LE DIVINITA’ DELLA TERRA
Gea. Madre di tutti gli esseri.
Rea. Figlia di Urano e madre di Zeus.
Dioniso. Figlio di Zeus, era il dio del vino e della viticultura.
Sileno. Amico di Dioniso, era un vecchio dal naso rincagnato, la testa calva, grasso e tondo come un otre di vino.
Pan. Figlio di Ermes e della ninfa Penelope aveva i piedi di capra, due corna sulla fronte, una lunga barba e il corpo peloso.
Priapo. Figlio di Dioniso e di Afrodite era il dio dell’abbondanza.
Demetra. Sorella di Zeus era considerata la madre della Terra.
Gea, la prima madre
Prima c’era il Caos, poi spuntò Gea, la terra. Così gli antichi Greci raccontavano le origini del mondo e degli dèi. Gea generò da sola il Cielo, il mare e le montagne. Si scelse come sposo il Cielo che si chiamava Urano ed ebbe molti figli. Nacquero dapprima i Titani, sei maschi e sei femmine; poi i Ciclopi che non sono da confondere con quelli che incontrò Ulisse: avevano anch’essi un occhio solo in mezzo alla fronte. Erano tre e si chiamavano Bronte, Sterope e Arge. Poi vennero alla luce anche tre mostruosi giganti che avevano centro braccia, Cotto, Briareo e Gige. Dall’unione con il mare, Gea ebbe altri figli, tutte divinità specializzate con le acque: Nereo, padre delle ninfe Nereidi; Taumante, padre dell’arcobaleno; Forchi, Cheto e altri.
Quando scoppiò la guerra tra Crono e Zeus per il dominio dell’universo, Gea rimase neutrale: combattevano tra di loro tanti suoi figli, gli uni armati contro gli altri. L’unica soddisfazione di Gea era quella di vedere i suoi figli sempre in vita, essendo tutti immortali. Ma quando Zeus, sconfitti i nemici, imprigionò alcuni titani nell’inferno, Gea si ribellò. Si unì con l’inferno e diede alla luce un altro mostro, Tifone: aveva cento teste di drago che vomitavano fuoco. Sobillato dalla madre, Tifone dichiarò guerra a Zeus. Altra feroce lotta che si protrasse per diversi anni e che si concluse con la vittoria di Zeus: Tifone finì nel Tartaro, l’inferno degli dèi.
BASILICATA: L’ORZO
I due nomi con cui questa regione è chiamata, Basilicata e Lucania, fanno riemergere un passato davvero remoto. Basilicata deriva dal greco basilikòs (emissario del re) e risale al periodo di dominazione bizantina quando il territorio era governato da un rappresentante dell’imperatore d’Oriente. Ciò ci richiama alla mente il succedersi delle grandi civiltà che sono state via via protagoniste della storia di questa regione: Greci, Romani, Normanni, Svevi. Nessuno riuscì però a rompere l’isolamento della zona. Lucania, invece, deriva dal latino lucus (bosco). Un tempo, infatti, le pendici dei monti, che occupano gli otto decimi della regione, erano ricoperte di fitti boschi.
Oggi la Basilicata è in gran parte arida e brulla a causa di un’opera di progressivo disboscamento che ha prodotto danni gravissimi. Erosioni, frane, smottamenti, straripamenti di fiumi sono da imputare all’intervento insensato dall’uomo sul territorio nel corso dei secoli. Così si è venuta sempre più aggravando la povertà di questa regione, la più piccola dell’Italia meridionale, la meno abitata e una delle più colpite dal fenomeno dell’emigrazione.
La principale fonte dell’economia locale resta l’agricoltura, ma si tratta di un’agricoltura povera. Qualche miglioramento si è avuto grazie a interventi di bonifica abbastanza recenti e a opere di canalizzazione per l’irrigazione dei campi, oltre che a interventi di rimboschimento.
Le zone più fertili sono la piana di Metaponto e le valli dell’Ofanto e dell’Agri; le pianure occupano solo l’8 per cento del territorio. Le coltivazioni più diffuse sono quelle dei cereali, prima di tutto il grano. Altri cereali coltivati in questa regione sono il granoturco, l’orzo e l’avena.
La produzione di cereali è stata stimolata anche dalla riforma fondiaria con la distribuzione di case e terre ai braccianti e con l’incremento della meccanizzazione e della concimazione chimica. In questo modo si cerca di migliorare il tenore di vita dei lucani, senza per altro snaturare la loro tradizione agricola, che ha radici lontanissime nel tempo: sulle monete rinvenute in Basilicata tra le antiche rovine dei centri greci e romani, c’è impressa una spiga d’oro, simbolo di questa terra.
