passò quasi inosservata. Lo stesso accadde a La coscienza di Zeno, pubblicata nel 1923: però due grandi letterati, l'irlandese James Joyce e l'italiano Eugenio Montale, futuro premio Nobel, gridarono presto al capolavoro. Uguale apprezzamento si ebbe in Francia, e a poco a poco si capì che questo autore apparentemente troppo scarno, che "scriveva male", ossia era lontanissimo dalle fioriture stilistiche di un D'Annunzio, rappresentava una straordinaria novità nel nostro panorama culturale. Una reputazione che con gli anni si è ancora accresciuta.

LA TRAMA
Ma ha una coscienza Zeno Cosini? Certo sa scrutare in se stesso e, su consiglio del proprio psicanalista si esamina e si autocritica, raccontando la propria vita. Non è una scoperta, per lui, rendersi conto che il sentimento dominante, nella sua personalità, è l'indifferenza. Non gli importa di niente: o meglio, al centro della sua vita è la sigaretta, amata e odiata. Domani smetterà di fumare, un domani che non arriva mai.
Zeno è un triestino di famiglia ricca. Ha un difficile rapporto con il padre che vorrebbe vederlo avviato a un lavoro serio. A tratti, in verità, Zeno ci prova, o almeno finge; e quando poi crede di essersi innamorato, comincia un'altra finzione. La ragazza che egli vorrebbe sposare, Ada, lo respinge. Allora, nella stessa serata e durante il ricevimento, Zeno propone il matrimonio a una sorella di lei, finendo poi col rivolgersi alla terza, Augusta, che è brutta ma lo ama. La loro è un'unione tranquilla, senza slanci nè screzi. Ada resta in qualche modo presente perchè suo marito, il bel Guido, debole e fatuo, è entrato in affari con Zeno. La ditta va male e Guido finge il suicidio, ma in modo così maldestro da morire davvero. Il libro si conclude con una profezia rimasta famosa: l'uomo, in possesso di un "esplosivo incomparabile", lo collocherà al centro della Terra. L'espressione fa pensare alla bomba atomica, un ordigno di cui nel 1923 nessuno poteva immaginare la futura esistenza.

LE TRE SORELLE
Zeno mormora fra sè le parole che deve dire ad Ada: "Posso domandare la sua mano a suo padre?". Ma quando la vede gli esce di bocca quest'altra frase: "Arrivederci domani. Mi scusi con la signora", cioè con la madre di Ada, che intanto osserva senza simpatia i suoi approcci. "Per quietarmi andavo dicendomi", dichiara Zeno, "che se essa non m'avesse voluto, avrei rinunciato per sempre al matrimonio. Il suo rifiuto avrebbe dunque mutato la mia vita".
Quando torna in visita dalla ragazza, la madre lo prende da parte e gli dice secca: "A me sembra che compromettiate Augusta". Zeno resta sbalordito: lui ama Ada, che c'entra Augusta? Certo è una manovra per buttarlo fuori da quella casa. Passano giorni tormentati, durante i quali Zeno viene preso da dolori che lo fanno zoppicare (malattia psicosomatica). Ma il giovanotto riprende coraggio e riparte all'attacco. Da Ada trova un concorrente, Guido, che evidentemente corteggia la ragazza e viene ricambiato. Ma tutta la serata è deludente. Guido suona benissimo il violino e Zeno lo prende in giro, rimproverato per questo da Ada. Poi disturba una seduta spiritica e Ada gli volta le spalle. Malgrado l'evidente ostilità, Zeno si dichiara: "Io vi amo Ada. Perchè non mi permettete di parlarne a vostro padre?". Lei prima lo guarda stupita e spaventata, quindi lo esorta a fidanzarsi con Augusta.
In quel momento viene in mente a Zeno una raccomandazione del padre: "Scegli una donna giovine e ti sarà più facile educarla a modo tuo". Allora si rivolge alla sorella minore di Ada, Alberta: vuole essere lei la sposa? Di nuovo respinto, sia pure con buone maniere, Zeno si rassegna. Anzi, dice ad Alberta: "Io ora farò la stessa proposta ad Augusta e racconterò a tutti che la sposai perchè le sue due sorelle mi rifiutarono".
Così Zeno, ormai via di testa, chiama la terza sorella: "Sentite, Augusta, volete che noi due ci sposiamo?". La poveretta rimane sbalordita: "Voi scherzate e ciò è male". Ma no, quale scherzo: "Io non so più rassegnarmi di restar solo". La buona Augusta lo guarda con decisione: "Voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista. Io voglio essere quella donna".