QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

TOSCANA: IL VINO

Olivi, cipressi e vigneti caratterizzano il paesaggio delle colline toscane. Ville, casolari, paesi e piccoli poderi sono sparsi qua e là. Una delle zone più famose dal punto di vista agricolo è quella delle colline del Chianti, a sud di Firenze, dove si produce l’omonimo vino, la cui produzione è tutelata da appositi consorzi. E’ un vino rosso, dal profumo intenso e dal sapore asciutto, di colore rubino che tende all’arancione con l’invecchiamento. Nasce dalle uve dei vitigni sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia, coltivati in determinate zone della Toscana, situate al centro della regione, ciascuna nota con un nome diverso secondo le disposizioni del ministero dell’Agricoltura. Viene prodotto con una particolare tecnica enologica, chiamata “governo”, che consiste nel far rifermentare il vino nuovo aggiungendo uva fresca, ammostata. Questo particolare procedimento lo rende più raffinato.

Secondo la tradizione, già nel XV secolo i vini del Chianti erano considerati pregiati e serviti nei banchetti importanti. Rimase per secoli il “vino dei principi”, ma ad un certo punto si dovettero porre dei limiti alle zone che erano autorizzate a denominarlo Chianti, perchè quello in circolazione era davvero troppo rispetto alla produttività delle colline toscane, piuttosto aride e impervie. Così un editto granducale riservò la denominazione al Carmignano. Più tardi, nell’800, Bettino Ricasoli ne definì la composizione: 70 per cento di Sangiovese, 15 di Malvasia, 15 di Canaiolo.

Pur essendo noto in tutto il mondo, il Chianti incontra in particolare il gusto di francesi e americani. Questi ultimi, negli anni Trenta, per aggirare il protezionismo che proibiva la vendita di alcolici, lo fecero passare per ricostituente.

I vini del Chianti non sono gli unici prodotti in questa regione. Molto apprezzati sono anche i vini dell’isola d’Elba, il Vino Nobile di Montepulciano, il Brunello di Montalcino, la Vernaccia di San Gimignano, il Bianco Vergine della Valdichiana e il Vinsanto. C’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Nessuna difficoltà per i palati più esigenti che vogliano accompagnare con un buon bicchiere le specialità della cucina toscana, semplice e saporita: la famosa bistecca alla fiorentina (che dovrebbe pesare almeno nove etti), la ribollita, lo stracotto di bue, il cacciucco di pesce o le triglie alla livornese, il Panforte di Siena, i berlingozzi di Pistoia e il marzapane di Pietrasanta.

PERCHE' LA MECCA E' UNA CITTA' SANTA

La Mecca, la “città santa” dei musulmani, si trova nell’Arabia Saudita, in una vallata arida, non lontano dal Mar Rosso. I musulmani la considerano “santa” perchè è la città natale di Maometto e perchè ospita la più importante moschea dell’Islam.

Nel recinto interno di questa moschea si trova la Kaaba, un edificio a forma cubica, ricoperto da un enorme drappo ricamato in oro. All’interno della Kaaba è conservata la “pietra nera”. Secondo la tradizione islamica, la pietra miracolosa è stata portata sulla Terra dall’Arcangelo Gabriele.

In realtà si tratta, quasi certamente, del frammento di un meteorite precipitato dal cielo alcuni millenni anni fa. Gli strani fenomeni provocati dalla sua radioattività gli fecero attribuire strani “poteri”, per cui da millenni viene considerata una reliquia preziosa: una volta simbolo del dio Qusayy, divinità protettrice delle popolazioni nomadi, poi simbolo dell’Islam.

 

PERCHE' SI CHIAMA AMERICA LATINA

Dopo i viaggi di Cristoforo Colombo, nel Nuovo Mondo cominciò subito l’opera di colonizzazione da parte degli europei: agli esploratori seguirono ben presto i conquistadores. L’America Meridionale divenne terra di conquista soprattutto di due popoli neolatini; spagnoli e portoghesi. Questi ultimi presero possesso del Brasile, i primi si stabilirono praticamente nel resto del territorio. L’influenza neolatina rimane tuttora nelle nazioni sudamericane (basta pensare che la lingua ufficiale del Brasile è il portoghese, mentre in tutti gli altri Paesi si parla spagnolo), perciò L’America Meridionale è chiamata comunemente “Latina”.

In realtà però l’America Latina è più ampia del Sudamerica, perchè comprende anche l’America Centrale e parte dell’America settentrionale: va infatti dal Messico in giù, abbracciando quindi tutti i Paesi di lingua e cultura neolatina (con qualche “isola” di lingua inglese e olandese).

