QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

FERENC MOLNAR: I RAGAZZI DELLA VIA PAL

L'AUTORE
Quando scrive la commovente storia di un gruppo di adolescenti di Budapest, l'ungherese Ferenc Molnar ha 29 anni. Nato a Budapest nel 1878, completa i suoi studi universitari in Svizzera, poi, tornato in patria, abbraccia la carriera del giornalismo. Durante la guerra mondiale è corrispondente di guerra. I ragazzi della via Pal è sicuramente una delle sue migliori opere. Nel romanzo si raffigura con semplicità poetica il romanticismo della vita dei ragazzi di scuola. Pervaso da profonda umanità e ricco di rari pregi artistici, questo romanzo, in apparenza modesto raggiunge altezze epiche. In Italia viene tradotto nel 1929 e diventa subito un classico della letteratura per ragazzi. Molnar si trasferisce poi in America dove muore, a New York, nel 1952.

LA TRAMA
La via Pal, in una Budapest di settant'anni fa, è al centro di una guerra fra bande. Niente di sanguinoso, sono bande di ragazzi. Poichè nella via Pal c'è un largo spiazzo dove si può giocare, fra palizzate e cataste di legname, la bande delle Camicie Rosse comandata da Feri Ats vuole conquistarla. I ragazzi della via Pal, capitanati da un quattordicenne calmo e autorevole che si chiama Boka, sono tutti ufficiali; l'unico soldato è il più piccolo, Ernesto Nèmecsek. Sarà proprio Nèmecsek, nella battaglia decisiva, a dare la vittoria ai suoi atterrando il capo avversario. Ma è malato e muore. Tutto è inutile, perchè lo spiazzo libero di via Pal scompare. Il proprietario l'ha venduto, vi costruiscono un palazzo. Non si gioca più.

IL PROTAGONISTA
Per i ragazzi di oggi è probabilmente difficile capire lo spirito di questo libro: esortazione al coraggio, all'obbedienza, alla realtà, anche allo scontro fisico. Nèmecsek, il protagonista, parte svantaggiato perchè è piccolo e fragile. Essere più intelligente serve a poco: quel che conta è la forza. Fra compagni nerboruti e prepotenti, Nèmecsek trova il riscatto affrontando proprio il più robusto dei nemici, e vincendo. Era soldato a vita, tutti potevano dargli ordini e prenderlo in giro: da un momento all'altro diventa "capitano". Un eroe. Nemmeno lui sembra sfiorato dall'idea che esista qualcosa di più importante della guerra e della vittoria. Ma tutta una generazione, tanti anni fa, è cresciuta così.

La banda delle Camicie Rosse è riunita all'Orto Botanico. Il capo è Feri Ats, bello e ardimentoso. Tempo prima ha conquistato una bandiera sul campo di via Pal. Ora la bandiera è sparita. Si sa che l'ha portata via un ragazzo molto piccolo; si vedono delle orme minuscole nella sabbia sparsa nel deposito delle armi. Chi sarà stato?
Feri Ats sta parlando con Gerèb, un ragazzo della via Pal che si appresta a tradire i suoi amici. Ats lo ingaggia e lo incarica di aprire la porta di via Pal quando le Camicie Rosse attaccheranno. "Noi abbiamo bisogno di quel campo", dice. Gerèb lo rassicura: in via Pal non c'è nessuno che abbia coraggio.
"Invece c'è", grida una voce infantile. Un biondino piccolo e pallido scende da un albero. Era nascosto tra le foglie e non solo ha sentito tutto, ma è lui che si è preso, per sfida, la bandiera di Ats. "Nèmecsek!", gridano gli avversari. Nèmecsek non mostra paura. Nessuno l'aveva visto. Quando ha sentito Gerèb accusare i suoi amici di vigliaccheria è scoppiato di indignazione. "Ti farò vedere io di che cosa sono capaci i ragazzi di via Pal". Le Camicie Rosse sono interdette. Afferrano in due il biondino quando Ats grida: "Lasciatelo!". E' ammirato, non pensava che si potesse avere tanto coraggio. Invita Nèmecsek, che rifiuta, a entrare nella sua banda. Insiste. Un nuovo no. Le Camicie Rosse aspettano che il loro capo scelga la punizione. Ats è clemente; si limita a ordinare che gli facciano fare un tuffo nello stagno. Non sa che Nèmecsek ha già addosso un brutto raffreddore. Dopo questo bagno forzato, il piccolo deve mettersi a letto. Si alzerà per affrontare in battaglia proprio Ats, segnando la sconfitta delle Camicie Rosse. Morirà pochi giorni dopo, di polmonite.

JOHANNA SPYRI: HEIDI

L'AUTRICE
Il personaggio di Heidi, la dolce bambina che all'agiatezza in città preferisce la vita a contatto con la natura, è stato inventato da Johanna Spyri. Nata nel 1829 a Hirzel, un villaggio vicino a Zurigo, Spyri si dedica ai racconti per la gioventù. Ha 51 anni quando termina il suo primo libro su Heidi e ne scriverà poi un secondo (Ancora Heidi). Questi due libri superano i sessanta milioni di copie vendute e sono tradotti in quaranta lingue. Spyri scrive anche Storie per bambini (1879-89) e Sulle montagne svizzere (1889). La scrittrice muore nel 1901, a Zurigo.

LA TRAMA
Non ci sono automobili nè villeggianti, per spostarsi si va a piedi oppure, d'inverno, si usa la slitta. E' una buona giornata se, assieme a un pò di pane, si riesce a rimediare anche del formaggio. La carne, i dolci sono soltanto per i ricchi. Heidi, una bambina orfana, è stata affidata al nonno, un vecchio solitario che vive in una capanna sotto la vetta della montagna. Tutti lo temono e lo scansano. Con Heidi però questo grosso uomo barbuto e ruvido è pieno di una riservata tenerezza, che la bambina capisce.
Quando è un pò cresciuta, Heidi viene portata a Francoforte, in una casa splendida, per far compagnia a Clara che ha la sua età ma è quasi paralizzata. Heidi si sente soffocata in quell'ambiente senza montagne, ma vuol bene a Clara, con la quale torna in vacanza dal nonno in Svizzera. Il vecchio la accoglie con gioia. Clara comincia a camminare. Heidi diventerà grande distribuendo felicità e buon senso: anche il nonno accetta di vivere in mezzo alla gente. Alla fine tutto è pace, in quella Svizzera dell'Ottocento patriarcale e senza problemi.

LA PROTAGONISTA
Il fatto di vivere un secolo fa non impedisce ad Heidi di sentirsi una persona libera, capace di decidere da sola e di intervenire in autonomia anche nella vita dei grandi. Sente malinconia quando è lontana dai suoi monti e dal nonno; però allegria e vitalità fanno presto a tornare. Quando il nonno l'accoglie, un pò intenerito e un pò disturbato da questa insolita presenza, Heidi ha appena 5 anni; ma pensa da sola ad ispezionare la capanna cercando il posto più adatto per dormire. Si prepara il letto con il fieno, chiedendo soltanto un lenzuolo e una coperta. A Francoforte diventa subito pratica delle strade, con grande spavento della famiglia che la ospita: credono che si sia perduta, ma Heidi sa sempre dove andare, matura come un'adulta.

LA NOSTALGIA DEI MONTI
A Francoforte Heidi trascorre giorni tristi. Ha nostalgia dei suoi monti, ma non lo dice a nessuno per timore che la giudichino un'ingrata. Nella nuova casa tutti le vogliono bene: la bambina Clara, suo padre, la nonna, i domestici e quello che chiamano il Signor Laureando: uno studente che tenta inutilmente di insegnarle a leggere. Pur con tutta la sua intelligenza, Heidi è convinta che non ce la farà mai. Anche Peter, un amico con il quale trascorreva in passato le giornate in alta montagna, aveva le stesse difficoltà.
Un giorno la nonna di Clara le mostra un libro illustrato. Improvvisamente la bambina scoppia a piangere. Ha visto il disegno di un prato verde con gli animali che pascolano e il pastore che vigila, appoggiato a un lungo bastone. E' la sua vita perduta. La nonna capisce, "Vedi", le dice, "questa illustrazione ti ha fatto venire in mente qualcosa; però nel libro c'è una bella storia che riguarda questa figura. E ci sono tante altre storie che si possono leggere e raccontare".
Fino a quel momento Heidi aveva visto le lettere dell'alfabeto come segni estranei e misteriosi. Lo dice all'anziana signora: "Non si può imparare a leggere, è troppo difficile". La nonna insiste: "Appena avrai imparato, avrai questo libro tutto per te, così potrai leggere tutta la storia come se qualcuno te la raccontasse: quello che succede alle pecore e alle capre, una storia vera". Heidi tenta, ma è inutile. Finalmente la nonna capisce che c'è qualcos'altro che la turba. Heidi si confida. Pensa al nonno e alle vallate verdi, e teme che nessuno la possa aiutare. Si sente sola: ma nessuno, risponde la signora, è veramente solo. "Se preghi e ti rivolgi al buon Dio, Egli può sempre aiutarti e ridarti la serenità" Heidi domanda: "Posso dirgli veramente tutto?". "Tutto, Heidi; tutto".
Passa qualche giorno. La nonna incontra il signor Laureando e gli chiede notizie. Lo studente è sbalordito. Stava ormai per rinunciare, convinto che la piccola non avrebbe mai imparato. "E' straordinario", dice. "Non solo ha capito di colpo, ma legge con una correttezza rara fra i principianti". La vecchia signora sorride. Ha compreso. Heidi aveva finalmente uno scopo; da quel momento tutto è stato diverso".