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I SEGNI DELLO ZODIACO: IL TORO
Secondo gli astrologi, i nati dal 21 aprile al 21 maggio appartengono al segno del Toro perchè in quel periodo si verificherebbe l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Toro. In realtà, per gli spostamenti astrali avvenuti nel corso dei secoli, i tori vengono oggi a trovarsi nel segno dell’Ariete.
La Costellazione del Toro è una delle più belle del firmamento. Il suo nome deriva dalla mitologia greca e si riferisce al famoso ratto di Europa, quando Giove, per ingannare e rapire la bella figlia di Agenore, re di Tiro in Fenicia, si trasformò in un toro giovane e mansueto.
Nel Toro brilla Aldebaran (“alfa” Tauri), stella di prima grandezza visibilissima a occhio nudo. Si tratta di una gigante rossa con una luminosità quasi cento volte quella del Sole. “Al dabaran” in arabo significa “la successiva”, cioè la stella che segue le Pleiadi, mentre i Romani la chiamarono “palilicium” perchè, al suo tramonto, venivano celebrate le feste Palilie, divenute poi le feste per il “natale di Roma”.
Et Nath (“beta” Tauri) è anch’essa visibile a occhio nudo e si trova sulla punta più alta delle due corna del toro, mentre “zeta” Tauri, corrisponde alla punta del corno inferiore. Questa stella è una binaria (ha una compagna ravvicinata praticamente invisibile) ed è duemila volte pù luminosa del Sole.
Gli oggetti stellari più famosi della Costellazione del Toro sono gli ammassi stellari aperti delle Iadi e delle Pleiadi. Le Iadi si trovano in prossimità di Aldebaran e formano la testa del toro. Si tratta di un gruppo di 150 stelle distanti dalla Terra 130 anni luce. Le Pleiadi erano ben conosciute dagli Egizi che al loro sorgere, in novembre, le collegavano ai riti per la commemorazione dei morti.
Virgilio e Ovidio citano e cantano spesso le Pleiadi. I latini chiamarono le 7 stelle visibili di questo ammasso con i nomi delle 7 figlie di Pleione e di Atlante.
In realtà a occhio nudo se ne scorgono solo 6 e questo perchè Merope, una delle 7 sorelle, sposò un mortale, Sisifo, compromettendo la sua ascesa fra gli astri. Gli astronomi arabi, più acuti e precisi, ma certo meno poetici, chiamarono le Pleiadi “da-giagia-as-sama-nabanatihi”, “la gallina celeste con i suoi pulcini”.
Nella Costellazione del Toro si trova il corpo forse più straordinario dell’Universo. Si tratta della famosa Nebulosa del Granchio, M1, vicino alla punta inferiore delle due corna. M1 è ciò che resta della grande esplosione di una stella avvenuta nel luglio del 1054 e osservata dagli astronomi cinesi e giapponesi del tempo.
Dal periodo Precambriano, circa 750 milioni di anni fa, possono essere esplose almeno 10 stelle, e ciascuna di queste esplosioni avrebbe potuto produrre effetti letali su alcune specie viventi del nostro pianeta. La scomparsa dei dinosauri, ad esempio, potrebbe essere stata causata da una di queste terribili catastrofi cosmiche.
La Nebulosa del Granchio è diventata una vera e propria miniera di informazioni per la moderna astronomia, rivelando molti segreti sulla vita delle stelle e permettendo scoperte clamorose come quella dei “little green men” o “piccoli uomini verdi”, così come venne chiamato il primo segnale radio a intermittenza regolare proveniente dal suo interno. Si trattò, in realtà, della scoperta della prima “pulsar” o “stella pulsante”.
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VENETO: IL VETRO
Il vetro fa parte della storia del Veneto: all’epoca dell’Impero romano, Aquileia, importante porto dell’Adriatico settentrionale, era già un centro famoso per la lavorazione del vetro, che all’arrivo dei barbari, secondo la leggenda, fu trasferita a Venezia. Il documento più antico che attesta l’esistenza di quest’arte è del 982. Si tratta dell’atto di donazione della chiesa di San Giorgio Maggiore ai Benedettini e porta la firma di un certo “Domenico fiolario”, cioè Domenico “vetraio”, visto che “fiola” indicava una bottiglia di vetro dal collo stretto. Questo per quanto riguarda l’Italia, ma si sa che in Egitto, già nel II millennio avanti Cristo, si fabbricavano amuleti, scarabei, piccole maschere e vasetti per unguenti e profumi in vetro.
