QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

IL MAXIPROCESSO CONTRO LA MAFIA

Il 10 febbraio 1986 aveva inizio a Palermo, in un clima di grande tensione, il “maxiprocesso” contro la mafia, che vedeva 456 imputati, accusati di far parte dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra. La Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfonso Giordano, pronunciò la sentenza dopo ventidue mesi di udienze e trentacinque giorni di camera di consiglio. Accogliendo la richiesta dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, furono condannati all’ergastolo tutti i componenti della “cupola”, il massimo vertice di Cosa nostra (da Michele Greco a Filippo Marchese, da Salvatore Riina a Bernardo Provenzano e a Pino Greco). Si registrarono, inoltre, complessivamente condanne a 2665 anni di carcere, multe per 11 miliardi e mezzo di lire; 114 assoluzioni con diverse formulazioni (tra gli altri, anche nei confronti di Luciano Liggio, in carcere dal 1974). Il maxiprocesso era stato condotto sulla base delle indagini del “pool” antimafia, il nucleo di magistrati costituitosi per affrontare in maniera organica i procedimenti che riguardavano la mafia. Il consigliere istruttore Antonino Caponnetto e i giudici istruttori Giovanni Falcone , Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, grazie alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, avevano sostenuto che Cosa nostra era un’organizzazione sostanzialmente unitaria, con una direzione rigidamente verticistica e piramidale. Secondo questa tesi i membri della “cupola” erano i mandanti responsabili di tutti i delitti commessi dall’organizzazione. Mentre il processo era in corso, all’interno delle cosche mafiose siciliane si realizzarono ampi processi di ristrutturazione, testimoniati dalla generale crescita del numero di delitti gravi: nel 1987, su 1154 omicidi volontari commessi in tutta Italia, nel 695 (oltre il 60%) vennero compiuti nelle tre regioni meridionali a più alta densità mafiosa, ossia la Campania, la Sicilia e la Calabria. La situazione si presentava ancora più grave considerando la crescente penetrazione e diffusione della criminalità organizzata non solo in altre regioni del Sud, come la Puglia, ma anche nell’Italia centrale e settentrionale.