LE GRANDI CIVILTA': GLI INCAS

Nell'attuale Perù, sulla città di montagna di Cuzco, regnava intorno al 1200 d.C. la famiglia degli Incas, il cui capo discendeva da Inti, il dio del Sole. Poco alla volta gli Incas estesero il loro impero su tutti i territori confinanti, dalle Ande all'Oceano, dall'Ecuador al Cile, raggiungendo il massimo splendore tra il 1400 e il 1500 e costituendo la più grande civiltà dell'America antica. Caddero, infine, sotto la dominazione degli invasori spagnoli, comandati da Francisco Pizarro, giunti in Perù nel 1532, attratti dalle leggende che parlavano di enormi quantità di oro. Tutte le antiche tradizioni incaiche andarono perdute; per fortuna i preti spagnoli raccolsero e misero per iscritto cronache ispirate alla storia degli Incas che, insieme con i ritrovamenti archeologici, ci permettono di ricostruire i tratti fondamentali di questa affascinante civiltà.

UN DIO TRA LE STELLE
I principali dèi incaici erano le forze della natura: Inti, il Sole; Quilla, la Luna; la Folgore; l'Arcobaleno e gli Astri. Creatore di tutto era Viracocha, immaginato come un vecchio dai capelli bianchi che dimorava al centro della Via Lattea. Gli Incas erano superstiziosi e credevano negli spiriti che abitavano dappertutto, nelle piante, negli uccelli, nelle pietre. I sacerdoti erano anche indovini e per le predizioni osservavano le stelle. Oltre ai due sommi sacerdoti, un uomo e una donna di nobile stirpe, e ai sacerdoti addetti alla cura dei templi, c'erano le Mamacunas o "donne consacrate", dedite all'educazione delle fanciulle nobili destinate a diventare le vergini del Sole.

IL SACRIFICIO DEL LAMA BIANCO
Il primo re inca ad insignirsi del titolo di Sapa fu Roca, intorno al 1300, quando gli Incas incominciarono la loro espansione. Il Sapa Inca (unico imperatore) era un re divino e a lui spettava l'onore di celebrare la Festa del Nuovo Anno, il giorno in cui il Sole si trovava a picco a mezzogiorno sul tempio a lui dedicato nella capitale Cuzco. Allora l'Inca si toglieva la corona, una semplice fascia decorata con un simbolo sacro che gli circondava la fronte, pregava il Sole dentro il tempio e poi usciva sulla piazza antistante a benedire il lama bianco destinato al sacrificio sulle montagne. Al termine del rito tutto il popolo cominciava a far festa, danzando e bevendo chicha (birra di mais). Come il Sole esercitava la sua benefica azione sulle piante e sugli animali, così il Sapa Inca, figlio del dio, regnava per il bene del suo popolo. Quando saliva al trono, l'imperatore doveva sposare la sorella maggiore; il loro primogenito sarebbe stato il successore.

COCA, ALPACA E VIGOGNA
Re e nobili vivevano in palazzi, le classi meno abbienti, invece, in case di pietra e argilla, senza porte nè letti nè sedie. Dormivano su stuoie e sedevano sui talloni. Il pasto principale era quello serale a base di stufato di patate, fagioli e altre verdure, aromatizzato con spezie piccanti. Tutti gli abitanti del villaggio lavoravano: del raccolto, due terzi andavano allo Stato come tributo. Veniva immagazzinato e distribuito in tempi di carestia. Il resto era suddiviso tra i membri della comunità. I contadini coltivavano soprattutto patate, fagioli, peperoni, frutta e granoturco. Nei mesi di dicembre e gennaio si piantava la coca: le foglie di questa pianta venivano masticate e agivano da stimolante. Il consumo di questa droga era riservato ai sacerdoti e alla nobiltà. Sulle montagne i pastori allevavano l'alpaca, con la cui lana tutti si vestivano. La vigogna selvatica, invece, veniva cacciata solo per ordine del Sapa Inca e con la sua lana si facevano abiti esclusivamente per l'imperatore e gli alti funzionari.

SOLO A PIEDI
Il territorio degli Incas, quasi tutto sulle Ande, era aspro e accidentato e aveva bisogno di buone strade per i collegamenti tra le varie zone dell'impero. Due strade principali correvano da nord a sud, in esse confluivano centinaia di strade secondarie da est a ovest. Sugli altipiani le vie erano lastricate di pietra o tagliate nella roccia; sulle coste, invece, non erano spianate ed erano delimitate da file di tronchi. C'erano ponti sospesi per superare le gole o i fiumi, piccole gallerie per abbreviare i percorsi e strade a scalinata per affrontare i tratti più ripidi. Gli Incas non conoscevano la ruota, viaggiavano poco e sempre a piedi. Lungo le strade sorgevano numerose stazioni di posta per il riposo dei corrieri, dei funzionari e dell'esercito. Soltanto il Sapa Inca, che continuamente si spostava da una parte all'altra dell'Impero, disponeva di un mezzo di trasporto: un palanchino con il tetto di piume, portato a braccia dai nobili di rango più elevato.

LA MAGNA CHARTA

"Enrico, per grazia di Dio re d'Inghilterra, saluta tutti i suoi fedeli che vedranno la presente carta. Sappiate che noi..abbiamo dato e accordato..a tutti del nostro regno le libertà qui sotto specificate.. Nessun uomo libero sarà arrestato, privato della sua libertà o libere usanze, messo fuori dalla legge, esiliato..e noi non metteremo o faremo mettere la mano su di lui se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del Paese".
E' il 1225, Enrico II d'Inghilterra promulga la "charta" che nel 1215 suo padre Giovanni aveva prima concessa e poi ripudiata. E' la "Magna charta libertatum" (la grande carta delle libertà), della "magna charta" per la sua importanza, ma soprattutto per la sua lunghezza. Per la prima volta un monarca assoluto rinuncia a parte dei suoi diritti, accetta regole di giustizia neutrale, concede ai sudditi un organismo che il rappresenti, s'impegna a non promulgare nuove tasse senza la sua approvazione (questo diritto fu definitivamente ammesso nel 1297 da Edoardo I). Nacquero in seguito alla "Magna charta" la Camera dei Lord, riservata alla grande nobiltà, e la Camera dei Comuni, dove erano rappresentati bassa nobiltà e borghesia. Anche se i principali beneficiari di questi diritti sono nobili e alto clero, sono comunque i primi passi verso uno Stato democratico. Ci vorranno 550 anni prima che queste regole escano dall'Inghilterra e incomincino a diffondersi per il mondo (Rivoluzioni americana e francese).

"Ciò che piace al re ha valore di legge". Il sovrano faceva le leggi, le disfaceva, compiva ogni genere di soprusi. Con la "Magna charta" il re mantenne per diverso tempo enormi poteri, ma non avendo quelli delle tasse e delle spese era condizionato dal Parlamento. I diritti conquistati dai baroni e dall'alto clero si estesero poi anche alle altre classi. Due ulteriori passi importanti vennero fatti nel 1628, quando fu sancita l'inviolabilità della persona umana, e nel 1649 quando fu proclamato il principio della "sovranità popolare". La Gran Bretagna, prima democrazia moderna, non ha una Costituzione scritta: le sue regole sono semplici leggi che il Parlamento potrebbe sempre cambiare con un voto. Non è mai successo.

