QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

MARCHE: LA PESCA

L’attività più fiorente della Marche è la pesca, benché un’attenta osservazione della carta geografica ci dica che la regione è in prevalenza montuosa e collinare, senza pianure, con un susseguirsi di altipiani e strette valli percorse da fiumi a carattere torrentizio. Soltanto il lato orientale delle Marche è bagnato dal Mar Adriatico, ma questo è bastato per dare impulso alla pesca. Sempre osservando la cartina, noteremo che sul litorale non ci sono porti naturali tranne quello di Ancona. La regione, però, dispone di importanti porti artificiali.

Il tratto di mare più pescoso è quello davanti al promontorio di Monte Conero che, nei pressi di Ancona, divide il litorale in due parti quasi uguali. La produzione marchigiana di pesce rappresenta un decimo di tutta la produzione italiana. I principali porti, dove viene sbarcato il pesce, sono Ancona, San Benedetto del Tronto, Civitanova Marche, Fano, Porto San Giorgio, Pesaro e Senigallia. Alici, sarde, sgombri, tonni sono le qualità di pesce più diffuse in questo tratto di mare. Ma la pesca più abbondante è quella dei molluschi e dei crostacei.

Oltre che nell’Adriatico, i pescatori marchigiani spingono le loro imbarcazioni fino all’Oceano Atlantico ( la “grande pesca”) rimanendo a lungo lontani da casa. Al largo della costa adriatica, a circa 30-40 miglia, si trovano fondali di sabbia grossolana e detriti, ambiente ideale per la vita di capesante, canestrelli, tartufi e fasolare. Vicino alla costa, invece, i fondi fangosi e sabbiosi ospitano telline ed estesi banchi di vongole. Tra le rocce si trovano banchi di mitili e ostriche delle due specie, piatta e portoghese. Abbondante è anche la presenza di triglie di fango, seppie, sogliole, merluzzi e, più al largo, di rane pescatrici, razze e moscardini. Nelle fosse più profonde si pescano scampi e gamberi rossi.

La pesca viene praticata con vari metodi: volante per il pesce azzurro, strascico con rete, rapidi, draghe e turbosoffianti per vongole e altri molluschi bivalvi. L’uso di quest’ultimo sistema ha provocato non poche polemiche, perchè è considerato violento e provoca una pesca eccessiva, tale da turbare i ritmi naturali della riproduzione e del ripopolamento delle acque. Anche la presenza di vasti banchi di alghe e la mancanza di ossigeno sui fondali creano problemi. L’assenza di ossigeno provoca la morte delle specie che vivono sempre sui fondali.

PERCHE’ IL CIELO E’ AZZURRO

Nelle fotografie a colori di paesaggi lunari o di astronauti nello spazio, si può notare che la “volta celeste” appare completamente nera. La stessa cosa si verifica su tutti i pianeti e satelliti privi di atmosfera. Sulla Terra è diverso. Il bel colore azzurro che vediamo sopra di noi nelle giornate serene dipende infatti dall’atmosfera terrestre. Il perchè dell’azzurro del cielo fu scoperto nel secolo scorso dallo scienziato irlandese John Tyndall, collaboratore del più noto Michael Faraday.

Il cielo riceve la luce dal Sole. Quando non c’è Sole l’aria è buia. Perciò l’azzurro non può derivare se non da qualche cosa che trattiene tutti gli altri colori che si trovano nella bianca luce del cielo e respinge l’azzurro. Il cielo è pieno di pulviscolo, cioè di innumerevoli corpicini di materia solida sospesi nell’aria. Essi assorbono le onde luminose che formano i vari colori della luce solare,ma respingono verso i nostri occhi quelle che ci danno l’azzurro.

Se si potesse distruggere tutta la materia solida che c’è nell’aria e si potesse inoltre ripulirla delle molecole di vapore acqueo, il cielo sarebbe sempre buio e tutta la luce ci verrebbe direttamente dal Sole. La sera e la mattina non ci sarebbero più, nè il crepuscolo nè l’alba. Il passaggio dal giorno alla notte avverrebbe bruscamente. Anche durante le ore chiare si avrebbero dei luoghi – tutti i punti non colpiti direttamente dal Sole – immersi nel buio più assoluto.

 

PERCHE’ LA DISTANZA DELLE STELLE SI MISURA IN ANNI LUCE

L’anno luce è un’unità di lunghezza usata dagli astronomi per indicare le distanze e le dimensioni di stelle e galassie. Trattandosi di misure enormi, se fossero espresse in metri o in chilometri comporterebbero cifre lunghissime, difficili anche da leggere.