Il Nordamerica viene, invece, chiamato anche America anglosassone, perchè i territori del Canada e degli Stati Uniti furono colonizzati in massima parte dagli inglesi.

 

PERCHE' IL NERO ATTIRA IL CALORE

Per semplificare la spiegazione, che sarebbe piuttosto complessa, si può dire anzitutto che il colore di un oggetto corrisponde al tipo di radiazioni visibili che quell’oggetto emette o riflette. Quindi un pezzo di carta o di stoffa appare giallo se riflette i raggi luminosi gialli e assorbe le altre radiazioni; appare rosso se riflette i raggi rossi; e cosi via.

La luce bianca del sole è costituita da un insieme di radiazioni, che sono di diversa lunghezza d’onda e quindi di colore diverso. I colori della luce sono tantissimi, ma per comodità vengono “raggruppati” in sette colori fondamentali, quelli dell’iride: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco, violetto. Tutti gli altri colori “nascono” dalla mescolanza di due o più radiazioni diverse. Un pò particolare è il caso del bianco e del nero; la luce bianca è data infatti dalla somma di tutte le radiazioni luminose, mentre quella nera dall’assenza di raggi luminosi.

Ora facciamo un altro passo in avanti. Il calore del sole si trasmette attraverso i raggi luminosi. Quindi un oggetto che assorbe tanti raggi luminosi si scalda di più di un oggetto che ne assorbe pochi.
Ecco perchè d’estate è preferibile indossare vestiti bianchi o comunque molto chiari: una stoffa bianca, infatti, respinge tutti i raggi luminosi e quindi si scalda meno di una stoffa nera, che al contrario non riflette le radiazioni luminose ma le assorbe tutte.

 

LE REPUBBLICHE MARINARE: PISA

Pisa è una città di commercianti che, in tempi feroci, deve difendere i suoi interessi anche con le armi. Ma non per fare conquiste: l’obiettivo è sempre di assicurare libero transito alle navi che partono dall’alto Tirreno e scendono verso la costa africana e l’Oriente. Se nel 1135 hanno devastato Amalfi, anche i pisani sanno cosa vuol dire trovarsi il nemico in casa. Nel 1004 la loro città è rimasta quasi distrutta da un’incursione saracena; e sebbene l’anno dopo Pisa abbia potuto disperdere la flotta arabo-siciliana al largo di Reggio, questa serie di guerre porta assai più danni che vantaggi. Ma i pisani sono ancora costretti a combattere: intorno al 1015 devono scontrarsi con il temibile Mogahid, Mugetto per gli italiani, grande condottiero che porta la bandiera musulmana dalla Spagna alla Sardegna. E proprio sulla riva sarda, sorprese dalla flotta cristiana in un giorno di furiosa burrasca, le navi di Mogahid finiscono quasi tutte a picco. Ma i mercanti vigilano e ammoniscono gli ammiragli. Basta con le guerre, le galee devono soprattutto proteggere i traffici e i commerci di Pisa.

E’ anche un tentativo di superare la barriera della razza, della religione e del colore della pelle. Finchè dalle remote pianure mongoliche non arrivano i turchi, bellicosi e intolleranti, con gli arabi si può discutere: basta pagare una tassa sui prodotti sbarcati e su quelli che si caricano sulle navi. Molti pisani vivono a Tunisi; passano un brutto momento quando navi corsare venute da Pisa, nel 1200, entrano di sorpresa nel porto tunisino, saccheggiano tre navi e uccidono chi tenta di resistere. Ma anche i capi arabi pensano ai soldi e, invece di vendicarsi sui pisani, li invitano a rimanere senza paura. Anche all’epoca delle Crociate, quando si insedia il grande Saladino a Gerusalemme, Pisa pensa ai suoi affari: da una parte cerca di non inimicarsi i musulmani, sostenendo che le navi fornite alle spedizioni cristiane sono di semplici privati; dall’altra convince i capi crociati a tollerare gli scambi fra Pisa e l’Egitto. Capolavoro di ambigua displomazia, che riesce.

La guerra contro Genova
Pisa soffre dunque fortemente di questa situazione interna quando è costretta a risolvere in armi la sua rivalità con Genova. Come sempre, si affida a quella flotta che due secoli prima, dopo una grande vittoria sui saraceni, era stata esaltata in tutta Italia come diretta continuatrice della potenza romana. I marinai pisani non sono però come quelli di un tempo; per guidarli si è dovuto assumere un ammiraglio veneziano, Albertino Morosini. Siamo nell’estate del 1284. In un primo momento Morosini porta 72 galee ai bordi del porto di Genova, come preparandosi allo sbarco. Sopraggiungono però due flotte genovesi, l’una comandata da Benedetto Zaccaria, l’altra da Oberto Doria. I pisani si ritirano. Zaccaria ricorre a un trucco, nascondendo le sue navi dietro un promontorio. Credendosi superiore di forze, Morosini attacca Doria; ma nel mezzo della battaglia sono le galee di Zaccaria che arrivano di colpo travolgendo tutto. Pisa perde 40 navi, 1272 morti, 5000 prigionieri. E’ un colpo dal quale non si risolleverà più. Penseranno poi i veneziani a vendicarla, mettendo fine alla potenza di Genova.

