QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

LINGUA DI CANE E FLAMMOLA

La flammola è una delle pochissime liane europee ed è in grado di avvolgersi intorno a qualsiasi cosa. In autunno e in inverno la pianta si ricopre di tanti fiocchi simili a lana. Servono per ripararla dal freddo.

La flammola ha di solito quattro petali, ma ha la particolarità di presentare spesso esemplari con 5 petali. Attenzione, questa pianta, come tutte quelle della sua famiglia, le Clematis, è velenosa. Se regali questi fiori, il significato è: Vorrei arrivare fino al tuo cuore.

La lingua di cane ha fiori piccoli che non attirano l’attenzione degli insetti. Per l’impollinazione le basta il vento.

I semi della lingua di cane contengono una sostanza lievemente tossica per l’uomo. Se li metterai sul davanzale della tua finestra, vedrai parecchi uccelli venire a prenderli. Per loro sono un ottimo cibo.

Questi due fiori hanno quattro petali. La pianta della lingua di cane va da 5 a 60 cm; quella della fiammola arriva a 500 cm.

Il fiore della lingua di cane lo vedi da aprile a ottobre, mentre quello della fiammola, da maggio ad agosto.

La lingua di cane cresce ai bordi delle strade e nei campi. La fiammola vive nei boschi, nelle macchie e nelle boscaglie.

 

SILVIO PELLICO E LE MIE PRIGIONI

Nato a Saluzzo nel 1789, Silvio Pellico si stabilì a Milano, dove divenne precettore in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi e si legò di amicizia con Ugo Foscolo, Vincenzo Monti e altri letterati italiani e stranieri residenti o di passaggio a Milano. Nel capoluogo lombardo Pellico conobbe il primo importante successo con la tragedia Francesca da Rimini, rappresentata per la prima volta nel 1815, ed ebbe modo di frequentare i circoli romantici e di diventare uno dei più assidui collaboratori del “Conciliatore”. Introdotto nella Carboneria da Pietro Maroncelli, Pellico venne arrestato dalla polizia austriaca il 13 ottobre 1820. Processato e condannato a morte nel 1822, venne graziato dall’imperatore che commutò la condanna in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza dello Spielberg in Moravia. Graziato nel 1830, ritornò a Torino, dove visse come bibliotecario dei marchesi di Barolo e riprese l’attività letteraria componendo tragedie, liriche di ispirazione religiosa e trattati morali. Morì nella capitale sabauda nel 1854. La sua fortuna letteraria è essenzialmente legata al libro di memorie Le mie prigioni, pubblicato nel 1832, nel quale Pellico rievocava la sua esperienza del carcere e della conversione religiosa. Non era intento dell’autore scrivere un’opera di propaganda antiaustriaca, ma Le mie prigioni furono lette, nel clima di repressione degli anni Trenta, come un atto di accusa nei confronti del duro regime carcerario dello Spielberg. Metternich lo definì un “libro di preghiere convertito in un libro di calunnie” più dannoso per l’Austria di una battaglia perduta.

 

LO STATUTO ALBERTINO

Emanato da Carlo Alberto sotto le forti pressioni popolari il 4 marzo 1848, lo Statuto albertino continuò a essere la legge fondamentale dello Stato italiano fino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana.

Come le altre carte costituzionali precipitosamente concesse dai sovrani nelle Due Sicilie, in Toscana e nello Stato Pontificio, lo Statuto albertino aveva le caratteristiche della charte octroyée, cioè della carta concessa dall’alto per grazia del sovrano e non come espressione della sovranità popolare. Era inoltre una carta “flessibile”, cioè modificabile attraverso un processo legislativo ordinario, il che permise di adattarla alle trasformazioni istituzionali e sociali che intervennero negli anni successivi alla sua applicazione. Lo Statuto albertino si componeva di 81 articoli, 22 dei quali erano dedicati a delineare i poteri del re. Il sovrano era titolare del potere esecutivo, capo nominale del potere giudiziario e partecipe con il Parlamento del potere legislativo; a lui spettava il potere di nomina dei ministri, che dovevano però godere della fiducia parlamentare. La rappresentatività era assicurata dalla presenza di due camere: un Senato, composto da membri nominati a vita dal re, e una Camera dei deputati, eletta secondo modalità definite da un’apposita legge elettorale che non faceva parte dello Statuto. In merito ai diritti dei cittadini, lo Statuto sanciva l’uguaglianza di fronte alla legge di “tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado” (art. 24); garantiva la libertà individuale (art. 26), la libertà di stampa (art. 28), l’inviolabilità della proprietà privata (art. 29), il diritto di pacifica adunanza (art. 32), il diritto di formulare petizioni (art. 58). La religione cattolica era definita “sola religione di Stato”, ma erano “tollerati conformemente alla legge” gli altri culti esistenti (art. 1).