Habeas corpus
Con la caduta dell'impero romano, l'Europa divenne per secoli una terra nella quale valeva la legge del più forte, che sarebbe stata ancor più violenta se non fosse intervenuta la Chiesa a mitigarla con qualche suo privilegio (come il diritto d'asilo, l'inviolabilità degli edifici sacri ecc..). Anche in Inghilterra la legge dell'anarchia e del sopruso imperversava, eppure fin dai primi anni di questo millennio si hanno notizie di "statuti" che concedevano agli arrestati di avere giustizia regolare. La "Magna charta" sancisce questo principio, ma bisogna attendere il 1628 perchè il Parlamento inglese, primo in Europa, approvi l'habeas corpus ad subiciendum (nel suo significato giuridico: il tuo corpo sia presentato in giudizio). E' una tappa fondamentale nella storia della giustizia: nessuno può essere arrestato arbitrariamente e una volta arrestato deve essere, in tempi brevi, sottoposto a giudizio.

Il nemico di Robin Hood
Può apparire paradossale, ma il primo re che concesse una "charta" dei diritti, accettando una limitazione dei suoi poteri, fu uno dei sovrani più ambiziosi spietati e odiati di tutti i tempi, quel Giovanni Senza Terra, fratello di Riccardo Cuor di Leone, le cui nefande gesta ci sono state tramandate dalla leggenda di Robin Hood. Giovanni era definito Senza Terra perchè il padre morendo non gli aveva lasciato eredità, trasferendo tutto al primogenito Riccardo. Quando questi partì per una crociata e fu fatto prigioniero, Giovanni, che era stato nominato reggente, cercò di usurpare il trono e impose tasse durisime ai sudditi con la scusa di dover pagare un riscatto per il fratello. Fin qui la realtà. La leggenda, a questo punto, inserisce la storia di Robin Hood, valoroso cavaliere diventato fuorilegge per non ubbidire all'usurpatore, e dei suoi uomini, uno strano manipolo di banditi "che rubavano ai ricchi per donare ai poveri" e che aiutarono Riccardo a riconquistare il trono. E come ogni trama cavalleresca che si rispetti c'è anche una bella e tormentata storia d'amore tra Robin e Marion, figlia del barone di Huntingdom, un sassone rimasto fedele a Riccardo.
Comunque, nel 1199, alla morte del re Riccardo, Giovanni tornò sul trono. Fu un regno disastroso, segnato dalle sconfitte, che tolsero all'Inghilterra gran parte dei possedimenti che deteneva in Francia, e dall'impoverimento delle casse dello Stato dovuto alle continue guerre. Proprio per non dover versare ulteriori tributi scoppiò la ribellione dei baroni che nel 1215 sconfissero Giovanni e lo costrinsero a firmare la "charta". Subito dopo, però, il sovrano la rinnegò. Ci vollero dieci anni di lotte intestine, prima che - come abbiamo detto - Enrico II, figlio di Giovanni, promulgasse definitivamente la "Magna charta".

JOHANN SEBASTIAN BACH

Sino alla metà dell'Ottocento non c'era differenza tra musica classica e leggera. Mozart e Beethoven hanno scritto decine di melodie per balli e feste di paese. Sulla piazza del mercato di Lipsia c'è una targa che ricorda il "Caffè Zimmermann", dove nel Settecento un signore sulla quarantina dirigeva musiche da salotto. Era un uomo fiero e parsimonioso come certi contadini. S'era sposato due volte e aveva venti figli. Parliamo di Johann Sebastian Bach, uno dei più grandi compositori nella storia della musica.

Oggi, più di 200 anni dopo, le sue opere sono studiate dagli allievi di tutti i conservatori del mondo. E ogni giorno vengono eseguite in migliaia di sale da concerto. Eppure Bach si considerava poco più di un artigiano. Due dei suoi figli, Johann Christian e Carl Philipp Emanuel, per un certo periodo sono diventati più celebri del padre.

Bach nacque nel 1685 a Eisenach, da una famiglia che da quasi due secoli dominava la scena musicale della Turingia, regione della Germania centro-settentrionale. Veit Bach, il capostipite della dinastia era un fornaio ungherese: lo chiamavano il "mugnaio con la cetra". Orfano a 10 anni, era stato accolto dal fratello maggiore, Johann Christoph, organista che lo aveva mandato al ginnasio.

A 18 anni, finita la scuola, Johann Sebastian iniziò a fare il musicista di professione, come il nonno, il padre e il fratello. Presto scoprì che era un mestiere ricco di amarezze: all'inizio del Settecento gli artisti facevano fatica a sbarcare il lunario e a trovare un impiego. Il musicista, come un servo, indossava la livrea e mangiava al tavolo dei camerieri.

Nell'aprile del 1703 Bach ottenne il primo incarico alla corte di Weimar, con i compiti di "violinista e lacchè". Pochi mesi dopo si trasferì a Arnstadt, come organista e Kantor, cioè maestro di musica. Nel 1707, a 22 anni, andò a Muhlhausen dove compose i primi lavori, tra i quali la cantata Gott ist mein Konig (Dio è il mio re). L'anno dopo diventò organista e Kammermusikus del duca Johann Ernst, incarico che tenne per otto anni.

Nel 1716 a Weimar si liberò il posto di Kapellmeister, cioè direttore d'orchestra, uno degli impieghi più ambiti dell'epoca. L'anno dopo Bach accettò l'invito del principe Leopoldo di Kothen, dove trovò uno stipendio più che raddoppiato, il rango di "ufficiale di casa", l'alloggio a palazzo e un'orchestra di eccellenti musicisti. Proprio alla corte di Kothen Bach compose i primi capolavori strumentali: le Partite e le Suites inglesi e francesi per clavicembalo, Le Sonate e Partite per violino, i sei Concerti branderburghesi.

Nel 1722 il musicista si trasferì a Lipsia, fiorente città commerciale e sede di un'antica università. Il suo nuovo incarico era quello di "direttore di musica" alla Scuola di San Tommaso, una delle cariche più prestigiose della Germania di quel tempo. I suoi doveri comprendevano 4 ore di insegnamento al giorno (compreso il latino) e l'allestimento musicale delle funzioni religiose. Doveva condurre una vita esemplare e non poteva lasciare la città senza il permesso del borgomastro.

Fu in questo periodo che nacquero le opere sacre più famose: le Passioni, gli Oratori, la grande Messa in si minore, una cinquantina di Cantate e sei Mottetti. Negli ultimi 8 anni di vita, Bach raggiunse le vette della creazione musicale. Nel 1742 fece un viaggio a Dresda, dove conobbe il conte Keyserlingk, un mecenate che gli commissionò le Variazioni Goldberg, dal nome del clavicembalista che doveva suonarle.

Cinque anni dopo andò a Berlino, dove il figlio Carl Philipp Emanuel era diventato clavicembalista di Federico il Grande. Il sovrano, buon compositore e ottimo suonatore di flauto, gli propose un tema sul quale improvvisare. Nacque l'Offerta musicale, che Bach fece stampare a proprie spese e offrì al re nel luglio 1747. E' anche l'anno in cui iniziò la composizione del capolavoro assoluto, l'Arte della fuga.

Nella primavera del 1749 Bach si ammalò e diventò cieco. Un chirurgo inglese lo operò più volte di cataratta, ma senza esito. Morì a Lipsia nel luglio 1750.

L'EDITTO DI COSTANTINO

Fu emanato a Milano nel 313 d.C. da Costantino e Licinio: riconosceva alle comunità cristiane piena libertà di culto e parità di diritti nei confronti di tutte le altre comunità dell'Impero; abrogava le restrizioni in vigore, relative alla libertà di propaganda e proselitismo fra i pagani, e ordinava la restituzione ai cristiani di tutti i beni confiscati. I cristiani potevano acquistare proprietà, frequentare e aprire la pubblico i luoghi di culto, avere propri cimiteri. Successivamente, Costantino concesse alla Chiesa altri privilegi, come l'immunità dei sacerdoti; la possibilità di ricevere donazioni ed eredità, che permetterà alla Chiesa di accumulare ricchezze e di avviare perciò attività di carattere caritativo, sociale e assistenziale; la proclamazione della domenica come giorno festivo; il diritto di asilo alle chiese. Attribuì ai vescovi la giurisdizione sul clero e anche sui civili che ne avessero chiesto il giudizio.

SANT'ELENA
Nella vita di Costantino un grande ruolo ebbe, almeno secondo la tradizione, la madre Elena. Di umili origini, faceva la serva in una locanda quando conobbe e sposò l'imperatore Costanzo Cloro, dal quale fu successivamente ripudiata per ragioni politiche. Quando ottenne il potere, Costantino la volle al suo fianco e le assegnò il titolo di imperatrice. Elena mise la sua autorità e il suo prestigio al servizio della causa cristiana. Intraprese anche un lungo pellegrinaggio in Palestina per visitare i Luoghi Santi. Secondo la tradizione rinvenne la vera croce di Cristo, una parte della quale avrebbe portato a Roma e collocato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme da lei fondata. Fece costruire chiese anche a Costantinopoli (l'attuale Istanbul), Betlemme e Gerusalemme. Proclamata santa, la sua festa è celebrata il 18 agosto per la Chiesa latina e il 21 maggio per quella greca.