La costruzione di opere meravigliose
Le enormi ricchezze che affluiscono così in città consentono la costruzione di opere meravigliose, come il duomo, il battistero, la torre pendente, meta tuttora di milioni di turisti. Ma se il complesso gioco di rapporti nel basso Mediterraneo può andare avanti, un pò con le armi un pò con l’astuzia, è dall’Italia che viene la più sostanziosa minaccia. Genova a nord, Venezia dove finisce l’Adriatico, gelose entrambe dei privilegi ottenuti nel commercio con l’Oriente, contrastano i pisani con vigore crescente. In Toscana frattanto c’è una guerra vittorisa contro Lucca, mentre comincia a premere anche Firenze. E Pisa, quel che è peggio, non può contare su quell’unità interna che ha dato forza ad Amalfi, e sarà per secoli la caratteristica di Venezia. Il tredicesimo secolo è il periodo di lotte intestine, sociali e di potere: ghibellini contro guelfi, nobiltà contro grossa borghesia, grandi mercanti contro corporazioni di mestiere, il popolo contro il Comune.

E’ pisano il famoso conte Ugolino della Gherardesca, che troveremo nell’Inferno di Dante Alighieri, vittima guelfa della vendetta ghibellina.

LIGURIA: I FIORI

Il nome “Riviera dei fiori” richiama subito alla mente la Liguria e, in particolare, la Riviera di Ponente che da Genova si stende fino a Ventimiglia, al confine con la Francia. Il proverbiale clima mite di questa terra, costituita per il 65% da montagne che la proteggono dai venti freddi settentrionali e per il 35% da colline che scendono più o meno ripide al mare, unitamente al duro lavoro dei suoi abitanti, ha permesso lo sviluppo di pregiate coltivazioni di fiori. Data la natura impervia e sassosa del terreno è la presenza di ripidi pendii, è stato necessario intervenire per conquistare terreno coltivabile: sono stati così costruiti terrazzamenti, sostenuti da muretti a secco, per limitare i danni di frane ed erosioni. Le terrazze o fasce ospitano oliveti, frutteti, vigneti, agrumeti e campi di fiori. Questi ultimi sono coltivati all’aperto o in serre che rendono più stabile la coltivazione, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, e costituiscono una ricchezza per la Liguria, soprattutto per la Riviera di Ponente dove, in provincia di Imperia (Sanremo e Bordighera), i pendii delle colline degradanti verso il mare sono ricoperti di piantagioni di garofani e rose di ogni tipo e di ottima qualità.

Nella storia della floricoltura ligure ci sono nomi mitici, come quello di Domenico Aicardi che, con un piccolo gruppo di ibridatori, riuscì a trasformare lo striminzito garofano mediterraneo in un esemplare nuovo e bellissimo. La coltivazione dei fiori richiede tempo, fatica e pazienza per avere un prodotto perfetto per un mercato internazionale dove la concorrenza è agguerritissima.

Le coltivazioni di fiori si estendono su una superficie di 2 mila ettari e più, con una produzione annua che ha un valore, sul mercato di milioni di euro. Ma il settore a volte attraversa periodi di crisi, dovuti sia alle difficoltà di coltivazione di terreni impervi, sia al fatto che l’avanzata implacabile del cemento sottrae alla floricoltura spazio vitale. Il attesa di un Piano Floricolo Nazionale promesso ma mai realizzato, le aziende propongono di ammodernare le serre esistenti e di costruirne nuove che permettano di mantenere gli attuali livelli quantitativi di produzione dei fiori “made in Liguria”. Per facilitare le esportazioni in tutto il mondo, i floricoltori puntano molto anche su interventi nel campo dei trasporti: l’ampliamento dell’aeroporto di Albenga per non portare via camion i fiori in un’altro aeroporto oppure la sistemazione della stazione ferroviaria di Sanremo per sveltire le spedizioni di fiori in tutta Europa.

Alla facoltà di Architettura dell’Università di Genova è stato istituito un corso di specializzazione per laureati che avvia alla professione di “architetti del paesaggio”. Chi è fornito di questo titolo progetta e riordina parchi e giardini, un settore nel quale è riposta una grande speranza di sviluppo per la floricoltura.

