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PIRANDELLO FASCISTA

L’adesione di Luigi Pirandello al fascismo trovò le sue ragioni profonde nel sentimento di sfiducia da lui sempre ostentato verso i presupposti e, più ancora, verso le concrete realizzazioni dello Stato liberale democratico postunitario. All’interno della pagina pirandelliana e nella fitta corrispondenza epistolare frequenti furono i momenti in cui l’autore si abbandonò a invettive feroci contro i rappresentanti della politica italiana di fine Ottocento e inizio Novecento. E altrettanto frequenti furono le dichiarazioni di segno  evidentemente antidemocratico: “La causa di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? – proclamava un personaggio del Fu Mattia Pascal – La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza”. E, altrove, in un articolo del 1909, scritto per il giornale “La Preparazione”, Pirandello, osservando la negatività della situazione presente, affermava: “Chi può salvarci è l’Uno”, un individuo eccezionale le cui caratteristiche si condensavano nell’essere “un grande statista”, “un grande capitano”. Alla luce di questi presupposti, la comparsa di Mussolini poté apparirgli come lo sbocco di un lungo periodo di attesa. Il capo del fascismo veniva e essere colui che era riuscito a imporre, anche all’impetuosa e convulsa situazione italiana del dopoguerra, un ordine, una “forma”. Era “il formidabile creatore”, il “superbo animatore” della vita della nazione, secondo quanto il drammaturgo dichiarava al giornale “L’Impero” pochi giorni dopo la sua iscrizione al fascismo. In realtà, un’adesione tanto entusiastica avrebbe con il tempo dovuto scontrarsi con non poche delusioni e si sarebbe stemperata in un atteggiamento solitario e disincantato. Ciononostante Pirandello avrebbe continuato fino al momento della sua morte, avvenuta nel 1936, a farsi alfiere dell’Italia fascista durante le sue frequenti peregrinazioni in giro per il mondo, al seguito dei suoi personaggi teatrali.