QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

LA PRIMA DEMOCRAZIA CRISTIANA

La prima politica e sociale esplosa in Italia negli anni 1898-1899 mise in luce i caratteri originali del movimento democratico cristiano, sorto a Roma negli anni Novanta attorno al sacerdote marchigiano Romolo Murri, fondatore della Federazione cattolica universitaria e della rivista “Vita nova”, prontamente inglobate nell’Opera dei congressi. All’inizio l’organizzazione del cattolicesimo intransigente vide infatti positivamente l’impegno religioso e sociale dei “giovani”, rispettosi del non expedit in quanto giudicavano il mondo cattolico ancora immaturo per un ingresso attivo nella politica. Il movimento diede vita a importanti iniziative editoriali quali “Il Popolo italiano” di Genova, la torinese “Democrazia cristiana”, la “Croce di Costantino”, fondata a Caltagirone (CT) da don Luigi Sturzo, la “Cultura sociale”, creata dallo stesso Murri prese posizione contro la politica repressiva del governo e contro il carattere conservatore degli atteggiamenti assunti tanto dai clericomoderati quanto dai cattolici intransigenti. Murri chiedeva invece che i cattolici si impegnassero concretamente nella difesa delle libertà fondamentali e dei ceti popolari anche appoggiando alcune battaglie dell’estrema sinistra, con l’obiettivo di creare un partito politico autonomo. Per impedire tale progetto, che dal settembre 1900 ebbe il suo organo nel “Domani d’Italia”, Leone XIII emanò l’enciclica Graves de communi (1901), con la quale vietava di dare un carattere politico alla democrazia cristiana. Murri e alcuni seguaci proseguirono comunque l’attività ottenendo l’appoggio di Giovanni Grosoli, nuovo direttore dell’Opera dei congressi, che però, osteggiata da Pio X e dai conservatori, fu sciolta nel luglio 1904.

 

1851 LA RIFORMA DELLA TARIFFA DOGANALE

Il 4 luglio 1851 venne promulgata la legge di riforma della tariffa doganale del Regno di Sardegna, che ribassava sensibilmente i dazi sulle importazioni di 605 articoli, tra cui derrate alimentari e prodotti manifatturieri.
Venne inoltre previsto l’esonero dal pagamento del dazio per il cotone e le lane, per i minerali di ferro e rame, per i concimi e il foraggio. Il dazio a 2,5 l’ettolitro e la tariffa rimase in vigore sino al gennaio 1854, quando, in seguito a tumulti popolari dovuti a una carestia, scomparve del tutto.
Fu infine abolito il porto franco di Nizza, dove dal 1613 qualunque tipo di merce non veniva sottoposto ad alcun dazio in entrata o uscita, suscitando vivaci polemiche da parte della sinistra e dei deputati locali.
La legge di riforma doganale non fu un provvedimento isolato, ma l’atto conclusivo di una svolta della politica economica sabauda in senso decisamente liberistico, già iniziata con i trattati commerciali stipulati con l’Inghilterra (3 gennaio 851) e con il Belgio (27 febbraio 1851).
Alla fine del 1852, approvata la nuova tariffa doganale e siglati accordi commerciali con dieci paesi europei, il Piemonte si lasciò definitivamente alle spalle la politica protezionistica che aveva caratterizzato gli anni successivi alla restaurazione.

LA TRIPLICE ALLEANZA

Nel maggio 1882, stipulando il trattato della Triplice alleanza con la Prussia e l’Austria, l’Italia si inseriva nelle scacchiere politico internazionale. Il trattato, di carattere puramente difensivo, rimase ufficialmente segreto fino alla prima guerra mondiale, ma la notizia della sua esistenza si era diffusa già nel 1883.
Esso contribuì a orientare in senso conservatore e militarista gli indirizzi della politica interna italiana. Lo stesso preambolo indicava infatti come obiettivo comune dei tre sovrani il rafforzamento del principio monarchico e dell’ordine sociale. Veniva così sanzionato il definitivo distacco della politica governativa italiana dal movimento irredentista e dalle istanze patriottiche di compimento dell’unità nazionale, legate ai valori risorgimentali.
Per l’Italia l’adesione alla Triplice alleanza aveva inoltre una chiara connotazione anti-francese, da porre in relazione con l’atteggiamento della Francia in difesa delle rivendicazioni pontificie e con la sua recente occupazione di Tunisi, verso cui anche l’Italia aveva mostrato delle ambizioni. Il trattato consolidava il sistema di sicurezza di Austria e Germania, che si assicuravano la neutralità e l’appoggio italiano nel caso di conflitti con la Russia e la Francia, mentre per il nostro paese il più immediato vantaggio riguardò la questione romana, in quanto l’integrità territoriale raggiunta dopo il 1871 veniva riconosciuta implicitamente anche dall’Austria, la massima potenza cattolica.