EMILIA ROMAGNA: IL PARMIGIANO

Per fare un buon parmigiano-reggiano sono necessari un buon latte e un buon casaro. Il buon latte è fornito da mucche sane, accuratamente controllate, che si nutrono con foraggi provenienti esclusivamente dalla zona tipica del parmigiano-reggiano, che comprende le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna. Anche i mangimi che contribuiscono all’alimentazione delle bestie sono controllati dal Consorzio del parmigiano-reggiano e non possono essere scelti a caso dagli allevatori.

Accertata la qualità della materia prima, entrano in gioco la bravura e l’esperienza di chi la lavora, il casaro, seguendo regole e tradizioni antichissime. Il parmigiano-reggiano, infatti, era sicuramente noto già nella prima metà del Trecento, come è attestato dal registro delle spese della mensa dei Priori di Firenze, conservato all’Archivio di Stato. Anche il grande Boccaccio lo cita in una novella del Decamerone parlando del paese di Bengodi.

Il casaro, dunque, deve saper mischiare bene il latte di due mungiture, dosando la quantità di panna da togliere in base ai tipi di latte più o meno grassi. Il latte della sera viene tenuto a riposare per tutta la notte in speciali vasche di acciaio inossidabile. Viene quindi privato della panna che si è formata e versato in una caldaia. Quello della mungitura del mattino riposa poche ore e viene parzialmente scremato e mescolato con l’altro. Nella caldaia, a forma di campana rovesciata, il latte si riscalda, mentre viene mescolato, poi si aggiunge il siero-innesto, ottenuto dalla lavorazione del giorno precedente e ricco di flora lattica, che ha la funzione di alzare il grado di acidità del latte così da ottenere la giusta fermentazione. Raggiunta una determinata temperatura, si unisce il caglio, ricavato dallo stomaco del vitello lattante, che provoca la coagulazione nel giro di una dozzina di minuti. Si ha così la cagliata. Questa va rivoltata e frantumata con un attrezzo a lamine taglienti concentriche (lo spino), per poi riprendere il riscaldamento dell’impasto ben mescolato. La cottura, a temperatura superiore rispetto alla precedente, dura 25-26 minuti. Quando si smette di mescolare, i granuli caseosi cadono sul fondo della caldaia e formano una massa che viene lasciata riposare per 40-50 minuti.

La massa  viene quindi estratta, avvolta nella tela, sgocciolata e introdotta in una fascera di legno con sopra un peso. Il giorno successivo la forma viene sistemata in un’altra fascera di metallo bucato dove si asciuga ulteriormente ed assume la classica curvatura che noi conosciamo. Il terzo giorno si procede alla salatura, immergendo le forme in acqua e sale e lasciandole a bagno per 20 giorni.

L’ultimo e fondamentale passaggio è la stagionatura: le forme, del peso di circa 30 kg ciascuna, dopo essere rimaste esposte al sole per poco tempo, vengono messe su scaffali di tavole di legno in magazzini appositi e continuamente controllate e rivoltate, prima tutti i giorni, poi ogni due o tre giorni, quindi una volta alla settimana e infine tre volte al mese e così via finchè sono perfettamente stagionate. Complessivamente l’operazione dura dai 18 ai 20 mesi. A questo punto il parmigiano è pronto per la marchiatura, che rappresenta il certificato di nascita e di idoneità delle forme, che viene effettuata dai tecnici del Consorzio dopo ulteriori accurati accertamenti. Così arriva sulle nostre tavole, dopo una lunga e paziente preparazione che ne giustifica il prezzo, considerato alle volte troppo elevato: ma ci vogliono 14 litri di buon latte e tanta esperienza per ottenere un chilo di parmigiano.

LE MASCHERE DI CARNEVALE

Forse sono esistite da sempre. Le portavano gli uomini delle caverne quando si dedicavano ai loro strani riti magici. Sono state trovate maschere mortuarie che risalgono a settemila anni prima della nascita di Cristo. Per cui occorrerebbe un bel pò di spazio se si volesse fare una storia delle maschere. Ci sono due tipi di maschere: quelle facciali, che nascondono il volto, e quelle a elmo, che nascondono completamente la testa.

C'è stato un momento che la maschera la portavano tutti: nel 1700 a Venezia. Avevano il viso coperto patrizi e plebei, vecchi e giovani. La portavano persino le mamme con il bimbo al collo, le domestiche per andare a fare la spesa, i mendicanti per chiedere l'elemosina. Poi lentamente passò di moda. La maschera nel 1800 la si usava nei balli e nei festeggiamenti di carnevale.