TABACCO GLAUCO E GINESTRINA

Il tabacco glauco proviene dal Sud America ed è un parente stretto della pianta dalla quale si ricava il tabacco per le sigarette, la Nicotiana tabacum.

Quando un’ape si posa su una ginestrina, mette in moto un complesso meccanismo di pesi e contrappesi che spingono verso il suo ventre una piccola massa collosa di polline che verrà trasportata dall’insetto di fiore in fiore.

Il tabacco glauco sboccia da marzo a ottobre; la ginestrina da maggio a settembre.

Questi fiori sono a simmetria bilaterale. La pianta del tabacco arriva fino a sei metri; la ginestrina, invece, va da 5 a 35 cm.

Osservate le foglie della ginestrina e vi accorgerete che di sera prendono una posizione diversa. Questa particolarità ha aiutato Linneo, uno scienziato del 1700, a stabilire che le piante hanno una vita diurna e una notturna.

Il tabacco glauco cresce nei terreni incolti, mentre la ginestrina, chiamata anche trifoglio giallo, nei prati e ai bordi della strada.

In Italia, per coltivare la pianta del tabacco per sigarette, è necessaria un’autorizzazione ministeriale.

La ginestrina ha la possibilità di spingere le sue radici in profondità alla ricerca dell’acqua. Possono arrivare anche a un metro sotto terra.

 

LO SMEMORATO DI COLLEGNO

Con la pubblicazione sulla Domenica del Corriere della foto di uno sconosciuto, ricoverato da quasi un anno nel manicomio torinese di Collegno, si aprì nel febbraio del 1927 un caso giudiziario che avrebbe appassionato e diviso l’opinione pubblica italiana per anni. Quell’uomo, infatti, il 27 febbraio venne riconosciuto dalla signora Giulia Canella come suo marito Giulio, un professore di filosofia di Verona, scomparso in combattimento in Macedonia durante la guerra, nel dicembre del 1916.

Come tale lo smemorato fu quindi dimesso e riconsegnato ai familiari. Però pochi giorni dopo la polizia ricevette una segnalazione, da cui risultava che in realtà lo sconosciuto era Mario Bruneri, tipografo torinese, pregiudicato e ricercato per truffa, già condannato in contumacia a una pena di oltre quattro anni. L’informazione venne confermata dal confronto delle impronte digitali.

A questo punto lo smemorato tornò in manicomio ed ebbe inizio una lunga controversia nella quale le due famiglie si contesero l’uomo. Attorno al caso si polarizzò un’appassionata partecipazione popolare, equamente divisa tra “bruneriani” e “canelliani”.

Il 22 ottobre 1928 una prima sentenza del Tribunale di Torino, dopo ripetute perizie psichiatriche, sostenne che nei panni dello smemorato di Collegno si celava Mario Bruneri. Tale sentenza fu definitivamente confermata dalla Corte d’appello di Firenze il 1° maggio 1931.

CESARE LOMBROSO

Le teorie di Cesare Lombroso (Verona 1835 – Torino 1909) segnarono profondamente il pensiero medico e criminologico negli anni del positivismo. Laureato in medicina nel 1858, si arruolò come ufficiale medico e, dopo l’unità, partecipò a una spedizione contro il brigantaggio in Calabria, dove iniziò i suoi studi antropologici sui delinquenti.

Dopo un periodo di insegnamento universitario a Pavia, interrotto nel 1871-1872 dall’attività di direttore del manicomio di Pesaro, nella quale Lombroso si distinse per la battaglia in favore dell’istituzione dei “manicomi criminali”, intesi come ospedali speciali per i delinquenti malati di mente, vinse la cattedra di medicina legale a Torino, dove si trasferì nel 1876. In quell’anno pubblicò il Trattamento antropologico-sperimentale dell’uomo delinquente, in seguito riedito e tradotto in diverse lingue, accrescendo notevolmente la sua fama italiana e internazionale. Le teorie lombrosiane, basate in una prima fase su un esame quasi esclusivamente fisico e “morfologico” dei delinquenti volto a delineare le diverse “specie” devianti, divennero in seguito più complesse grazie alla maggiore attenzione prestata agli aspetti psicologici e sociali della personalità dei soggetti studiati, per influsso soprattutto dell’impostazione sociologica del socialista Enrico Ferri. I critici non gli perdonarono però alcune idee cardine delle sue dottrine, fra cui l’esistenza di un “tipo criminale”, originato da fattori degenerativi ereditari, l’identificazione fra epilessia e delinquenza congenita, la poca considerazione per i fattori ambientali. Dal 1880 Lombroso pubblicò l’Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali. Negli ultimi anni si iscrisse al PSI, occupando per un breve periodo la carica di consigliere comunale a Torino.