Un anno luce corrisponde alla distanza percorsa dalla luce in un anno. Sappiamo che la luce viaggia alla velocità di quasi 300 mila chilometri al secondo. Moltiplicando questa cifra per 86.400 (che sono i secondi di cui è composta una giornata) e poi per 365 (che sono i giorni dell’anno) si ottiene l’equivalente dell’anno luce, qualcosa come 9561 miliardi di chilometri.

Cifre da capogiro. Ma quando si parla di galassie si arriva spesso ai milioni di anni luce. L’ammasso di galassie della Vergine, ad esempio, si trova a circa 30 milioni di anni luce dalla Terra, mentre il raggruppamento di cui fa parte anche la nostra Via Lattea ha un raggio di due milioni di anni luce.

Se pensiamo che esistono non meno di un centinaio di milioni di galassie, ci accorgiamo che la nostra Terra è davvero come un piccolo granello di sabbia sperduto nell’immensità dell’universo.

 

SEGNI DELLO ZODIACO: CAPRICORNO

Al segno del Capricorno appartengono, secondo la cabala, i nati dal 22 dicembre al 20 gennaio. Secondo le più elementari osservazioni astronomiche, in questi due mesi gli astri mostrano l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Sagittario. Quindi i “capricorni” sarebbero, in realtà, dei “sagittari”.

Pan era il dio dei boschi, dei pastori e delle greggi. Lui stesso somigliava a un caprone con la sua fronte sfuggente, il naso camuso, le orecchie appuntite, i cornetti aguzzi, la chioma ricciuta, la barbetta, le zampe, gli zoccoli e la coda di capra.

Pan era, comunque, un dio allegrone e scanzonato; sempre a caccia di divertimenti e di ninfe che rincorreva nei boschi suonando la sua zampogna, da lui chiamata Siringa, nel ricordo di un amore sfortunato per una ninfa dell’Arcadia con questo nome.
Siringa, per sfuggire alle insistenze del caprigno adoratore, si tramutò in canna in mezzo a un canneto, da cui Pan tagliò la canna con la quale costruì il suo inseparabile strumento musicale.
Pare, comunque, che in seguito abbia avuto un figlio dalla ninfa Eufeme: Croto, che sarebbe poi il sagittario dello zodiaco.

Pan era buono e disponibile con tutti; guai, però, a svegliarlo durante la siesta o pennichella pomeridiana. Se ciò accadeva, s’infuriava e si avventava, contro chi osava importunarlo, emettendo un urlo terribile, tale da far rizzare i capelli in testa al malcapitato disturbatore.

La paura che incuteva la chiamiamo ancor timor panico, proprio dal suo nome.
A causa di alcune beghe nei palazzi del potere, cioè nell’Olimpo, Pan si trovò a dover soccorrere Zeus, ridotto a mal partito dal mostruoso gigante Tifone. Cosa questa che mandò su tutte le furie il tremendo, brutto e cattivo Tifone.

Pan, per sottrarsi alle sue ire, fu costretto a trasformarsi nel Capricorno e a rifugiarsi in cielo.
La morte di Pan viene fatta coincidere con quella di Gesù e ciò, nel Medioevo, era considerato come il simbolo della caduta del paganesimo. Comunque sia, Pan è riuscito a entrare nell’era cristiana prestando le sue fattezze alla figura del diavolo che, a quanto pare, è ancora vivo e vegeto.

Quella del Capricorno, che i babilonesi chiamavano del “pesce-capra”, è una costellazione estiva e autunnale. “Alfa Capricornii”, o Algedi (La buona stella del guerriero), è una stella doppia le cui componenti sono già distinguibili a occhio nudo. Algedi è 10.000 volte più luminosa del Sole ed è distante 300 anni luce.
Anche “beta Capricornii”, o Sadalzabih, è una stella doppia, ma per separare le due componenti occorre almeno un binocolo.
”Gamma” e “delta Capricornii” hanno il nome arabo di Deneb Algedi che significa “Coda dello stambecco”. La “delta Capricornii” è una “variabile a eclisse”, simile a quelle descritte nella Costellazione della Bilancia.

Oltre ad altre stelle doppie, nel Capricorno, troviamo un ammasso globulare (ammasso stellare del quale è impossibile scorgere le componenti); si chiama M30, ha un diametro di 75 anni luce, dista dalla Terra oltre 40000 anni luce e si allontana da noi alla velocità di 164 chilometri al secondo.