L'IMPERATORE
Costantino fu nominato "Cesare" nel 306 alla morte del padre, Costanzo Cloro. Nel 310 morì l'imperatore Galerio che lasciò quattro pretendenti al trono, tra i quali scoppiò subito una violenta rivalità, che si concluse con la vittoria di Costantino su Massenzio nella battaglia del Ponte Milvio alle porte di Roma (312).
La scelta di Costantino di farsi protettore dei cristiani fu, almeno all'inizio, frutto di calcolo politico, perchè aveva intuito che era ormai impossibile impedire la diffusione del cristianesimo ricorrendo ancora alle persecuzioni che si erano inutilmente succedute nei secoli precedenti. Era dunque opportuno e più redditizio, per la realizzazione delle sue ambizioni di potere, avere come alleati i cristiani con la loro forza morale, che poteva ridare vigore alla società romana in decadimento. Di conseguenza fece ogni sforzo per inserire la Chiesa nello Stato, intervenendo personalmente per salvaguardarne l'unità contro le eresie (Concilio di Nicea, 325).
Soltanto sul letto di morte, nel 337, l'imperatore accettò di farsi battezzare dal vescovo Eusebio di Nicomedia.

PERSECUZIONI E CATACOMBE
I primi cristiani dovettero subire le persecuzioni degli imperatori romani che si rifiutavano di adorare come fossero divinità. Le persecuzioni più sanguinose furono dieci a partire da quella di Nerone (64 d.C.) per arrivare a Diocleziano (303 d.C.).
Non potendo riunirsi liberamente, i cristiani decisero di tenere le loro adunanze religiose nelle catacombe. Erano grotte sotterranee nelle quali i cristiani seppellivano i loro morti. Talvolta venivano scavati in profondità anche due o tre piani di gallerie: le più profonde arrivavano fino a 20 metri sotto terra.

IN HOC SIGNO VINCES
"Con questo segno vincerai". Secondo la leggenda, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, a Costantino sarebbe apparsa in sogno una croce su cui erano incise le parole In hoc signo vinces. In seguito a ciò, l'imperatore ordinò ai suoi soldati di imprimere sugli scudi una X e una P incrociate, che erano le prime due lettere del nome di Cristo in greco. Costantino ottenne la vittoria e l'attribuì all'intervento del Dio dei cristiani. Secondo la leggenda questo episodio lo convinse a promulgare il celebre editto.

JACK LONDON: IL RICHIAMO DELLA FORESTA

L'AUTORE
Di Jack London si usa dire che il suo più avvincente romanzo fu la sua stessa vita, parzialmente raccontata in Martin Eden. Nato a San Francisco nel 1876, morto ad appena quarant'anni, London ebbe un'infanzia poverissima. Fece mille lavori, sempre con l'ansia di arricchire. Alla fine del secolo, dopo che le riviste avevano accettato diversi suoi racconti, ottenne un enorme successo con Il richiamo della foresta. Pubblicò una cinquantina di romanzi: fra i più famosi Zanna Bianca, La valle della luna, Il lupo di mare. Mise insieme e perdette diversi patrimoni; spendeva tutto quello che guadagnava in modo nevrotico. Tutto sommato era un romantico; e finì come Hemingway, con il "gran gesto" del perdente, togliendosi la vita.

LA TRAMA
Buck, un cane grosso e tranquillo, che dalla nascita ai quattro anni di età è vissuto in una calda villa californiana, si trova sbattuto d'improvviso in un mondo ostile. Un inserviente lo ruba ai suoi padroni e lo vende a uno spedizioniere che sta portando cani al Nord, dove è stato scoperto l'oro. Un forte cane da slitta vale centinaia di dollari, e Buck è fortissimo. Impara presto che deve adattarsi e nello stesso tempo combattere: l'uomo vuole obbedienza: gli altri cani possono essere temibili nemici. Buck si trova con proprietari spietati e con altri ai quali vuole bene. Diventa capo-branco dopo un duello alla morte con un cane rivale, Spitz; fa vincere una grossa scommessa a un suo padrone trainando da solo mezza tonnellata di carico sul ghiaccio; massacra lupi e indiani. Alla fine sente il richiamo dei suoi antenati e scompare fra i ghiacci, alla testa di un branco di lupi.

IL PROTAGONISTA
Figlio di un gigantesco Sanbernardo e di una "collie", Buck ha preso dal padre la struttura imponente e dalla madre la linea elegante. Assomiglia a un lupo, ma è molto più massiccio. Quasi settanta chili di muscoli d'acciaio. Nella sua nuova vita tra i ghiacci, Buck impara a sue spese le regole della sopravvivenza. L'uomo bianco non va affrontato direttamente: la supremazia sui cani del branco va affermata con la forza. Diventa astuto, cattivo. Per uccidere il rivale Spitz, si prepara per mesi ed agisce di sorpresa. E' capace anche di grandi generosità, e salva due volte un padrone buono rischiando di morire. Ma è sempre meno un cane, sempre più un lupo, che al richiamo della foresta dà l'addio alla vita civilizzata.

IL DUELLO CON SPITZ
Appena arrivato al Nord, Buck ha visto all'opera Spitz, il capobranco. Curly, una grande e tranquilla cagna di Terranova, è uccisa e sbranata da altri cani. Spitz guarda con la lingua in fuori, come ridendo. Buck è spaventato e stordito. Sta distante da Spitz, che ugualmente lo evita; e a poco a poco si capisce che uno dei due è di troppo. Buck comincia a proteggere i compagni perseguitati da Spitz. Un giorno è quasi sul punto di sopraffare il rivale; ma interviene il padrone che separa i due a colpi di frusta. Buck non ha fretta. Verrà il momento.
La slitta corre verso le miniere d'oro. Al mattino l'aurora boreale accende il cielo di fredde luci; Buck ricorda il calore perduto della California. Una sera, vicino all'accampamento, uno dei cani vede un coniglio selvatico. Bianco, tenero, coperto da un fitto pelo. Tutto il branco, una sessantina di cani, si getta all'inseguimento. Buck è in testa; guardando quel piccolo animale in fuga, leggero come un fantasma, sente ridestarsi un'antica ferocia, l'istinto della caccia. Si muove come una macchina, ognuno dei suoi muscoli e dei suoi tendini è sincronizzato. Però il più furbo è Spitz.
Il capobranco, freddo calcolatore, ha preso una scorciatoia per tagliare la strada al coniglio selvatico. E' un lampo: un baleno di zanne e la bestiola è stesa sulla neve. Il branco si avventa con un urlo selvaggio di trionfo; ma Buck non pensa già più al coniglio. Senza frenare l'impeto della corsa sceglie d'istinto il suo vero obiettivo, che è Spitz. Gli piomba addosso con irruenza cieca, mirando alla gola; ma Spitz è un combattente nato. Evita la presa con uno scarto fulmineo e azzanna il nemico alla spalla.
Sanno entrambi che è un duello mortale. I cani intorno aspettano anch'essi la preda, perchè lo sconfitto verrà divorato. E' buck che attacca, cercando di cogliere la gola o di rovesciare l'avversario. Poi le parti si invertono, è Spitz che sembra prevalere. Il branco scatta in piedi. Buck riprende l'equilibrio. Ragiona come un uomo, spietato e freddo. Finge di voler addentare una spalla, poi abbassa la testa di colpo e chiude le mascelle su una gamba di Spitz. Bilanciato su tre gambe, questo resiste ancora. Nuovo assalto, si sente il rumore delle ossa spezzate. Un'altra gamba. Spitz, indomito, con il pelo ritto, morde l'aria. Buck gli dà il colpo definitivo alla gola. Spitz scompare sotto il branco che gli si avventa addosso.

LA RIVOLUZIONE RUSSA

La casa imperiale dei Romanov governò la Russia dal 1613 al 1917. L'ultimo suo esponente fu Nicola II che salì al trono nel 1894 e regnò ancora con sistemi autoritari, servendosi del terrorismo, della repressione violenta e della polizia politica (Ochrana) e dimostrando quindi poca sensibilità per il malcontento che da tempo serpeggiava e che già si concretizzava in manifestazioni popolari imponenti (marcia del 1905 sul Palazzo d'Inverno, residenza dello zar a Pietroburgo, l'attuale Leningrado). Nicola II fu fucilato nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918 a Ekaterinburg, una cittadina degli Urali, dove si trovava agli arresti. Per anni circolò la leggenda che si fosse salvata la figlia minore, Anastasia. Molte truffatrici cercarono di farsi passare per lei al fine di recuperare quella parte del tesoro imperiale che i nobili sfuggiti alla repressione erano riusciti a trasferire all'estero Oggi, dopo il fallimento del comunismo, Ekaterinburg è diventato luogo di pellegrinaggio di migliaia di nostalgici degli zar.