Da Venezia le fornaci per la lavorazione del vetro furono trasferite nell’isola di Murano che tuttora è il centro più importante di produzione del vetro, nel 1271. Questo trasferimento fu motivato dal pericolo di incendi rappresentato dai forni a legna, ma doveva servire anche a proteggere il patrimonio di conoscenze e di oggetti artistici dell’industria vetraria.
Alla fine del Quattrocento la fama dei vetri di Murano era diffusa in tutto il mondo. Nel Settecento il tradizionale predominio veneziano in questo campo fu messo in crisi dai progressi tecnici e artistici dei vetrai inglesi, francesi e boemi. Il divario sarà colmato solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La rinascita definitiva avviene nel nostro secolo ad opera di grandi famiglie di maestri del vetro soffiato che iniziano una fruttuosa collaborazione con famosi artisti e al cui nome è legata la migliore produzione di vetri veneti: Barovier, Toso, Ferro, Seguso, Moretti.
Venezia è la patria dei vetri d’arte, di cui ora esistono collezioni di inestimabile valore. Alla base della lavorazione del vetro sta un impasto di silice e soda fornito dalla cenere di piante marine: il vetro così composto si mantiene allo stato pastoso a lungo, permettendo al maestro vetraio di plasmarlo. Su questa base si sono innestate nei secoli varie tecniche che hanno dato vita a oggetti di incredibile varietà di spessore, forma, colore e decorazioni. I segreti dei maestri vetrai e degli artisti che lavoravano con loro erano racchiusi nei “libretti delle composizioni” per il perfetto dosaggio delle polveri, che venivano tramandati di padre in figlio sul letto di morte.
Attualmente le vetrerie di Murano, isola della laguna veneta, sono moltissime con qualche migliaio di dipendenti e un fatturato di parecchi milioni di euro all’anno. Una buona parte dei vetri prodotti viene esportato all’estero, soprattutto in Giappone e Stati Uniti.
LE CIVILTA’ BARBARE: I BRITANNI
Britannia è il nome celtico dell’Isola di Gran Bretagna. Quando vi giungono i Romani, nel primo secolo a.C., trovano una popolazione divisa: i Canti (nel Kent), i Regni (a Chichester), i Dumnonii (in Cornovaglia), i Siluri (nel Galles), i Caledoni (in Scozia) e i Briganti (a sud del Tamigi). Sono abili agricoltori e guerrieri indomiti. Hanno organizzazione politica e costumi religiosi molto simili a quelli della Gallia, strettamente legata alla Britannia anche durante le guerre galliche.
Dopo le campagne di Cesare (55-54 a.C.), l’isola è soggetta a un tributo annuo, ma rimane indipendente sino alla conquista compiuta da Claudio (43-48 d.C.) che costituisce a provincia la parte sud-orientale. Remota, di difficile accesso ed esposta alle invasioni del Nord, la Britannia costringe i Romani a lasciarvi una guarnigione di tre legioni più gli auxilia, gli aiuti (circa 50 mila uomini). A questa prima fase della colonizzazione va riferito l’ampliamento delle vie strategiche, con la conseguente sistemazione delle fortificazioni di frontiera: i due valli costruiti da Adriano e da Antonino Pio (dal 122 al 142).
La seconda fase della romanizzazione culmina nel IV secolo e stabilisce una struttura sociale ed economica basata sulla “villa”, intesa come azienda agricola.
I Romani cominciano a evacuare l’isola nel 410 e da allora la Britannia viene invasa da Angli, Sassoni e Luti che arrivano dal continente. Una parte dei Britanni si rifugia nell’Armonica, che da allora prende il nome di Bretagna. La Britannia romana lentamente scompare e anche il cristianesimo, introdotto all’inizio del III secolo, va declinando. La regione verrà poi convertita al cristianesimo nel secolo VI.
La regina Bondicca sola contro Roma
Bondicca è il nome latino della regina degli Iceni. Era una donna giovane, bella e coraggiosa. Fu lei, attorno al 60 d.C., a ribellarsi agli invasori Romani e a tentare la riconquista dell’isola. Il suo popolo, gli Iceni, abitava insieme con i Trinovanti il territorio a nord dell’estuario del fiume Tamigi. Scintilla della ribellione furono gli abusi e le crudeltà compiute dalle legioni di Svetonio Paolino. Bondicca raccolse accanto a sè un pugno di valorosi e diede battaglia. Vinse i primi scontri, infiammò di libertà una fetta dell’isola. Ma da Roma arrivarono altre regioni e fu lo stesso Svetonio Paolino a soffocare la rivolta. Bondicca, piuttosto che consegnarsi al nemico, si tolse la vita.