LA SCOPERTA DELL’AMERICA – PARTE 7

Prima di toccare Palos alla fine del viaggio di ritorno, Colombo scrisse una lettera-racconto delle sue scoperte. La intitolò De insulis inventis (le isole trovate) e la spedì a corte. La lettera, il primo esempio di una cronaca scritta a ridosso dei fatti, suscitò grande emozione e fu fatta stampare in più copie per essere inviata ai più importanti personaggi dell’epoca.

Quando arrivò a Cuba, il 27 ottobre 1492, Colombo si convinse di essere giunto nel Catai, in Cina, dove, secondo Marco Polo, sorgevano città con palazzi dai tetti d’oro. Organizzato un commando di pochi uomini guidati dall’interprete Luis de Torres, affidò loro una lettera di presentazione per l’imperatore dei Mongoli e li inviò in avanscoperta. Dopo alcuni giorni di marcia la pattuglia arrivò in un villaggio di povere capanne abitate da indigeni primitivi che avevano una strana abitudine, quella di fumare delle grandi foglie arrotolate che infilavano nel naso. Altri le reggevano in mano come tizzoni ardenti e “bevevano” il fumo che emanavano. Le chiamavano tobacos. Si trattava proprio del tabacco. Gli spagnoli provarono a fumarlo e ne furono entusiasti. Nel giro di un secolo tutta l’Europa fumerà o fiuterà tabacco. Ma Cristoforo Colombo, tutto intento a cercare l’oro del mitico Catai, non si accorse nemmeno di aver scoperto una pianta che avrebbe fruttato miliardi.

Durante la traversata da San Salvador a Cuba, gli spagnoli scoprirono le amache. Colombo le descrisse così nel suo diario: “Letti simili a reti di cotone, in forma di bretella”. La trama dei fili incrociati ricordava “i setacci che si fabbricano a Siviglia con lo sparto. E’ molto riposante dormirvi”. I marinai le utilizzarono immediatamente a bordo delle caravelle. Nella marina italiana sono state abolite soltanto dopo la seconda guerra mondiale.

Nel viaggio di ritorno, le due caravelle superstiti incapparono in una terribile bufera al largo delle Azzorre. Si spaventò anche Colombo che, temendo di scomparire inghiottito dai flutti, compilò in fretta e furia un resoconto della spedizione su fogli di pergamena che avvolse in tela cerata e, sigillatili in un barilotto, gettò in mare. Nessuno mai li recupererà, ma più d’uno proverà a spacciarne copie false. Nel 1892, un imbroglione gallese mise in vendita il “vero e originale” memoriale di Colombo. Quel resoconto aveva solo un piccolo difetto: era scritto in lingua inglese, lingua che l’Ammiraglio genovese non conosceva affatto.

LA SCOPERTA DELL’AMERICA – PARTE 6

I gioielli di Isabella
Una voce popolare racconta che la regina Isabella, affascinata dalla personalità di Cristoforo Colombo, decise di finanziarne l’impresa. Poiché la guerra contro i Mori aveva dissanguato le casse della Spagna, la regina chiese un prestito personale a don Luis de Santangel, tesoriere della Real Casa e ministro delle Finanze. A garanzia del prestito Isabella offrì tutti i suoi gioielli personali. Leggenda o realtà? Gli storici propendono per la prima ipotesi, fatto sta che la leggenda si è alimentata nei secoli come fosse verità, tanto che a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, davanti al palazzo del viceré costruito per Colombo (che non fece in tempo ad abitarvi), c’è una grande statua di Isabella con lo scrigno dei gioielli in una mano e l’altra nel gesto di prendere dallo scrigno una collana.

I marinai agli ordini di Colombo dovevano essere pronti a battersi con i “selvaggi”. L’arsenale di ogni caravella era particolarmente fornito. Comprendeva infatti una decina di bombarde e altrettanti falconetti, un centinaio di palle di piombo e di pietra, cinquanta lance lunghe e venti corte, trenta chili di polvere da sparo, dieci moschetti e balestre. Per gli ufficiali c’erano anche spade e pugnali.

Come fare per trasmettere ordini fra le caravelle durante la navigazione? Appeso alla poppa di ogni caravella c’era un bacile di ferro con il fuoco sempre acceso. Di notte fiammeggiava, di giorno con l’uso di stracci bagnati si ottenevano strisce di fumo o nuvolette visibili a distanza. Ad ogni segnale che partiva dal bacile della Santa Maria corrispondeva un ordine dell’Ammiraglio.