Un sistema feudale
La Russia degli zar era rimasta ancorata al sistema feudale. L'imperatore, padrone assoluto di tutto il territorio, dominava mediante l'esercito e i nobili, sull'enorme massa dei poveri contadini (allo stato di servi della gleba), che solo nel 1861 ottennero le prime riforme agrarie. Essi rappresentavano l'80% della popolazione, dieci, dodici milioni di famiglie che vivevano dividendosi circa 700 mila chilometri quadrati di terreno, mentre altri 700 mila chilometri quadrati appartenevano a sole trentamila famiglie. Nell'ultimo scorcio dell'Ottocento, era nata in questo immenso Paese, rigidamente diviso in caste, una nuova classe sociale, gli operai, che passarono in pochi anni da 700 mila su una popolazione di 150 milioni di abitanti a quasi 3 milioni nel 1900. Erano privi di abitazioni decorose, adeguata assistenza igienico-sanitaria, provvidenze sociali e avevano salari da fame. In questa situazione nel 1917 scoppiò la Rivoluzione d'Ottobre.

Le tappe della Rivoluzione
Febbraio 1917: a Pietrogrado le dimostrazioni popolari spontanee, dovute alla miseria e alla guerra, durarono alcuni giorni in un crescendo che provocò un inasprimento della repressione zarista.
Marzo: lo zar Nicola II, abbandonato dall'esercito, abdicò e fu eletto un governo provvisorio che concesse molte libertà.
Aprile: Lenin ritornò in patria e cercò di impossessarsi del governo, ma venne arrestato e fuggì poi in Finlandia, da dove ritornò alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre.
Ottobre: il Comitato militare rivoluzionario, formatosi dopo il ritorno clandestino di Lenin e diretto da Trotsky, diede l'avvio alla Rivoluzione bolscevica, che trionfò quasi senza vittime il 25 ottobre 1917 secondo il calendario russo (7 novembre secondo il nostro calendario). Conquistare il potere fu più facile che conservarlo. Infatti, ben presto il disastroso trattato di pace con la Germania, necessario ai comunisti per poter reprimere l'opposizione interna, creò malcontento. Fra le truppe "bianche" anticomuniste e i bolscevichi (Armata rossa) fu la guerra civile, che provocò milioni di morti. La resistenza dei "bianchi" crollò nel 1920.

Lenin, il vincitore
Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin (era lo pseudonimo che usava per firmare articoli di giornale), nacque nel 1870 in una piccola città di provincia sul Volga da una famiglia borghese. Era il terzo di 6 figli e a 17 anni restò fortemente colpito dalla morte del fratello maggiore, impiccato per aver partecipato a un complotto contro lo zar. Studiando, conobbe le teorie di Marx e le tristi condizioni dei contadini del suo Paese. Nel 1893 incominciò la sua attività rivoluzionaria tra gli operai di Pietroburgo. Fu imprigionato ed esiliato, girò l'Europa continuando a studiare, a scrivere e a progettare la rivoluzione. Tornò nel 1917, nascosto dentro un vagone blindato che l'esercito tedesco, ormai alla frontiera russa, lasciò passare, sperando che il ritorno di un gruppo di rivoluzionari esiliati facesse esplodere definitivamente la ribellione del popolo già in atto per la grave situazione bellica. Lenin fu l'anima dei bolscevichi, seguaci della corrente di sinistra e di maggioranza nel partito socialdemocratico russo, formatosi nel 1896 e divisosi in due grandi gruppi nel congresso di Londra del 1903. La fazione di minoranza, più moderata, era quella dei menscevichi. Lenin era convinto della necessità della rivoluzione armata di operai e contadini uniti. Intendeva realizzare una "democrazia dei Soviet" (soviet = consigli di operai e soldati) per l'edificazione del comunismo. Lenin morì a Mosca nel 1924 per una crisi cardiaca. Prima di morire mise in guardia il partito da Stalin (definito "pericoloso e brutale"), ma purtroppo non riuscì ad impedire che prendesse il potere e lo gestisse nel modo tragico che le recenti cronache ci hanno confermato.

LE GRANDI CIVILTA': I GRECI

Conoscere i greci significa scoprire le origini della nostra civiltà, capire meglio il presente attraverso quel lontano passato. In epoca preistorica, le popolazioni greche si indicano con il nome di Achei; il loro maggior centro fu Micene nell'Argolide, da cui partì la vittoriosa spedizione guidata da Agamennone contro Troia, impresa resa famosa dai poemi di Omero. La scrittura, appresa dai Fenici e successivamente perfezionata, e i poemi omerici (IX-VIII secolo) segnano l'inizio dell'età storica. Le popolazioni danno vita a piccole comunità autonome, ciascuna con moneta e leggi proprie: sono le polei o città-Stato, governate da un ristretto numero di nobili. L'economia, basata su agricoltura e pastorizia, non è florida e molti sono costretti a emigrare per cercare terre più fertili e nuove fonti di ricchezza. E' il periodo delle colonizzazioni, prima verso est (Asia Minore), poi verso ovest (Sicilia e Italia meridionale). In Grecia, intanto, alcune città-Stato si affermano sulle altre, creando forme di governo insolite per i tempi e fondamentali per il futuro di tutte le civiltà europee. Siamo nel VI-V secolo a.C. e, accanto a Sparta, modello di governo aristocratico e conservatore, nasce e si sviluppa la democrazia di Atene, la più importante delle città-Stato. Qui lo sviluppo del commercio aveva fatto comparire nuove classi sociali (mercanti, mediatori, artigiani), desiderose di non essere escluse dal governo. Alleatesi con i contadini, imposero riforme, come l'estensione dei diritti politici e la convocazione di assemblee a cui partecipavano tutti i cittadini, escluse le donne, i bambini e gli stranieri. Nel V secolo a.C. Atene raggiunse il massimo splendore anche nell'arte, nella letteratura e negli altri campi del sapere.

Una vita frugale
La popolazione di Atene del V-IV secolo a.C. si aggirava intorno alle 400 mila persone; di queste, 200 mila erano schiavi, 70 mila forestieri (detti meteci) e 130 mila ateniesi veri e propri. Le abitazioni erano piccole, scomode e senza servizi; l'arredamento era modesto e i pasti frugali; prevaleva il consumo di pesce e vegetali, prodotti a buon mercato, menre la carne era riservata a poche occasioni importanti. La gente trascorreva molto del suo tempo all'aperto, nelle piazze e nelle strade. Soltanto le donne, preposte ai lavori domestici, vivevano appartate in casa.

L'agorà
Al centro della polis c'era uno spiazzo aperto, chiamato agorà (raduno), dove si incontravano gli uomini per discutere gli affari importani della citta. Era il cuore della vita cittadina: vi si tenevano le assemblee, si svolgevano i processi, si passeggiava sotto i colonnati chiacchierando, si assisteva a gare di poesia e a giochi in onore degli dèi, si teneva il mercato.

Il lavoro
I Greci ritenevano che lavorare alle dipendenze di qualcuno equivalesse a essere schiavi e perciò preferivano il lavoro autonomo, che poteva essere quello del contadino sulla propria terra o dell'artigiano nella propria bottega. Gli artigiani erano aiutati da schiavi o da giovani apprendisti e lavoravano su ordinazione. Tra i mestieri più apprezzati vi era quello del vasaio, che con la creta produceva utensili domestici e vasi decorati così apprezzati che venivano esportati in tutto il Mediterraneo.

La scuola
Le scuole erano private e la frequenza non obbligatoria. In ogni caso, soltanto i maschi potevano accedervi. Imparavano a leggere, scrivere, contare con l'abaco (una specie di pallottoliere), suonare la lira, cantare, danzare, recitare versi. La base della cultura di un ragazzo ateniese era costituita dall'Iliade e dall'Odissea. Il pomeriggio era dedicato agli esercizi in palestra. A 15 anni il giovane poteva avviarsi a un mestiere come apprendista o approfondire gli studi con un maestro a pagamento, oppure seguire lezioni collettive (sempre a pagamento) tenute nell'agorà o nel ginnasio da filosofi.