Cinquecento anni fa gli attori italiani della Commedia dell'arte crearono le maschere personaggio. Arlecchino e Brighella, per esempio, rappresentavano lo sciocco e l'intrigante. Le maschere avevano una precisa caratterizzazione dialettale: Arlecchino era bergamasco, Pulcinella napoletano, Pantalone veneziano, il dottor Balanzone bolognese e così via. In teatro mantennero a lungo questa caratteristica, finchè il declino della Commedia dell'arte li allontanò pian piano dai palcoscenici per limitare la loro presenza nei teatri di burattini e nelle sfilate di carnevale.

Arlecchino - Bergamo
Pulcinella - Napoli
Pantalone - Venezia
Balanzone - Bologna
Cecca e Meneghino - Milano
Rugantino - Roma
Pancrazio - Puglia
Geppin - Genova
Gianduia - Torino
Stenterello - Firenze
Gioppino - Bergamo
Beppe Nappa - Sicilia
Giangurgolo - Calabria

 

CAMPANIA: I POMODORI

Ama il sole e i climi temperati caldi. Viene da molto lontano, ma ormai è considerato uno dei prodotti italiani per eccellenza. Lo troviamo sulle nostre tavole quasi tutti i giorni e forse non sapremmo farne a meno. Parliamo del pomodoro che, nato probabilmente in Perù al tempo degli Incas e portato in Europa soltanto nel secolo XVI dagli spagnoli, trionfa nella cucina italiana e in particolare in quella napoletana. Gli spaghetti con “a pummarola ‘n coppa” sono diventati praticamente sinonimo di Italia o meglio di Campania in tutto il mondo.

Eppure il pomodoro ha impiegato secoli per farsi accettare in Europa come pianta dai frutti commestibili. Al suo arrivo fu considerato una pianta ornamentale. Solo nell’Ottocento si scoprirono le sue qualità nutritive e proprio nella zona del Napoletano ne fu avviata la coltivazione e la lavorazione a livello industriale per la produzione di conserve. A dargli la fama in tutto il mondo, oltre agli spaghetti, è stata la pizza della quale è uno degli ingredienti di base, insieme con la mozzarella.

Per ottenere il massimo, in fatto di sapore e profumo, il pomodoro deve essere maturato al sole, aver ricevuto la giusta dose di acqua e avere la polpa rossa e succosa, tutte qualità che sicuramente i pomodori campani hanno. Del resto la coltivazione di questa pianta occupa un posto importante nell’economia della regione: si estende su circa 10 mila ettari che producono circa cinque milioni di quintali di frutti l’anno. La zona dove la coltivazione è più intensa è quella delle valli del Volturno, del Garigliano e del Sele. Le qualità di pomodori sono molte e si distinguono soprattutto per la diversità della loro forma; la qualità più tipica del Napoletano è la San Marzano, che ha reso famosi nel mondo i pelati italiani e che un tempo era chiamata l’oro rosso della Campania. Da qualche anno, però, le industrie campane che lavorano i pomodori per ricavarne succhi e conserve devono fare i conti con la concorrenza di quelle di Grecia, Spagna e Portogallo.

LA PUGLIA: L’UVA

Vento, sole, scarsità d’acqua: nonostante questi ostacoli, l’agricoltura rimane la risorsa fondamentale dell’economia pugliese. Il 93 per cento del territorio pugliese è coltivato, grazie soprattutto all’Acquedotto Pugliese, che ora incomincia ad essere inadeguato, ma che per decenni ha permesso lo sviluppo dell’agricoltura. Inaugurato nel 1914, ma completato solo nel 1939, è stato progettato per portare l’acqua ai centri abitati delle zone più aride della regione. Preleva l’acqua dal fiume Sele, in provincia di Avellino, e raggiunge la Puglia per un totale di 2.670 km di canali e condotte.

Su questa terra arida e bruciata dal sole, una delle colture più diffuse e redditizie è quella della vite. Provengono da qui più della metà dell’uva da tavola prodotta annualmente in Italia e quintali di uva da vinificazione, il sesto della produzione italiana di vino. Per quanto riguarda l’uva, bisogna appunto distinguere tra uva da tavola e uva da vino. La prima viene prodotta per il consumo iterno ma anche per l’esportazione. Può essere conservata per lungo tempo dopo la raccolta, seguendo due metodi. Quello a graspo verde, che mantiene l’uva fresca e turgida, consiste nel raccogliere i grappoli con 10-15 cm di tralcio che viene immerso in un recipiente d’acqua con un pezzo di carbone di legna e conservato in locali aerati ad una temperatura di 5-6 gradi. Il secondo metodo, detto a graspo secco, consiste nel disporre i grappoli su graticci ricoperti di paglia secca, in un locale ventilato, e nel lasciar evaporare parte dell’acqua contenuta negli acini, causandone un parziale appassimento.