Quando Colombo incontrò i primi indigeni annotò nel suo diario: “Vanno tutti nudi o dipinti di bianco e di rosso. Non portano armi”. Quelli che Colombo incontrò nel Nuovo Mondo erano indigeni Arawak venuti dal Venezuela a colonizzare le Antille più di mille anni prima. Con loro erano giunti attraverso il mare anche i Caribi, un popolo bellicoso e dedito al cannibalismo.

Nel 1493, 1500 spagnoli, ansiosi di avventura e facili guadagni, accompagnarono Colombo nel suo secondo viaggio. Sbarcarono sulle coste di quella che oggi è la Repubblica Dominicana e vi fondarono una colonia. Colombo la chiamò La Isabela. A poche centinaia di metri da lì, archeologi venezuelani e americani hanno riportato alla luce i resti di una città, con tanto di ospedale, torre di guardia, chiesa, magazzini, depositi di munizioni e un cimitero, un centro abitato importante, dunque. Di La Isabela, città fantasma, invece, non restano tracce: forse fu rasa al suolo dopo un’edipemia o dopo uno scontro con gli indigeni o forse fu distrutta durante rivolte sanguinose fra opposte fazioni spagnole.

GIANO, IL DIO BIFRONTE

I romani lo chiamavano “Pater”, creatore dell’universo. Erano tempi antichissimi, quando sulla terra vivevano le divinità. Là, dove in un futuro ancora lontano sarebbe stata fondata Roma, si ergeva verde di boschi e di selve il monte Gianicolo, o Camesene, dal nome degli dèi che vi abitavano: Giano e sua moglie Camese. Un monte ricco di acque. Figli dei due dèi erano Fontus, alla cui protezione erano affidate le sorgenti, e Tiberinus (Tevere), il maestoso fiume. Un luogo pacifico. Ma un giorno, grida dal cielo sconvolsero il silenzio delle foreste: Saturno era stato scacciato dal trono di re degli dèi dal figlio Giove. Saturno chiese protezione a Giano che lo accolse e lo ospitò nella sua casa. “Puoi restare con me”, disse Giano. “So che presto qui si raduneranno gli uomini: insegnerai loro l’arte di coltivare la terra. Io insegnerò l’amore per la pace”. E così fu: per lungo tempo il fuggiasco Saturno visse nascosto nelle terre di Giano che, da allora, furono dette Latium (Lazio, dal verbo latino latère, “nascondere”). I romani poi avrebbero venerato Saturno come dio delle semine e avrebbero onorato Giano come dio di tutti gli inizi, che vede ogni cosa perchè ha due volti e guarda in tutte le direzioni. E il loro re Numa Pompilio gli avrebbe innalzato un tempio nel Foro, le cui porte rimanevano chiuse in tempo di guerra e venivano aperte in tempo di pace.

Dèi “romani”  
Giano creatore dell’universo
Bellona malvagia dea della guerra
Marte dio dei campi e della guerra
Pomona dea dei frutti autunnali
Anna Perenna dea del ciclo delle stagioni
Flora dea della primavera e della bellezza
Silvano dio dei boschi
Priapo protettore degli orti
Fauno dio dei monti
Termine dio dei confini dei campi
Quirino dio della primavera
Padre Tiberino dio del Tevere
Penati simboli della casa
Lari spiriti degli antenati
Mani anime dei morti
   


Fauno, il genio dei monti
Fra i pastori dell’antichissima Roma godeva di grande culto Fauno, il genio benefico dei monti e delle campagne, che veniva raffigurato peloso, con le corna, la coda e i piedi caprini. Suonava la zampogna e aveva per sposa Bona Dea, adorata esclusivamente dalle donne in un tempio sull’Aventino. Fauno si divertiva a spaventare la gente e si diceva che penetrasse nelle case per tormentare gli uomini con cattivi sogni e con apparizioni paurose. Aveva pure il dono di predire il futuro attraverso rumori nei boschi e voli di uccelli. Questo dio amava cacciare sui monti e nei boschi e si diceva che il suo divertimento maggiore era quello di inseguire e spaventare le ninfe.