Il teatro
Il teatro costituiva un momento importante per i Greci: le rappresentazioni avvenivano solo per 10 giorni all'anno. Si andava a teatro all'alba, si pagava l'entraa (se si poteva, altrimenti ci pensava lo Stato) e vi si trascorreva l'intera giornata. Nei brevi intervalli si consumavano cibi e bevande portati da casa. Lo spettacolo era costituito da 3 tragedie e da una breve farsa satiresca o da 5 commedie. L'interesse del pubblico era molto elevato.

Le olimpiadi
Ogni 4 anni nella città di Olimpia si svolgevano giochi sacri in onore di Zeus (Olimpiadi). Il pubblico accorreva da ogni parte della Grecia e anche dalle isole e dalle colonie. Si sospendevano persino le guerre in corso. Le prime Olimpiadi si svolsero nel 776 a.C. e su questa data si basava anche il calendario greco. Le gare più importanti erano quelle del pentathlon (corsa, lancio del disco, salto in lungo, lancio del giavellotto, lotta).

L'ASSEDIO DI TROIA

Si chiama Hissarlik, che in turco significa fortezza. E' una collina brulla, spazzata dal vento e alta una trentina di metri, che si specchia nel mare dove l'Egeo comunica con il Mar di Marmara attraverso lo stretto dei Dardanelli. C'è chi assicura che questa collina, solcata da una ragnatela di scavi, racchiude una storia eroica e una leggenda che si rinnova a distanza di 3200 anni. Quelle pietre forse appartenevano a una città che continua a stimolare la fantasia degli uomini: Troia o Ilio.

Omero ha narrato nell'Iliade soltanto gli ultimi cinquanta giorni della lunga guerra di Troia, presumendo che chi lo ascoltava conoscesse  gli eventi precedenti. Il poeta del resto, è vissuto quasi certamente nel nono secolo prima di Cristo, ossia due o trecento anni dopo l'assedio: ha avuto quindi la possibilità di raccogliere qualche prova storicamente valida.

Noi ci fermiamo alle fonti dell'archeologia troiana che si identifica con il nome di Heinrich Schliemann, il grande archeologo tedesco morto a Napoli nel 1890. I suoi scavi a Hissarlik portarono alla luce statue, vasi e gioielli di foggia non greca (Il tesoro di Priamo), databili intorno al 2000 a.C. e quindi molti secoli prima della guerra di Troia. Nel fervore delle ricerche, Schliemann era sceso troppo nelle viscere della terra, scoprendo non Ilio, ma una città più antica e più progredita di quella cantata da Omero. E sotto quella ce n'era unìaltra, preistorica, e sopra altre sette. Tra queste si localizzò finalmente quella omerica, al settimo strato, partendo dal basso. E qui si scoprirono tracce di un incendio, lo stesso che - come racconta Omero - distrusse la città dopo nove anni d'assedio. Era il 1184 a.C. e cioè tarda età del bronzo, quando i Greci avevano solo armi di questo metallo.

Troia sorgeva in posizione ideale per dominare le vie commerciali, come una sentinella dell'Ellesponto dal quale giungevano l'oro, l'argento, il legname per la costruzione delle navi, il lino, la canapa, il pesce secco, l'olio e soprattutto il grano a buon mercato. Gli scavi confermano che era una prospera città "dalle belle mura" e dalle "larghe strade".

Schliemann, forse abbagliato dall'oro che aveva trovato, pensava a trecentomila abitanti: altri archeologi, più realistici, parlano di "un nido di pirati" con circa cinquecentomila persone. Gli scavi rivelano che al momento dell'incendio Troia era sovraffollata e aveva molte abitazioni d'emergenza: forse le case degli alleati e dei rifugiati dalla campagne, fuggiti di fronte al dilagare dei Greci dopo lo sbarco. Ma ancora più drammaticamente rivelatori sono i ritrovamenti degli scheletri in posizione innaturale, appartenenti a persone morte combattendo. In una taverna, fra oggetti di cucina e una macina per la farina, è stato trovato il cranio sfondato di un uomo. Ovunque tracce di saccheggio. Ancora eretti, invece, tratti di mura maestose, con torri larghe 18 metri e porte abilmente angolate in modo da esporre l'assediante al tiro dei difensori. Contro quelle mura ben poco potevano le armi di allora: lance, spade, pugnali, archi e frecce. Nella guerra d'assedio Troia fu distrutta forse grazie a una torre mobile di legno ricoperta da pelli bagnate di cavallo contro le quali si spegnevano le frecce incendiarie.
La leggenda del cavallo - tranello inventato da Ulisse - si diffuse piuttosto tardi. I più antichi commentatori di Omero sono propensi a credere che si trattasse di una macchina per abbattere le mura. Altri pensavano addirittura a un cavallo dipinto sulla porta secondaria della città, aperta ai greci dal traditore troiano Antenore.

LEV TOLSTOJ: GUERRA E PACE

L'AUTORE
Il conte Lev Tolstoj nasce nel 1828 in un paesino della steppa russa. Come tutta la nobiltà ricca, va spesso a Mosca e a Pietroburgo; in quest'ultima città si laurea in legge. Comincia a scrivere, poco dopo i vent'anni, quando è ufficiale zarista. Combatte contro i turchi; poi, lasciato l'esercito, inizia la stesura di quello che sarà il suo capolavoro, una fra le vette più alte della letteratura mondiale: Guerra e Pace, la vita della nobiltà e dei contadini russi durante l'invasione napoleonica.
In vecchiaia Tolstoj rompe con la famiglia e fugge di casa. Muore in viaggio, nel novembre del 1910.

LA TRAMA
Lo sfondo storico del romanzo (la più grande opera della letteratura narrativa russa e una delle più grandi della letteratura mondiale) è costituito dagli avvenimenti delle guerre portate in Europa dalle armate francesi di Napoleone, e in essi si incastrano le vicende di due nobili famiglie russe (i Bolkonskij e i Rostov) e le azioni di numerosi personaggi diversi. Il più importante è Pierre Bezuchov.

Il vecchio principe Bolkonskij ha due figli di temperamento diversissimo: Maria, timida e dolce, e Andrej, uomo intelligente e orgoglioso. Andrej dovrebbe sposare la giovanissima ed esuberante Natascia Rostova, ma resta ferito nella battaglia di Austerlitz e le nozze sono rimandate. Natascia si lascia travolgere dagli inganni di Anatolij Kuragin. L'avanzata delle armate napoleoniche travolge la Russia. Pierre Bezuchov tenta di uccidere Napoleone ed è preso prigioniero. Andrej è ferito mortalmente nella battaglia di Borodino. La strategia del generale russo Kutuzov e il tremendo inverno portano l'armata francese al disastro. In Russia, alla guerra subentra la pace. Lentamente le vicende dei personaggi arrivano a conclusione: Maria sposa Nikolaj, fratello di Natascia, e quest'ultima ritrova la serenità sposando Pierre che l'amava da sempre.

IL RISCATTO DI NATASCIA
E' uno dei personaggi più significativi del romanzo: appartiene alla nobile famiglia dei Rostov e viene presentata all'inizio giovane, molto bella, allegra e spensierata. I suoi interessi principali sono per i vestiti, i balli, la caccia, il gran mondo. Non è dotata di particolare intelligenza e sensibilità, ma è capace di gesti generosi: quando la sua famiglia fugge da Mosca, dove sta per entrare Napoleone, fa scaricare tutti i bagagli per far posto ai soldati russi feriti. Destinata a sposare il principe Andrej Bolkonskij, mentre questi è lontano s'innamora di un avventuriero, Anatolij, uomo egoista e da poco. L'esperienza  non le giova, anzi spegne la sua voglia di vivere. Fallito il piano di essere rapita da Anatolij per l'intervento di un'energica zia, rotto il fidanzamento con Andrej, Natascia si ritrova sola. Verso la fine del romanzo Tolstoj la presenta come una donna sciatta e banale, che ha perso l'allegria, la bellezza e ogni speranza. Soltanto l'amore di Pierre e il matrimonio con lui le ridanno un pò di serenità. Non ha più il fascino di un tempo, è invecchiata, e non solo esteriormente, ma ricopre con impegno il suo ruolo di moglie e di madre.

ANDREJ PERSONAGGIO COMPLESSO
E' la figura principale del romanzo. E' il rappresentante di una generazione superata, capace di gettarsi nei nuovi modi di vita, ma incapace di rinunciare al proprio clima e al proprio spirito. E' il personaggio più complesso, il più intelligente e il più simpatico. E' un aristocratico che disprezza il proprio mondo, ma che detesta il nuovo, fatto di compromessi, di gesti decisi e incontrollati.