I vini pugliesi sono anch’essi di due tipi: i più pregiati sono consumati direttamente; i rimanenti, di gradazione più forte, sono usati in tutta Italia (e in Francia) per “tagliare” altri vini. Questa operazione consiste nel mischiare insieme vini di qualità diversa per migliorarne il colore, l’acidità, la gradazione alcolica. Si effettua principalmente miscelando vini settentrionali, più aspri, con vini dell’Italia meridionale, ricchi di tannino, colore e alcol, ma poco acidi o poco profumati.

CALABRIA: L’OLIO

L’ambiente naturale e le vicende storiche hanno condizionato in maniera pesantemente negativa lo sviluppo economico della Calabria. Non era così, però, ai tempi dei Greci, quando la zona aveva raggiunto un tale prestigio culturale e una tale ricchezza da essere presa a modello. Sibarita cioè di Sibari, città della Magna Grecia in Calabria, era sinonimo di lussuoso e raffinato.

Il territorio prevalentemente montuoso e soggetto a frequenti frane, provocate dalla violenza dei torrenti in piena, limita al massimo l’area delle zone coltivabili. Se a questo si aggiunge il succedersi delle dominazioni straniere, che hanno sfruttato il lavoro dei contadini senza migliorarne le condizioni e hanno favorito il latifondo, cioè l’accumularsi della proprietà di grandi estensioni di terra nelle mani di poche famiglie, si capirà per quale motivo l’economia calabrese è tra le più deboli del nostro Paese.

L’attività economica più importante della regione rimane ancora l’agricoltura, in particolare gli uliveti e gli agrumeti. Produce un olio denso, verde scuro, molto saporito, una vera e propria spremuta di olive. Anche in questo settore, però, non tutto va bene come si vorrebbe. Infatti spesso vengono abbandonati gli uliveti situati nei luoghi più impervi e difficili da raggiungere. Si ha quindi una riduzione delle zone coltivate e una loro concentrazione nei luoghi dove la raccolta è più agevole. Ma, quando è il momento della raccolta delle olive, un lavoro faticoso e lungo, mancano le braccia.

Uno dei più gravi problemi sociali della Calabria, infatti, è l’emigrazione massiccia dei suoi abitanti all’estero e al Nord dell’Italia alla ricerca di un posto di lavoro sicuro. La regione si è quindi vista privata delle forze migliori e più giovani, il che spesso ha intralciato progetti di sviluppo. Insomma, un circolo vizioso: la gent se ne va perchè non c’è lavoro e le iniziative imprenditoriali non prendono corpo anche perchè manca la manodopera specializzata e qualificata.

Tornando alla raccolta delle olive, questa è spesso affidata alle donne che in percentuale sono emigrate in numero minore rispetto agli uomini. E’ un lavoro faticoso che le donne affrontano con impegno e curando anche la commercializzazione del prodotto la cui importanza nell’economia calabrese è testimoniata dai quintali di olive raccolte e dai litri e litri di olio prodotto all’anno.

PERCHE’ SI CHIAMANO CARABINIERI

Si chiamano carabinieri perchè, almeno inizialmente, erano soldati a piedi o a cavallo armati di carabina sostituita poi al moschetto.
La loro storia inizia il 13 luglio 1814, quando il re di Sardegna Vittorio Emanuele I istituisce il Corpo dei carabinieri reali, con un organico di ottocento uomini. Nel 1861, con la proclamazione del regno d’Italia, il Corpo si trasforma in Arma, conservando però il suo carattere che è insieme militare e di polizia. L’Arma, detta “benemerita” per gli innumerevoli servizi resi alle istituzioni e al popolo italiano nei suoi 180 anni di vita, conserva ancora oggi il primo posto nell’ordine delle forze armate e dipende dal ministero della Difesa per quanto riguarda il reclutamento, la disciplina, l’amministrazione, l’equipaggiamento, l’armamento e i servizi militari; mentre dipende dal ministero dell’Interno per quanto riguarda il servizio d’ordine e di pubblica sicurezza. In caso di guerra i carabinieri partecipano attivamente alle operazioni militari, ma in tempo di pace hanno soprattutto il compito di vigilare sull’osservanza delle leggi e sull’ordine pubblico, di prevenire e reprimere lo spionaggio militare, di provvedere ai servizi di informazione e di polizia militare, ai servizi presso le preture e i tribunali, alla protezione delle autorità dello Stato e alle scorte d’onore.
Uno squadrone speciale di carabinieri, costituito da personale scelto, è incaricato della guardia d’onore all’interno dei palazzi presidenziali e della scorta d’onore al presidente della Repubblica e ai capi di Stato stranieri. I componenti di questo squadrone, che devono avere una statura minima di un metro e 89 centimetri, sono chiamati comunemente corazzieri.

