QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

EMILIA ROMAGNA: IL PARMIGIANO

Per fare un buon parmigiano-reggiano sono necessari un buon latte e un buon casaro. Il buon latte è fornito da mucche sane, accuratamente controllate, che si nutrono con foraggi provenienti esclusivamente dalla zona tipica del parmigiano-reggiano, che comprende le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna. Anche i mangimi che contribuiscono all’alimentazione delle bestie sono controllati dal Consorzio del parmigiano-reggiano e non possono essere scelti a caso dagli allevatori.

Accertata la qualità della materia prima, entrano in gioco la bravura e l’esperienza di chi la lavora, il casaro, seguendo regole e tradizioni antichissime. Il parmigiano-reggiano, infatti, era sicuramente noto già nella prima metà del Trecento, come è attestato dal registro delle spese della mensa dei Priori di Firenze, conservato all’Archivio di Stato. Anche il grande Boccaccio lo cita in una novella del Decamerone parlando del paese di Bengodi.

Il casaro, dunque, deve saper mischiare bene il latte di due mungiture, dosando la quantità di panna da togliere in base ai tipi di latte più o meno grassi. Il latte della sera viene tenuto a riposare per tutta la notte in speciali vasche di acciaio inossidabile. Viene quindi privato della panna che si è formata e versato in una caldaia. Quello della mungitura del mattino riposa poche ore e viene parzialmente scremato e mescolato con l’altro. Nella caldaia, a forma di campana rovesciata, il latte si riscalda, mentre viene mescolato, poi si aggiunge il siero-innesto, ottenuto dalla lavorazione del giorno precedente e ricco di flora lattica, che ha la funzione di alzare il grado di acidità del latte così da ottenere la giusta fermentazione. Raggiunta una determinata temperatura, si unisce il caglio, ricavato dallo stomaco del vitello lattante, che provoca la coagulazione nel giro di una dozzina di minuti. Si ha così la cagliata. Questa va rivoltata e frantumata con un attrezzo a lamine taglienti concentriche (lo spino), per poi riprendere il riscaldamento dell’impasto ben mescolato. La cottura, a temperatura superiore rispetto alla precedente, dura 25-26 minuti. Quando si smette di mescolare, i granuli caseosi cadono sul fondo della caldaia e formano una massa che viene lasciata riposare per 40-50 minuti.

La massa  viene quindi estratta, avvolta nella tela, sgocciolata e introdotta in una fascera di legno con sopra un peso. Il giorno successivo la forma viene sistemata in un’altra fascera di metallo bucato dove si asciuga ulteriormente ed assume la classica curvatura che noi conosciamo. Il terzo giorno si procede alla salatura, immergendo le forme in acqua e sale e lasciandole a bagno per 20 giorni.

L’ultimo e fondamentale passaggio è la stagionatura: le forme, del peso di circa 30 kg ciascuna, dopo essere rimaste esposte al sole per poco tempo, vengono messe su scaffali di tavole di legno in magazzini appositi e continuamente controllate e rivoltate, prima tutti i giorni, poi ogni due o tre giorni, quindi una volta alla settimana e infine tre volte al mese e così via finchè sono perfettamente stagionate. Complessivamente l’operazione dura dai 18 ai 20 mesi. A questo punto il parmigiano è pronto per la marchiatura, che rappresenta il certificato di nascita e di idoneità delle forme, che viene effettuata dai tecnici del Consorzio dopo ulteriori accurati accertamenti. Così arriva sulle nostre tavole, dopo una lunga e paziente preparazione che ne giustifica il prezzo, considerato alle volte troppo elevato: ma ci vogliono 14 litri di buon latte e tanta esperienza per ottenere un chilo di parmigiano.