L’usurpatore Carausio imperatore per tre anni
Aurelio Carausio, un romano di umili origini che era riuscito a diventare prefetto della flotta della Manica, nel 286 d.C. viene incaricato di dare la caccia ai pirati franchi e sassoni che saccheggiano le coste dell’isola. Carausio, che è un abile ammiraglio, distrugge le navi nemiche. Ma poichè è anche sfrenatamente ambizioso, subito dopo la vittoria si ribella a Roma: occupa la Britannia e il nord della Gallia. E nel 293 si proclama imperatore, dopo aver sconfitto le truppe di Massimiano. Diocleziano finge di riconoscerlo ufficialmente, ma intanto prepara un tranello. Che scatta quando l’usurpatore viene ucciso da Allecto, un suo ufficiale al quale è stato fatto credere che avrebbe potuto sostituirlo. Nel 296 l’autorità imperiale è ristabilita da Costanza Cloro e la Britannia da allora viene amministrata sotto forma di quattro province separate.
Le terme di Bath
La cultura romana dominò, senza soffocarla, l’antica tradizione celtica. Benchè la provincia non riuscisse a esprimere un vero e proprio stile romano-britannico, apporti indigeni sono ritrovabili in molte espressioni artistiche e artigianali. Tra i più significativi resti architettonici vanno ricordati il tempio di Claudio a Camulodunum (Colchester) e nella città di Bath (l’antica Aquae Salis) il grande edificio termale e il tempio di Sul, dea delle sorgenti calde assimilata a Minerva. Notevoli anche le decorazioni (famosi i mosaici di Lullingstone) delle dimore di campagna.
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LOMBARDIA: IL PANETTONE
La sera di un Natale di tanti anni fa, nel ‘500, Toni, il giovane garzone di un fornaio, era distrutto dalla fatica e si addormentò davani al forno dove stavano cuocendo delle focacce. Fu risvegliato da un cattivo odore di bruciato. Davvero un brutto guaio, perchè le focacce dovevano essere servite poco dopo in un banchetto importante. Disperato, Toni cercò di rimediare: raccolse quel che era rimasto sul tavolo, un pò di pasta di pane, uova, burro, miele e uvetta. Impastò il tutto e lo mise nel forno, affidandosi alla sua buona stella. Quando sull’improvvisato dolce si formò una bella crosta dorata, lo tirò fuori e lo servì in tavola. Fu un successone! Da allora il “pane di Toni” poi diventato “panettone”, non è più mancato sulle tavole milanesi nel giorno di Natale.
Fin qui la leggenda. Ma il vero “papà” del panettone è oggi considerato un giovane pasticciere, Angelo Motta, che nel 1921 ebbe un’idea geniale: tornare agli antichi metodi di lievitazione, usando impasti lasciati a riposare per almeno 24 ore. Così il dolce cambiò forma e diventò alto, come un cappello da cuoco. Motta e il suo concorrente Gino Alemagna, negli anni Trenta fecero conoscere il panettone in tutta Italia e poi nel mondo.
Ancora oggi, anche nella produzione industriale, la ricetta è quella di tanti anni fa. Si prepara un primo impasto di farina, con burro e zucchero, che si lascia lievitare a lungo. Il tutto viene unito a un secondo impasto di farina, uova, burro, zucchero, canditi e uva passa. Si cuoce il tutto al forno, fino a che la crosta non diventa scura e consistente, mentre l’interno resta soffice.
Alla ricetta tradizionale si sono aggiunte parecchie varianti: oggi possiamo trovare panettoni al cioccolato, ripieni di crema o di zabaione, ricoperti di glassa e così via.
In Italia si consumano circa 50 milioni di panettoni all’anno, quasi uno a testa. Il 50% è acquistato nel periodo natalizio, l’altra metà nelle settimane successive, fino al giorno di san Biagio, il 3 febbraio, secondo una vecchia leggenda che sostiene che mangiare una fetta di panettone il giorno di san Biagio tiene lontani raffreddori e mal di gola.