Esculapio, l’inventore della medicina
I greci lo chiamavano Asclepio, i romani lo ribattezzarono Esculapio. Figlio di Apollo, Esculapio era stato educato dal centauro Chirone, espertissimo nel preparare decotti e pomate. Anzi Esculapio l’aveva superato in abilità e non c’era malato che lui non guarisse. Nessuno moriva più. Una situazione felicissima per gli uomini, ma non altrettanto gradevole per Plutone, il dio dell’oltretomba. E un giorno il dio tenebroso si recò sull’Olimpo a protestare con Giove. Il quale saputo che Esculapio non si limitava a guarire gli ammalati ma resuscitava anche i morti intervenne drasticamente: afferrò una folgore e incenerì Esculapio. Questo almeno raccontavano i Greci. I romani sostenevano che Esculapio giunse a Roma intorno al 300 avanti Cristo e si stabilì nell’isola Tiberina, in mezzo al Tevere. In quel periodo su Roma si era abbattuta una terribile pestilenza. Con l’arrivo del dio-medico l’epidemia fu debellata. E i romani costruirono per lui un tempio.

Divinità greco-romane  
Zeus Giove
Era Giunone
Atena Minerva
Afrodite Venere
Posidone Nettuno
Ades Plutone
Ares Marte
Apollo Apollo
Ermes Mercurio
Estia Vesta
Demetra Cerere
Eros Cupido
Rea Cibele
Dioniso Bacco
Pan Sileno
Crono Saturno
Asclepio Esculapio

LA SCOPERTA DELL’AMERICA – PARTE 5

La prima annotazione del diario di bordo
”Venerdì 3 agosto 1492. Partimmo alle otto, dalla barra di Saltes, e andammo con forte virazione fino al tramonto verso il Sud per 60 miglia, che sono 15 leghe, e poi ancora verso il Mezzodì, quarta di Sud-Ovest, che era la rotta per le Canarie…”.

Negli anni che trascorse a Porto Santo, nell’arcipelago di Madera, sposato a Felipa Moniz Perestrello, Colombo visitò anche le Azzorre e le Canarie per raccogliere informazioni sul tema che più lo affascinava: la via marittima più sicura per raggiungere le Indie. In una di queste “esplorazioni” alle Canarie, fra il 1479 e il 1483, incontrò uomini altissimi, robusti, di pelle bianca, occhi azzurri e capelli biondi, “lunghi fino all’ombelico”. Parlavano una lingua simile al berbero del Marocco, di cui si conoscevano solo poche parole; una di queste è guanc e significa “uomo”. Così li chiamavano Guanci. Abitavano capanne di pietre murate a secco, non sapevano navigare. Vestivano di pelli e si dipingevano il corpo. Non conoscevano i metalli e come armi usavano clave, giavellotti e scuri con punte e lame d’osso. Da dove provenivano? Forse dalle brume del Nord Atlantico, le terre dei Vichinghi? Oppure i loro antenati avevano superato le colonne d’Ercole a cavallo di paurose tempeste per finire trascinati dalle correnti su quelle isole lontane?

I civili sulle caravelle
Sulla Santa Maria  si imbarcarono, oltre ai marinai, anche alcuni civili con compiti diversi. Uno era Louis de Torres, che Colombo prese come interprete perchè conosceva l’ebraico e l’arabo, lingue che – pensava – potevano servire una volta arrivati nelle terre del Gran Khan. Poi c’era Diego de Harana, ufficiale di polizia, cui spettava il compito di mantenere la disciplina a bordo delle caravelle.
C’era Rodrigo de Escobedo, notaio e segretario della flotta. C’erano anche due uomini di corte. Il primo, Rodrigo Sanchez, era incaricato di controllare le spese e le future entrate in oro, spezie e merci preziose, per garantire la quota spettante alla corona. Il secondo, Pedro Gutierrez, era maggiordomo del re; non aveva incarichi specifici da svolgere a bordo, così i marinai lo bollarono come “spia” dei tanti cortigiani nemici di Colombo. E bollarono tutti i civili come “piedidolci”, perchè non si intendevano di mare e di navigazione.

Alisei, i venti della vittoria
Nessuno in Europa e nel mondo conosciuto sapeva dell’esistenza degli alisei, per il semplice motivo che sono venti atlantici. Marinai e navi dell’epoca percorrevano le rotte del Mediterraneo, della Manica e del Nord Atlantico e pochissime altre dirette all’Equatore bordeggiando lungo le coste africane. Scirocco, libeccio, grecale, tramontana e tutti gli altri venti conosciuti sono variabili; compaiono, scompaiono, cambiano direzione. Gli alisei no, spirano eternamente nella medesima direzione ogni mese. Forse il segreto del successo di Colombo si nasconde anche dietro la scoperta di questi venti. Deve averli individuati e studiati durante il suo soggiorno a Madera e nel corso dei viaggi in Guinea. La sua mente acuta deve aver intuito l’immenso valore di questa scoperta: quelli erano i “venti di vittoria” che lo avrebbero portato in groppa durante l’attraversata atlantica.