PIERRE
Figlio naturale del conte Bezuchov, Pierre si trova, alla morte del padre, erede di una fortuna enorme e incapace di servirsene. E' l'opposto del principe Andrej: è espansivo, comunicativo, pieno di interesse per la vita che gli si muove intorno. La vita attiva non lo attrae, anche se è convinto che bisogna fare il bene ed essere utili; è debole di volontà e subisce l'influenza altrui invece di imporre la propria. Predomina in lui l'elemento emotivo, ma anche per lui come per Andrej la vita è una cosa molto seria, un alto compito morale.

CRETA, LA PRIMA CIVILTA' D'EUROPA

Cento anni fa un archeologo inglese, di nome Evans, trovò in un negozio d'antiquariato ad Atene amuleti femminili con incisi dei geroglifici indecifrabili. Evans si convinse che quegli oggetti provenissero da Creta. Si recò nell'isola, acquistò un appezzamento di terreno nel punto in cui si riteneva fosse seppellita la città di Cnosso, assoldò un gruppo di sterratori, e dopo due mesi di scavi si trovò di fronte ai resti del palazzo di Minosse, il famoso Labirinto.

Gli storici dell'antichità, e anche i poeti da Omero in giù, avevano sempre detto che la prima civiltà greca era nata non a Micene, cioè sul continente, ma nell'isola di Creta, e aveva avuto la massima fioritura al tempo di re Minosse, 12 o 13 secoli prima di Cristo.
Ma non si erano mai trovate tracce, tanto che gli storici moderni avevano finito con il negare che a Creta fosse fiorita la grande civiltà che le attribuiva Omero. Ma si sbagliavano.

Richiamati dalla scoperta di Evans, archeologi di tutto il mondo, fra cui anche alcuni italiani, accorsero sul posto e cominciarono a fare da ogni parte buche nel terreno. In breve vennero fuori monumenti e documenti di quella civiltà cretese che dal nome del re Minosse fu chiamata minoica.
Ancora oggi gli studiosi stanno discutendo sulla sua origine: alcuni sostengono che essa sia venuta dall'Asia, altri dall'Egitto. Sicuramente fu la prima civiltà che si sviluppò su una terra europea, raggiunse alte vette e influenzò quella che si sarebbe sviluppata in Grecia e in Italia.

Fu a Creta che Licurgo e Solone, i due più grandi legislatori dell'antichità, vennero a cercare il modello delle loro Costituzioni, qui nacqua la musica corale che Sparta adottò, qui vissero e lavorarono i primi capiscuola della scultura.
Ma com'era la vita a Creta 400 anni fa? Dal modo come viene rappresentata nei bassorilievi e nei dipinti, la gente aveva fattezze piuttosto piccole e snelle, con una pelle di color pallido le donne, abbronzata gli uomini, tanto che venivano chiamati foinokes, che vuol dire pellirosse. Gli uomini portavano sulla testa turbanti, le loro tuniche (anche per le donne) erano strettamente allacciate alla vita. Le donne lasciavano il seno scoperto.

A sentire Omero, su Creta sorgevano 90 città:
- Cnosso era la capitale
- Festo era il gran porto, dove si concentrava il commercio marittimo con l'Egitto
- Palaicastro era il quartiere residenziale
- Gurnia il centro manifatturiero
- Hagia Triada la sede estiva del re e del governo, come dimostra la vitta reale che è stata dissepolta.
Le case erano di 2, di 3, o anche di 5 piani, con le scale interne. E nei dipinti a bassorilievi che ne ornano le pareti si vedono gli inquilini maschi giocare a scacchi sotto gli occhi annoiati della padrona di casa che tesse la lana.

A raccontarci la storia di questa civiltà sono proprio i dipinti e i bassorilievi. I cretesi amavano la caccia e si facevano aiutare da agili e sottili cani, che somigliavano a levrieri, e da gatti selvatici appositamente ammaestrati. Un altro sport praticato dai cretesi era il pugilato. I campioni di peso leggero si battevano a mani nude, usando per colpire anche i piedi, come fanno oggi i siamesi: quelli di peso medio usavano il casco; e quelli di peso massimo anche i guantoni.

Era un popolo di guerrieri, di navigatori e di pittori. E a questi ultimi dobbiamo il fatto di averne potuto ricostruire la civiltà, che sotto Minosse toccò la sua più alta vetta. Non si riesce a capire che cosa ne abbia provocato la decadenza che, a giudicare dalle rovine, dev'essere stata molto rapida. Fu un terremoto seguito dagli incendi che a un certo punto distrusse Cnosso con i suoi bei palazzi? Dagli scavi si direbbe che case e negozi siano stati "sorpresi" mentre i loro abitanti erano in piena e normale attività.

E' più probabile però che la scomparsa della civiltà cretese sia stata provocata da un'invasione di Achei, che, calati sul Peloponneso dalla Tessaglia, avevano fatto di Micene la loro capitale. Essi distrussero tutto, a Creta: anche la lingua, che sotto Minosse non era certamente greca, come ci dimostrano le iscrizioni rimaste. Queste sembrerebbero avvalorare l'ipotesi che i cretesi avessero origini egiziane.

La leggenda di Minosse
Minosse, re di Creta, era considerato figlio di Zeus. Per avere offeso Nettuno, dio del mare, fu punito con la nascita di un figlio mostruoso con la testa di toro e il corpo di uomo, il Minotauro. Minosse decise di rinchiuderlo e fece costruire da un architetto di nome Dedalo, un immenso palazzo composto da una tale quantità di sale e corridoi che nessuno poteva ritrovare la strada del ritorno.
Il terribile Minotauro regnava da padrone in questo labirinto. Ogni anno Minosse gli dava in pasto 7 fanciulle e 7 giovincelli, che venivano consegnati dai popoli vinti in guerra. Il Minotauro fu poi ucciso da Teseo, un principe ateniese, mentre il re Minosse - così si racconta - quando pose fine ai suoi giorni sulla terra divenne uno dei giudici infernali.

ANTONIO VIVALDI

Immaginate di essere a Venezia all'inizio del Settecento. La città ha perso da tempo il ruolo di guida politica ed economica. Le sue bellezze, naturali e artistiche, continuano ad attirare visitatori da ogni parte d'Europa. E' soprattutto l'atmosfera musicale che attrae i viaggiatori. La gente improvvisa canti per le strade e sulla Laguna. I ricchi mercanti prendono lezioni di violino e ospitano gli artisti più celebri. Fioriscono le composizioni sacre e operistiche. Il cuore della musica, come nel tardo Cinquecento, è ancora la basilica di San Marco: nei giorni di festa, le funzioni religiose diventano veri e propri concerti.

Tra i musicisti più applauditi c'è Antonio Vivaldi, figlio di un violinista della cappella di San Marco. Nato a Venezia nel 1678, Vivaldi riceve le prime lezioni dal padre. Nel 1703 diventa sacerdote, ma l'anno successivo, a causa delle precarie condizioni di salute, viene dispensato dal celebrare la Messa e si dedica completamente alla musica.

Soprannominato il "prete rosso" per via dei rossi capelli, Vivaldi si afferma come compositore e maestro di violino al Conservatorio della Pietà, un'istituzione benefica che accoglieva ragazze povere e orfane, nella quale la musica era una parte importante dell'educazione. Le "Figlie della Pietà" erano abili nel suonare il clavicembalo, il violino, il violoncello, la viola d'amore, la tiorba e il mandolino. I loro concerti attiravano un gran numero di curiosi, richiamati dallo spettacolo di un'orchestra formata da ragazze giovanissime, che rimanevano però nascoste alla vista del pubblico da una fitta grata.

Vivaldi mantiene l'incarico al Conservatorio della Pietà per 36 anni: un lungo periodo che non gli impedisce di lasciare più volte Venezia per comporre e dirigere in altre città. Nel 1712 dà alle stampe una delle opere più celebri. L'estro armonico: dodici concerti per uno, due o quattro violini accompagnati da strumenti a corde e dal clavicembalo. Una raccolta che diventa modello per i musicisti dell'epoca.

Nonostante 40 opere e molta musica sacra, Vivaldi è noto soprattutto per le pagine strumentali. Componeva con grande facilità: era capace di abbozzare una sonata in pochi giorni, e si vantava di finire una partitura in un tempo minore di quello che serviva a uno scrivano per ricopiarla. I concerti per strumenti ad arco e a fiato, capolavori del Barocco italiano, rivelano un'inesauribile vena melodica e un ritmo vivace.