LE CIVILTA’ BARBARE: GLI ERULI
Sono passati oltre 400 anni dalla nascita di Gesù. L’Impero romano d’Occidente, nel quale si sono succeduti oltre 80 imperatori, sta recitando in modo inglorioso le sue ultime battute. I barbari attaccano da ogni parte le frontiere dell’impero. Arrivano dal Nord, dall’Est, dall’Ovest. Ci sono i Visigoti, i Vandali, gli Alani, i Burgundi, i Franchi (i Galli), i Goti, gli Unni. Alcuni di questi popoli non vengono nemmeno citati nelle frettolose note storiche dei libri di testo. Qualcuno ha sentito parlare dei Rugi, degli Sciri e dei Turcilingi? Eppure c’erano anche loro a scorrazzare nella Penisola italica, ormai diventata terra di conquista. Dalle Alpi, originari della lontana Scandinavia, scendono anche gli Eruli. Un popolo che era già stato protagonista, alcuni secoli prima (nella seconda metà del 200), dell’invasione della Grecia, dove aveva messo a ferro e fuoco tutto il territorio. Un gruppo si era spinto fino in Spagna. Predatori e cacciatori, come pochi altri, avevano saccheggiato tutte le coste della Gallia e della Spagna.
Gli Eruli furono poi sottomessi dagli Ostrogoti, per passare poi con essi sotto il dominio degli Unni. Dopo la morte di Attila recuperarono la loro indipendenza stabilendosi sulle rive del Danubio e fondando un forte regno. Vinti dai Longobardi, si dispersero unendosi ad altri popoli. Nel sesto secolo scompaiono dalla storia come popolo indipendente. Erano famosi per la velocità nella corsa, molto fieri, coraggiosi, amanti della libertà. Più di altri rimasero fedeli alle primitive costumanze germaniche. Un loro capo di nome Sinduald nel 566 sconfisse i Goti. Alcuni storici sostengono che gruppi di Eruli si stabilirono nelle vallate tridentine. Ma non ci sono riscontri precisi.
Odoacre, re degli Eruli
Odoacre, viene indicato in alcune fonti storiche come il re degli Eruli. Ma sembra che fosse uno sciro. Nato nel 434, entrò al servizio dell’impero. Quando le milizie barbare, che formavano la maggior parte dell’esercito romano, pretesero un terzo delle terre d’Italia, ottenendone un rifiuto, Odoacre prese la testa della rivolta. Gli insorti lo proclamarono re e tra questi gli Eruli gli furono i più fedeli. Ma arrivarono in Italia i Visigoti, che costrinsero l’esercito di Odoacre a ritirarsi a Ravenna. Mentre per tutta l’Italia infuriava la lotta fra barbari, i Visigoti assediarono la città di Ravenna. Dopo tre anni, costretto dalla fame, Odoacre negoziò la resa con Teodorico, re dei Visigoti. Dopo la promessa di avere salva la vita e di conservare una piccola parte del potere, aprì le porte della città. Teodorico entrò a Ravenna da trionfatore il 5 marzo del 493. Ma non mantenne le promesse. Dopo dieci giorni Teodorico fece uccidere Odoacre, re degli Eruli e tutti i suoi familiari, compresi la moglie e il figlio.
L’ultimo imperatore romano
Gli Eruli hanno contribuito a mettere la parola fine all’Impero romano d’Occidente. Facevano parte delle milizie di Odoacre, che a Pavia sconfisse l’esercito imperiale comandato da Oreste e depose il giovane imperatore Romolo Augusto. Una sorte ironica volle dare a questo ragazzo, destinato ad essere l’ultimo imperatore di Roma, il nome del primo. Romolo Augusto, che poi la storia ha chiamato “Augustolo”, cioè “Augusto il piccolo” per distinguerlo dal grande, venne confinato nel Castel dell’Uovo a Napoli con una ricca pensione. L’impero romano d’Occidente scompare non solo di fatto, ma anche di nome. Le aquile romane hanno smesso di volare e comincia il Medioevo. Era l’anno 476.
La fine dell’impero di Roma
La maggioranza degli storici sostiene che la fine dell’Impero romano fu provocata soprattutto da due fatti: il cristianesimo e la pressione dei barbari che calavano dal Nord e dall’Oriente. Non è proprio così. Il cristianesimo non distrusse nulla. Si limitò a seppellire un cadavere: quello di una religione in cui ormani non credeva più nessuno e a riempire il vuoto che esso lasciava. Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti, ma in quanto fornisce una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l’aveva fornita. Ma quando Gesù Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un’altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia, anzi il contrario. Tertulliano lo scrisse apertamente. Per lui tutto il mondo pagano era in liquidazione. E quanto prima lo si sotterrava, tanto meglio sarebbe stato per tutti.
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