Cibo per sopravvivere
Ogni caravella partì da Palos con scorte di viveri per un anno: tonnellate di grano, barili di farina, carne di bue e maiale in salamoia, olio di oliva, formaggio, aceto, sardine, acciughe, aringhe, ceci, lenticchie, cipolle, aglio, riso, olive  e frutta secca. Non c’erano cuochi a bordo; a turno i marinai preparavano alla buona un pasto caldo al giorno. In genere piatti a base di carne di bue o di maiale conservata sotto sale, oppure minestre di ceci o lenticchie con cipolle, aglio e galletta. Con la farina preparavano piccole focacce che venivano cotte sul focone di bordo.

PERCHE’ IL MARE E’ SALATO

Il mare è salato perchè nelle sue acque sono disciolte numerose sostanze, fra cui in massima parte cloruro di sodio, cioè il comune sale da cucina.

Sono stati i fiumi a creare questa situazione. Il mare si è formato con l’acqua che era nell’aria e che cadeva sotto forma di pioggia. La prima acqua che ha formato i mari non era quindi salata ma dolce. Nel terreno vi sono, però, molti sali e i fiumi sciolgono questi sali riversandoli poi nel mare. Il sole a sua volta fa evaporare l’acqua marina, ma non il sale sciolto in essa, cosicchè l’acqua che ricade sotto forma di pioggia o di neve e che va ad alimentare i fiumi non è più salata. Per questo i fiumi sono di acqua dolce quando partono dalla sorgente, mentre quando arrivano al mare hano raccolto i sali del terreno e li aggiungono al quantitativo che già si trova disciolto nell’acqua del mare.

Ogni anno evaporano dagli oceani 120.000 chilometri cubi di acqua pressochè pura, che poi – come abbiamo detto – ritorna al mare “carica” di sali. Questo ciclo dell’acqua fa aumentare ogni anno la salinità degli oceani.

Il grado di salinità non è uguale dappertutto: i mari freddi sono generalmente meno salati di quelli caldi, che subiscono un’evaporazione molto più intensa; i mari aperti sono meno salati di quelli chiusi. La salinità media degli oceani è comunque del 3,5 per cento. Il che significa che in un litro d’acqua di mare sono contenuti 35 grammi di sali. E non è poco: dagli oceani si potrebbe ricavare una tale quantità di sali da coprire tutti i continenti con uno strato spesso 150 metri.

Le acque più salate si trovano nel Mar Morto, un lago al confine tra la Giordania e Israele. Questo lago si trova a 395 metri sotto il livello del mare (massima depressione della Terra): la salinità delle sue acque è di 27,5 per cento. In ogni litro ci sono disciolti 275 grammi di sali. L’acqua del Mar Morto è così densa che chi vi immerge riesce a galleggiare facilmente.

 

LA SCOPERTA DELL’AMERICA – PARTE 4

Le tre caravelle di Colombo
Per il cinquecentenario colombiano sono stati messi in mostra i progetti di ricostruzione delle caravelle di Colombo ma nessuno può dire come erano fatte esattamente le tre caravelle della prima spedizione di Colombo, perchè non esistono documenti o disegni originali che ce lo indichino. Già nel passato molti appassionati di storia e di mare si sono cimentati in questa impresa. Nel 1892, nel quarto centenario della scoperta dell’America, studiosi genovesi vararono a Pegli una caravella e quasi nello stesso tempo appassionati americani ne vararono un’altra a Chicago; entrambe presentavano particolari inesatti o del tutto inventati. Più recentemente anche altri hanno provato a ricostruire le navi ma senza i risultati sperati.

Il contratto che sanciva l’accordo tra i sovrani di Spagna e Cristoforo Colombo sulle modalità della spedizione “americana” porta la data del 14 aprile 1492. Comprende cinque paragrafi. Si riconosce a Colombo la qualifica di Ammiraglio del Mare Oceano, titolo che potrà trasmettere anche ai suoi eredi. Si attribuisce al navigatore genovese i titoli di Vicerè e Governatore delle nuove terre. Gli viene inoltre riconosciuto come onorario un decimo del valore su tutte le merci che saranno comprate e vendute nel Nuovo Mondo. Infine gli viene affidato il compito di dirimere le controversie e la possibilità di fare investimenti nelle nuove terre.