 

I SEGNI DELLO ZODIACO: ACQUARIO

Gli astrologi dicono che i nati dal 21 gennaio al 18 febbraio hanno il Sole nell’Acquario. In realtà l’allineamento astronomico Terra-Sole-Costellazione del Capricorno dura dal 23 gennaio al 18 febbraio. Quindi i nati in questo periodo sono dei “capricorni”.

Deucalione, figlio di Prometeo, era considerato un uomo di grandi virtù. Tant’è vero che, quando Giove decise di liberare il mondo dalla corrotta stirpe degli uomini allagando tutto con un diluvio universale, Deucalione e sua moglie Pirra furono scelti per sopravvivere allo sterminio generale.
Così Deucalione, proprio come Noè nella versione biblica del diluvio universale, si costruì un’arca dove, insieme a Pirra, galleggiò per nove giorni e nove notti, finchè approdò sulla cima del monte Parnaso, l’unica rimasta emersa.
Qui l’oracolo di Tèmi, anch’esso scampato al diluvio, consigliò alla coppia di gettarsi dietro le spalle le ossa della “Grande Madre”, ovvero dei sassi.
Così fecero: dai sassi gettati da Deucalione sorsero, come per incanto, degli uomini; da quelli gettati da Pirra presero corpo delle donne: e così venne nuovamente assicurata la continuità della specie umana.

Il nome dell’Acquario, forse battezzato così dai popoli dell’Estremo Oriente, deriva dal fatto che il Sole attraversa questa costellazione durante l’epoca delle piogge.
La stella “alfa Aquarii” si chiama Sadalmelik; è molto ben visibile a occhio nudo, anche se si trova alla distanza di 1400 anni luce, infatti è 10.000 volte più luminosa del Sole.
La “beta Aquarii” o Sadalsuud, è anch’essa molto luminosa e ben visibile a occhio nudo.
Poi ci sono “gamma Aquarii” o Sadachbia, e “delta Aquarii” o Scheat, anch’esse abbastanza luminose.

In Acquario si trovano numerose stelle doppie, quasi tutte visibili con un semplice binocolo. Una di queste è “zeta Aquarii”, che possiamo osservare poco a sinistra della stella “alfa”.
In acquario si trovano gli ammassi stellari M2 e M72 e due “Nebulose planetarie”, così chiamate per la loro forma simile a un sistema planetario in formazione, con una stella centrale e una nube di gas che la circonda. La NGC7009 è anche chiamata “Nebulosa Saturno”.

La Costellazione di Saturno si trova nella parte ascendente dell’eclittica; questa parte, cioè, che torna verso l’equatore celeste dopo aver toccato il suo punto più basso: il punto corrispondente al solstizio d’inverno. L’Acquario, infati, anche se ancora basso sull’orizzonte, è visibile in tutta la sua completezza: diversamente dal Sagittario, bassissimo sull’orizzonte, e dallo Scorpione che, per buona parte, è addirittura sotto l’orizzonte.

Nella Costellazione dell’Acquario, a est della stella “delta”, l’astronomo tedesco Johanness Tobia Mayer, il 26 settembre 1756, osservava Urano credendo che fosse una piccola stella. La gloria di questa importantissima scoperta fu tutta dell’astronomo inglese Frederik William Herschel che, quasi 30 anni dopo e usando un telescopio molto più potente, si rese conto di avere a che fare con un altro pianeta del sistema solare, rimasto fino ad allora sconosciuto. Le osservazioni più ravvicinate di Urano sono state realizzate dalla sonda spaziale Voyager 2 che ha raggiunto e fotografato il pianeta il 24 gennaio 1986, dopo aver fatto visita a Giove e Saturno: i soli due pianeti del sistema solare più grandi di Urano.

La Costellazione dell’Acquario è visibile dalla fine di agosto ai primi di settembre. Il suo punto di massima elevazione (massima distanza dall’orizzonte) si può osservare il 20 luglio alle ore 21.