Nel 1725 Vivaldi pubblica la raccolta di concerti intitolata Il cimento dell'armonia e dell'invenzione. E' l'opera che contiene le Quattro stagioni,  uno dei primi esempi di musica descrittiva, a imitazione della natura. Le Quattro stagioni godevano di grande fama già al tempo di Vivaldi. Si racconta che un giorno, il re di Francia, volendo ascoltare a tutti i costi la Primavera, costrinse un gruppo di nobili a improvvisare un'orchestra.

Nel 1728 il compositore dedica all'imperatore austriaco Carlo VI lo spartito della Cetra: una raccolta di musiche che gli frutta un buon contratto e un posto d'onore alla corte viennese. Dello stesso periodo sono le composizioni per flauto, archi e cembali, che contengono pagine famose come la Tempesta di mare, e Del cardellino e La pastorella.

Nel 1741 Vivaldi lascia Venezia per ritornare a Vienna, dove muore a 63 anni per una banale infiammazione. Un viaggio misterioso, una fine in miseria: viene sepolto senza cerimonia in un cimitero che non esiste più. Pochi anni fa si è scoperto il suo nome nel registro del duomo di Santo Stefano. C'era una scritta: "Funerale dei poveri, due soli tocchi di campana".

CATERINA II DI RUSSIA

Dopo due secoli, i giudizi degli storici sono ancora divisi. Fu la grande imperatrice che portò la Russia nell'ambito delle maggiori potenze europee, rendendola anche arbitro di conflitti internazionali? Fu invece una donna viziata e viziosa, che si circondava di favoriti, uno più incapace dell'altro? Fu una vera letterata, scrittrice lei stessa, amica dei più esperti spiriti francesi, autrice di leggi moderne? O non fu piuttosto una dittatrice, interessata solo al potere, pronta per questo ad ammazzare il marito, a privare del trono il figlio?

In verità Caterina II fu questo e quello: uno straordinario personaggio, pieno di contraddizioni. Certo aveva un animo duro. Moglie del re Pietro III, lo lasciò regnare solo 6 mesi, dal gennaio al giugno 1762. Il marito era un uomo volgare, intemperante, che la detestava. Caterina ricambiava questi sentimenti e, temendo di essere cacciata, favoriva le congiure. Una di queste ebbe successo: Pietro III venne ucciso e la regina, con la scusa che il figlio aveva appena 8 anni, lo mise in disparte e si accinse a regnare da sola. Resistette così 34 anni, malgrado difficoltà di ogni genere e sollevazioni popolari.

Indubbiamente la sua opera fu notevole. Fondò 144 città, i suoi eserciti vinsero 78 battaglie. D'accordo con Austria e Prussia, partecipò alle spartizioni del'infelice terra di Polonia. Sconfisse prima i Turchi e quindi fece pace, traendone buoni vantaggi. Si oppose all'espansione inglese e, quando la Rivoluzione francese minacciò di diffondersi in tutta Europa, si apprestò a mandare contro Parigi le sue truppe. La fermò solo la morte, nel 1796.

La mancanza di denaro impedì a Caterina di espandere, come avrebbe voluto, il sistema scolastico. Quanto all'organizzazione sociale, assegnò alle grandi famiglie importanti cariche e privilegi, mentre alla piccola nobiltà venivano assegnate funzioni minori. A soffrire era il popolo, ridotto in schiavitù. I contadini erano dei semplici servi, dei quali i proprietari potevano disporre a piacimento. Se qualcuno si ribellava, veniva deportato in Siberia.

Se poi l'imperatrice ebbe grandi meriti nel riorganizzare l'amministrazione dello sterminato Paese, separando il potere burocratico da quello giudiziario e finanziario, i suoi governi non fecero sforzo alcuno per modernizzare la Russia. I nuovi metodi industriali, le tecniche agricole che si stavano diffondendo in Occidente vennero ignorate. Quando Caterina morì, la sua nazione era tra le più forti d'Europa, e tra le più arretrate.

La rivolta dei Cosacchi
Ne hanno parlato grandi scrittori, come Puskin e Esenin. Caterina era a metà del suo lungo regno quando scoppiò la rivolta dei cosacchi, guidati da Emeljan Ivanovic Pugaciov. fra il 1773 e il 1774 gli insorti riuscirono quasi a raggiungere Mosca. Erano esasperati dalla loro condizione di servi della gleba, dalle tasse troppo pesanti, dalle persecuzioni religiose. Però Pugaciov, per quanto abile e capace combattente, non ebbe fortuna. I soldati russi lo catturarono e lo portarono in una gabbia di ferro fino a Mosca, dove il rivoluzionario venne barbaramente squartato. Altri sovrani avrebbero tratto dall'insurrezione l'incoraggiamento a trattare meglio i contadini, ma Caterina non era il tipo. Al contrario, attuò una politica ancor più rigida, che andò avanti anche nei decenni successivi.

LE GRANDI CIVILTA': GLI ASSIRI

La Mesopotamia, terra tra i due fiumi, Tigri ed Eufrate, fu la sede della civiltà assira (II millennio a.C.). Il nome degli Assiri derivava dal dio Assur e Assur era anche il nome della capitale, circondata da mura imponenti con 13 porte. Erano molto bellicosi, per primi adottarono armi e armature di ferro (corazze, elmi, scudi), la cavalleria, le macchine da assedio come arieti e torri da combattimento.

I re assiri più famosi furono:
- Sargon Ii (722-705 a.C.), che sottomise varie terre in Asia minore e costrinse Babilonia all'obbedienza.
- Sennacherib (704-681 a.C.), definito nella Bibbia "sovrano crudele e orgoglioso", che trasferì la capitale da Assur a Ninive. Fu assassinato in una congiura.
- Assurbanipal (668-626 a.C.), chiamato dai Greci Sardanapalo, ricordato come esempio di lusso e di ricchezza, ma anche per la sua cultura, come attestano le 22 mila tavolette trovate nelle rovine del palazzo imperiale di Ninive.
Dopo la morte di Assurbanipal, lo Stato assiro decadde rapidamente e fu conquistato e distrutto da Medi e Babilonesi. Risorse così il regno di Babilonia (II impero), famoso per il suo splendore, soprattutto sotto Nabucodonosor (604-562 a.C.), ma ebbe breve durata. Nel 538 a.C. la Mesopotamia fu conquistata da Ciro, re dei Persiani.

Il diluvio universale
Anche nella tradizione dei popoli mesopotamici è ricordato il diluvio universale descritto nella Bibbia. In una tavoletta ritrovata a Ninive, si descrive un'alluvione catastrofica avvenuta intorno al 4000 a.C. Il racconto ha analogie impressionanti con quello biblico. La tavoletta, infatti, menziona l'imbarcazione del saggio Utnapishtim (l'Arca di Noè della Bibbia) "sballottata per sette giorni e sette notti" (secondo la Bibbia furono 40).

L'Ulisse degli Assiri
Gilgamesh era il più popolare eroe assiro-babilonese, una specie di Ulisse, protagonista di un poema che ci è pervenuto intatto. In esso Gilgamesh combatte il mostro Kumbaba sui monti al confine con la Siria; compie una spedizione sulla catena del Libano (forse per impadronirsi del legname); si innamora di Ishtar (paragonabile all'Afrodite dei Greci, dea dell'amore); varca il grande Oceano che conduce alla dimora di Utnapishtim; tenta di carpire agli dei il segreto dell'immortalità.

Il regno del terrore
Gli Assiri trattavano con agghiacciante ferocia i popoli vinti in battaglia e se ne vantavano. Ecco l'impressionante testimonianza lasciataci da un re: "Costruii un tumulo davanti alla porta della città, scorticai tutti i capi dei ribelli, ricoprii il tumulo con la loro pelle. Passai a fil di spada 600 guerrieri, diedi alle fiamme 3000 prigionieri. Ad alcuni prigionieri tagliai le mani e le dita, ad altri il naso e le orecchie, a molti cavai gli occhi".

Il primo medico
I popoli della Mesopotamia ritenevano le malattie opera di demoni e di forze magiche; pertanto le cure consistevano principalmente in cerimonie rituali e scongiuri sacri, mediante i quali si cercava di scacciare i demoni dal corpo. A volte si facevano bere al malato bevande amarissime, affinchè il demone che era nel corpo, disgustato, si allontanasse. Il primo medico di cui si conosca il nome è un certo Lulu, che abitò nella città di Ur verso il 2700 a.C. Sempre dalla Mesopotamia proviene il più antico testo contenente indicazioni di medicinali.

Il re Sennacherib fece di Ninive la città più bella del mondo allora conosciuto: c'era un acquedotto che si reggeva su arditissimi archi per una lunghezza di 50 chilometri.
Assurbanibal fece costruire a Ninive una grandiosa biblioteca. I testi sacri e gli atti ufficiali del regno erano incisi su tavolette.