CARLO ALBERTO

Figura certamente fra le più discusse e contradditorie del risorgimento italiano, Carlo Alberto (Torino, 2 ottobre 1798-Oporto, Portogallo, 28 luglio 1849) venne a trovarsi, a partire almeno dal 1845, al centro delle speranze dei moderati italiani. Il suo passato non era dei più rassicuranti.
Di carattere profondamente indeciso, turbato da angosce religiose, seppure animato da un grande desiderio di gloria e da una profonda fede nel proprio destino eroico, Carlo Alberto si era trovato a gestire in qualità di reggente i moti del marzo 1821. In quella occasione aveva promesso il suo appoggio ai liberali, ma li aveva poi abbandonati per sottomettersi agli ordini  dello zio Carlo Felice. Aveva poi cercato di farsi perdonare i cedimenti liberali giovanili e aveva dato ripetute prove di legittimismo, combattendo i costituzionalisti spagnoli e soprattutto, una volta salito al trono del Regno di Sardegna nel 1831, perseguitando in modo implacabile i mazziniani coinvolti nei moti del 1831-1834.
I contemporanei lo dipingevano come un debole, dispotico e capriccioso, incapace di prendere decisioni, ma i moderati che cercavano una via non rivoluzionaria all’indipendenza italiana riponevano in lui le loro maggiori, se non uniche, speranze.
Dopo la grande repressione degli affiliati alla Giovine Italia, Carlo Alberto aveva cercato di mantenersi al potere con una politica di mediazione fra reazionari e liberali, facendo convivere nel suo governo uomini come Solaro della Margherita e Pes di Villamarina.
Aveva avviato una politica di moderate riforme, ma senza rimettere in discussione l’assolutismo, e aveva finito con l’essere guardato con sospetto dai progressisti senza aver riacquistato la fiducia dei reazionari.
Solo l’adesione al programma neoguelfo, dopo il 1845, gli permise di riconquistare una certa popolarità. Nel 1847, nonostante le riserve di molti, Carlo Alberto continuava ad apparire ai moderati l’unico che potesse liberare l’Italia dall’Austria, evitando il ricorso alle rivoluzioni dei popoli.

LUIGI DE’ MEDICI

Nel restituire a Ferdinando IV di Borbone l’Italia meridionale, il primo ministro austriaco Klemens von Metternich e quella inglese Robert Stewart Castlereagh, memori delle stragi del 1799, si erano preoccupati di impedire gli eccessi della reazione. A interpretare le spinte più moderate e riformatrici fu chiamato il primo ministro Luigi de’ Medici, di formazione illuministica (era nato a Napoli nel 1759, morì a Madrid nel 1830), già interprete alla fine del Settecento di alcune delle istanze più avanzate del dispotismo illuminato e persino caduto in sospetto di giacobinismo, nel 1793-1794.
Grazie alla sua influenza, il principe di Canosa fu obbligato a rassegnare le dimissioni, la setta reazionaria dei Calderari fu posta fuori legge, le truppe d’occupazione austriache dovettero lasciare Napoli. Secondo Luigi de’ Medici occorreva mantenere, con alcune modifiche, le riforme varate nel periodo francese e aumentare l’efficienza dell’amministrazione con un’opera di centralizzazione e di unificazione delle due parti del regno.
Furono quindi estese alla Sicilia la legislazione e l’amministrazione napoletane, sostanzialmente rimaste quelle di Murat, che spazzavano via coraggiosamente, con l’opposizione della nobiltà isolana, un antico e tenace regime feudale. Tasse moderate, protezionismo doganale, buone leggi e buona amministrazione erano, a giudizio di Luigi de’Medici, il mezzo sicuro per assicurarsi l’appoggio dell’opinione pubblica, un appoggio che fu raggiunto tuttavia soltanto in alcuni ambienti ristretti della borghesia liberale.