Per andare alla conquista del Nuovo Mondo, l’Ammiraglio del Mare Oceano calcola che occorrano due milioni di maravedi, pari a circa cinquemila monete d’oro del peso di 3,5 grammi l’una, oltre alla paga degli equipaggi per altri 250.180 maravedi al mese, cioè 650 monete d’oro. Colombo versa per conto suo 250 mila maravedi; la rimanenza è procurata dal Ministro delle Finanze del re, Luis de Santangel. Per le caravelle si sceglie Palos, nel golfo di Cadice. Sulla cittadina pende una vecchia accusa di contrabbando e pirateria, ottimo protesto per condannarla a fornire gratuitamente due “caravelle armate” (cioè complete di equipaggio) e rifornite di viveri per 12 mesi. Sono la Pinta  e la Nina. La terza caravella si trova già in porto, è un legno galiziano e si chiama “Mari Galante”: Colombo la noleggia e ne fa la capitana della flotta con il nome di Santa Maria.

Ogni caravella era fornita di “pezzi di ricambio”: legname per sostituire alberi o fasciame, almeno un ricambio di vele per gli alberi principali di prua, 2600 libbre di cavi di canapa, cime, tiranti, scale di corda e una settantina di carrucole e pulegge. Completavano la dotazione un’ancora di 60 chili e due ancorotti di emergenza.

La giornata del tripulante
Tripulante vuol dire marinaio: è una parola che sa di fatica, di dolori e di avventura. Il tripulante delle caravelle doveva avere una salute di ferro per svolgere il suo lavoro. Faceva parte di una squadra di una quindicina di uomini  che si alternava con una seconda squadra in turni di 4 ore di guardia e 4 di riposo, giorno e notte, per tutti i giorni di navigazione. Il turno più duro era quello notturno, dalle tre in avanti, chiamato “guardia del cimitero”, nel freddo e nell’umidità della notte sul mare. La vita a bordo si svolgeva il più possibile sul ponte; nelle poche pause dal lavoro il tripulante si dedicava alla pesca. Al tramonto ciurma e ufficiali si riunivano per pochi minuti per cantare la Salve regina. Poi, finalmente, il meritato riposo sul ponte, un breve riposo, interrotto ogni 4 ore dalla voce del mozzo che scandiva il succedersi dei turni di guardia.

PERCHE’ IL SEGNO DELLA CROCE SI FA CON LA DESTRA

Il segno della croce è uno dei gesti più significativi del culto cristiano, perchè con esso vengono ricordati due misteri fondamentali della fede: la Santissima Trinità e la passione e morte di Gesù Cristo.

Si tratta di una tradizione antichissima. I primi cristiani usavano “segnarsi” in tutti i momenti più importanti della giornata: quando si alzavano, quando entravano o uscivano di casa, quando si mettevano a tavola. E lo stesso gesto compivano i martiri prima di affrontare il supplizio.

Il segno della croce si fa con la mano destra non solo perchè la maggioranza delle persone usa preferibilmente questa mano per compiere qualsiasi azione, ma anche perchè nella tradizione popolare la destra simboleggia il bene e la sinistra il male. E naturalmente un gesto così eloquente di fede cristiana va compiuto con la mano “buona”. Questo però non significa che fare il segno della croce con la mano sinistra sia proibito in modo assoluto: l’importante è che sia fatto con devozione e non con atteggiamento dispregiativo.

Una curiosità. Quando facciamo il segno della croce, noi portiamo la mano destra dalla fronte al petto, poi alla spalla sinistra e infine alla spalla destra. In Oriente invece portano la mano dalla fronte al petto, poi, prima che sulla spalla sinistra, a quella destra, perchè in greco la formula che si recita dice “del Santo Spirito” (anzichè “dello Spirito Santo”) e si vuole pronunciare la parola “Spirito” mentre si tocca la spalla sinistra, che è la parte del cuore.

 

PERCHE’ SI CHIAMA QUIRINALE

Il palazzo del Quirinale, sede del presidente della Repubblica, prende il nome dal colle su cui sorge: il Quirinale appunto, uno dei famosi sette colli sui quali fu costruita l’antica Roma.

Secondo la tradizione, sul Quirinale era situato in origine un villaggio di Sabini che vi avevano istituito il culto del loro dio Quirino, da cui deriverebbe il nome del colle.

In età imperiale vi furono costruiti numerosi edifici, fra i quali la torre di Mecenate da cui Nerone si sarebbe goduto lo spettacolo dell’incendio di Roma.

La costruzione del palazzo del Quirinale fu iniziata nel 1574 per ordine di papa Gregorio XIII. Cominciato da Flaminio Ponzio e portato a termine da Domenico Fontana, dal Maderno, dal Bernini e dal Fuga, l’edificio servì come residenza estiva dei Pontefici, perchè sorgeva in un luogo più fresco e più salubre del Vaticano.