IL CARNEVALE

Il carnevale ha origini molto lontane e ha i suoi "antenati" nelle feste dell'antica Grecia dedicate al dio Dioniso e quelle dell'antica Roma celebrate in onore di Saturno.
Non si sa con certezze cosa significhi la parola carnevale. Comunemente viene fatta derivare dall'espressione latina carnem levare, cioè "togliere la carne", oppure dall'espressione carni vale (dicere), cioè "dire addio alla carne". Ambedue i due significati si adattano bene a questa tradizionale festa popolare che precede immediatamente la Quaresima, la quale è stata sempre caratterizzata da una più o meno rigorosa astinenza dalla carne.
Il carnevale ha avuto i suoi momenti di maggiore fulgore nei secoli passati, quando il popolo doveva sottostare senza fiatare al pesante giogo dei potenti. Nei giorni di carnevale la gente poteva finalmente dare sfogo alle sue proteste e ai suoi desideri, con la tolleranza, se non con l'approvazione, delle autorità. Per un breve periodo si realizzava una specie di "mondo alla rovescia", in cui tutto era permesso: non esistevano più differenze di stato sociale si potevano criticare i nobili e i potenti, i poveri potevano finalmente comandare e mangiare a sazietà, i servi si travestivano da padroni, i brutti da belli, i vecchi da giovani, e viceversa.
Oggi il carnevale ha perso il carattere di protesta sociale, trasformandosi in una festa popolare che lascia ampio spazio alle rievocazioni storiche e al folclore, ma rimane comunque improntato a una sorta di follia collettiva. Una follia che purtroppo dà luogo spesso a episodi di violenza e di teppismo.
Il carnevale più bello resta in fondo quello dei bambini, che approfittano di questa ricorrenza per indossare i panni delle maschere tradizionali o dei loro "eroi" preferiti.

Il carnevale di Rio
Considerata una delle città più affascinanti del mondo per la sua posizione tra mare, monti e foreste tropicali, Rio de Janeiro è anche sede del carnevale più famoso e spettacolare. Per tre giorni e tre notti la metropoli brasiliana impazzisce letteralmente. Nessuno lavora. Fiumane di uomini e donne di ogni colore, età e ceto sociale si riversano nelle strade e nelle piazze. Tutti indossano costumi sfarzosi o stravaganti, tutti cantano, urlano, danzano per ore e ore. Non c'è angolo della città, dai grattacieli alle misere baracche della periferia, che non partecipi in qualche modo a questo immenso spettacolo di colori, di luci e di musiche. L'attrazione principale è la sfilata delle Scuole di samba, associazioni di suonatori e ballerini legate ai vari quartieri. Ne esistono oltre quaranta, ma soltanto dieci di esse superano le eliminatorie e vengono ammesse alla sfilata finale. Purtroppo, durante il carnevale si compiono anche delitti e violenze di ogni genere: quasi sempre, alla fine della festa, si contano decine di morti e migliaia di feriti.

Carnevali italiani
Ivrea (TO) - La battaglia delle arance - La festa ricorda un'insurrezione del popolo che nel 1194 si ribellò a un marchese prepotente, usando i sassi come armi. Oggi le pietre sono state sostituite dalle innocue arance che nei giorni di carnevale volano a centinaia per le vie della città.
Verona - Venerdì gnocolar - Il venerdì grasso ogni quartiere partecipa alla festa con una specialità gastronomica: salsicce, tagliatelle, trippa. Il re del carnevale è il papà dello gnocco, gigane con una pancia finta piena di gnocchi che il duca della pignatta distribuisce a tutti i passanti.
Pescarolo (CR) - Il falò - La sera del martedì grasso i paesani si ritrovano sulla piazza dove brucia un enorme falò che rappresenta la morte del carnevale. La prima volta, tre secoli fa, il falò fu fatto per bruciare tutti gli oggetti contaminati da un'epidemia di peste.
Sanremo (IM) - La battaglia dei fiori - Petali di rose, gerani, garofani, ciclamini tappezzano con i loro colori le vie della cittadina ligure. Incantevole lo spettacolo offerto dai carri addobbati con i fiori che sfilano per le strade.
Viareggio - La sfilata dei carri - Sul lungomare sfilano enormi carri con pupazzi articolati fatti di cartapesta, che prendono in giro personaggi della politica e dello spettacolo. Il tutto circondato da balli, musica folcloristica e, la sera, fuochi d'artificio.
Palo del colle (BA) - Il palio del viccio - Dieci cavalieri armati con bastoni appuntiti devono forare una vescica piena d'acqua. Il vincitore riceve in dono il tacchino (viccio) e lo stendardo del Comune.
Mamoiada (NU) - Sos mamutones - Un fazzoletto in capo, camicia e calzoni bianchi, gonnellino nero, la giacca dei pastori, un campanaccio sulle spalle e una maschera di legno sul viso: ecco i mamutones, maschere diaboliche che sfilano a Mamoiada, un paese della Barbagia.