LA LEGGE CASATI

Il decreto legge preparato dal conte lombardo Gabrio Casati e promulgato dal re in virtù dei poteri eccezionali assunti alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, costituì l’atto di nascita della scuola italiana e ne definì l’ossatura fino alla riforma Gentile del 1923.
Discussa nel corso di quattro mesi da una speciale commissione che rifletteva l’esperienza scolastica piemontese e lombarda, la legge Casati abbracciava tutti i rami dell’istruzione: elementare, tecnica, secondaria classica e superiore.
L’istruzione elementare, divisa in due gradi, inferiore e superiore, di due anni ciascuno, doveva essere obbligatoria e gratuita per il grado inferiore; ogni comune o frazione con almeno cinquanta bambini doveva aprire a sue spese una scuola; i maestri erano di nomina comunale e bastava fossero muniti di una patente di idoneità e di un attestato di moralità; il numero degli allievi non doveva superare i settanta. L’istruzione tecnica prevedeva due gradi: una scuola tecnica di durata triennale, alla quale si accedeva dopo le elementari, e un successivo istituto tecnico di tre anni, articolato in sezioni (ragionieri, geometri, periti industriali, ecc.). L’istruzione secondaria classica, fondata sulla cultura letteraria e filosofica, comprendeva cinque anni di ginnasio e tre di liceo. Al termine di ogni ciclo gli allievi dovevano sostenere un esame e solo la licenza liceale aveva valore per l’istruzione all’università. L’istruzione universitaria comprendeva cinque facoltà: teologia, giurisprudenza, medicina, scienze fisiche e matematiche, lettere e filosofia.
La legge, che costituiva in Italia un reale progresso nel campo dell’istruzione, presentava limiti che condizionarono a lungo la situazione scolastica del paese: essa prevedeva un obbligo limitatissimo e non assicurava ai comuni i finanziamenti per attuarlo; privilegiava fortemente l’istruzione umanistica rispetto a quella tecnica e trascurava l’istruzione professionale; sceglieva la strada dell’accentramento, affidando l’intera direzione della scuola a funzionari di nomina regia; trascurava la qualificazione dei maestri e la loro retribuzione, lasciata alla discrezione dei comuni.

la fortuna del romanzo d’appendice

Nel gennaio 1891 morì Francesco Mastriani, notissimo autore di romanzi d’appendice, il genere letterario ideato da due giornali francesi, “La Presse” e “Le Siècle”, intorno al 1835.
Scrittori famosi che pubblicavano i loro romanzi a puntate sui giornali, furono, in Francia, Eugène Sue (i cui Misteri di Parigi comparvero in appendice sul serissimo “Journal des Débats” negli anni 1842-1843), Alexandre Dumas padre, Frédéric Soulié.
In Italia il roman feuilleton (romanzo a puntate) si affermò nella seconda metà del secolo, con la crescente diffusione delle opere dei francesi (divulgate principalmente dalle case editrici Sonzogno, Salani, Bietti) e con la fortuna di autori quali Mastriani (La cieca di Sorrento, Sepolta viva, I misteri di Napoli fecero parlare di lui come del vero erede di Sue in Italia) e la piemontese Carolina Invernizio.
Nei romanzi di Mastriani si fondevano impegno didascalico e umanitarismo socialista ed evangelico, in quelli della Invernizio si rispecchiava invece soprattutto un’ideologia della famiglia come depositaria di ogni valore.
Le trame cariche di colpi di scena e di elementi tratti dalla tradizione del “romanzo nero”, tipiche dei romanzi di appendice, attingevano nel caso della Invernizio anche alle cronache giudiziarie di processi clamorosi, molto seguite dal pubblico negli ultimi decenni dell’Ottocento.