Nel 1870, quando Roma fu proclamata capitale d’Italia, il Quirinale le divenne residenza ufficiale del re. L’ultimo sovrano che vi dimorò fu Umberto II: nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica, lasciò il palazzo che divenne in seguito sede del presidente.

A Roma ci sono molti altri edifici famosi che, come il palazzo del Quirinale, prendono il nome della località in cui sorgono: per esempio, il palazzo di Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, e quello del Viminale, che ospita il Ministero degli Interni.

 

PERCHE’ CI SONO REGIONI COL NOME AL PLURALE

Per la verità l’unico nome di regione italiana usato comunemente al plurale è quello delle Marche. Altre due regioni, invece, possono essere indicate come nome sia al singolare sia al plurale, con preferenza per la prima forma: si tratta della Puglia (o Puglie) e dell’Abruzzo (o Abruzzi).

Vediamo l’origine di questi nomi. Nel periodo feudale si usava chiamare Marca (dal tedesco Mark) una zona di confine. Alla fine del X secolo esistevano già, fra l’Appennino e l’Adriatico, tre territori con questa denominazione: la Marca Superiore o Camerinese, la Marca Anconetana e la Marca Firmana. Ecco perchè dal 1815 si usa il nome Marche per indicare la regione corrispondente a quei territori.

Praticamente la stessa spiegazione ha la forma al plurale Abruzzi. Nel XIII secolo, quando il territorio passò dagli Svevi agli Angioini, Carlo d’Angiò vi istituì due circoscrizioni, una a sud del fiume Pescara (che venne chiamata Abruzzo citeriore) e una a nord dello stesso fiume (con il nome di Abruzzo ulteriore). Da allora si parlò quindi di due Abruzzi e in questo senso il nome viene talora usato al plurale ancora oggi.

Meno chiara è l’origine della forma plurale Puglie. In passato infatti questo nome era usato al singolare. Bisogna però tenere presente che sotto gli Angioini l’odierno territorio pugliese venne diviso in tre circoscrizioni, chiamate Capitanata (quella a nord), Terra di Bari (quella in mezzo) e Terra d’Otranto (quella a sud). In seguito molti indicarono l’intero territorio con il nome Puglie (al plurale) forse per mettere in risalto che con quella parola intendevano riferirsi a tutte le tre circoscrizioni.

PERCHE’ GLI OCCHI DEI GATTI CAMBIANO COLORE

I gatti quando sono piccoli hanno gli occhi azzurri, poi crescendo gli occhi diventano gialli o verde chiaro. C’è da precisare che alcune razze di gatti conservano gli occhi azzurri anche in età adulta.

Si tratta di un fenomeno che non è esclusivo dei gatti: anche nei bambini spesso gli occhi sono blu al momento della nascita e poi cambiano colore con il passare del tempo.

La parte colorata dell’occhio si chiama iride ed è una membrana circolare con uno spessore di pochissimi millimetri. La superficie posteriore di questa membrana è sempre molto scura, mentre quella anteriore può essere più o meno chiara. Quando, come succede nei neonati, la superficie anteriore è particolarmente povera di pigmenti (le sostanze che determinano il colore delle cellule), prende il sopravvento la colorazione della superficie posteriore e, per un particolare fenomeno ottico, l’iride appare azzurra. Spesso, poi, con la crescita la superficie anteriore dell’iride acquista una maggiore pigmentazione e di conseguenza l’occhio diventa di un colore diverso.

 

PERCHE’ SI DICE ESTATE DI SAN MARTINO

Nei giorni intorno all’11 novembre accade sovente che si susseguono alcune belle giornate di sole, caratterizzate da un sensibile rialzo della temperatura, decisamente insolita per questo mese già freddo. A questo “capriccio” meteorologico è stato dato il nome del santo che si festeggia l’11 novembre, san Martino di Tours, che tra il 371 e il 397 fondò a Ligugé, in Francia, il primo monastero dell’Occidente.

Celebre è la leggenda del suo mantello. In una gelida notte, Martino incontrò un povero infreddolito e gli donò metà del suo mantello. Poco dopo si imbattè in un altro povero, ancora più malconcio del primo, e gli donò la metà restante del mantello. Adesso toccava a Martino tremare di freddo, ma fu per poco, perchè il Signore, che aveva voluto mettere alla prova la sua carità, fece uscire tra le nubi un tiepido sole, che riscaldò l’aria.