QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

GIUSEPPE SARAGAT

Di origine sarda, Saragat nacque a Torino il 19 settembre 1898. Si laureò nel 1919 in scienze economiche e commerciali. Nel 1922 aderì al Partito socialista unitario e alla fine del 1926 espatriò, stabilendosi prima a Vienna, poi a Parigi. Da quel momento la sua vita fu strettamente intrecciata con le vicende del movimento socialista: fu uno dei fautori della riunificazione del 1930, sostenne il patto di unità d’azione col PCI del 1934 fino agli accordi tedesco-sovietici dell’estate 1939. Rientrato in Italia dopo la caduta del fascismo, subì insieme con Sandro Pertini una breve detenzione a Regina Coeli e fu liberato da partigiani socialisti. In seguito fu ambasciatore a Parigi e presidente dell’Assemblea costituente, carica che lasciò dopo aver guidato nel gennaio 1947 la scissione di Palazzo Barberini che diede vita al PSLI, poi PSDI. Collaborò quindi con la DC e gli altri partiti di centro, divenendo un protagonista della vita politica del paese.

Più volte ministro, Saragat fu candidato una prima volta alla presidenza della repubblica nel 1962 e fu sconfitto da Segni. Nel 1964 Saragat riuscì ad imporsi dopo il ritiro di Leone e Fanfani. Intorno al suo nome si coagulò il consenso dei partiti di centrosinistra e del PCI, del quale richiese esplicitamente i voti. Egli si caratterizzò come il presidente del centrosinistra, nel senso che, specie dal luglio 1968, vincolò i mandati per la costituzione dei governi alla realizzazione di coalizioni di centrosinistra.

Attribuì grande importanza alla fedeltà atlantica, scontrandosi talvolta, come nella guerra dei sei giorni del 1967, con le posizioni ufficiali del governo. Dopo il 1971 ritornò alla vita politica e fu, in delicati momenti della vita del PSDI, eletto segretario, anche se complessivamente ebbe un ruolo di secondo piano. Morì a Roma nel 1988.

PIERO GOBETTI

Nato il 19 giugno del 1901, da una famiglia contadina trasferitasi nella Torino di fine Ottocento, Piero Gobetti nel novembre del 1918, ancora diciassettenne faceva uscire il primo numero di “Energie nove”, rivista che già nel titolo racchiudeva l’intento programmatico di partecipare con giovanile irruenza al processo di ricostruzione civile, politica e morale che la conclusione del conflitto imponeva.

Nell’aprile del 1919 Gaetano Salvemini propose al giovane torinese di assumere la direzione del suo giornale, “L’Unità”. Nel corso del 1920 si consolidò il sodalizio con Antonio Gramsci. Gobetti iniziava a frequentare la redazione dell’ “Ordine nuovo” e, nel gennaio del 1921, quando il giornale divenne quotidiano, si vide affidare la critica drammatica e alcune collaborazioni letterarie. Nel febbraio del 1922 nasceva “La Rivoluzione liberale”. L’ambizione di questa impresa editoriale era quella di por mano alla ‘preparazione degli spiriti liberi, capaci di aderire, fuori dei pregiudizi, nel momento risolutivo, all’iniziativa popolare’: protagoniste della rinascita civile italiana sarebbero state le avanguardie operaie accompagnate e guidate da una élite intransigente e preparata. Nel 1923, accanto alla rivista si sviluppò l’azione di una casa editrice.

Come sfida al regime i libri recavano impresso il motto “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Ripetutamente arrestato, Gobetti fu bersaglio di costanti attacchi da parte della stampa filofascista e subì frequenti aggressioni, la più grave delle quali, nel settembre del 1924, lo fiaccò irreparabilmente. Nonostante ciò, continuò la sua infaticabile azione di organizzatore culturale. Negli ultimi giorni del 1924 usciva “Il Baretti”, nuova rivista, alla quale collaborarono Benedetto Croce, Emilio Cecchi, Leone Ginzburg, Eugenio Montale, Umberto Saba, Natalino Sapegno. “Il Baretti” voleva proporsi come un luogo dove estendere alla sfera culturale quella lotta che nelle pagine della “Rivoluzione liberale” si svolgeva sul terreno della politica. Ma era ormai vicino il tempo dell’esilio.

L’8 febbraio 1926 lasciò Torino e la famiglia. Appena giunto a Parigi si ammalò per i postumi dell’ultima grave aggressione aggravandosi rapidamente fino a morire pochi dopo, il 16 febbraio.

 

1820: LA RIVOLUZIONE SICILIANA

La fine dell’autonomia siciliana, nel 1816, e le riforme del ministro Luigi de’ Medici avevano suscitato un forte malcontento in molti ambienti siciliani. Soprattutto a Palermo, città privata delle sue funzioni di capitale, una crescente ostilità contro il governo napoletano accomunava nobiltà, ceto civile, borghesia impiegatizia e le masse di artigiani e operai organizzati in settantadue “maestranze”. La rivolta scoppiata a Palermo il 15 luglio fu una grande sollevazione popolare spontanea, promossa e diretta dalle corporazioni operaie e solo in un secondo tempo appoggiata dalla nobiltà separatista. Nobiltà e borghesia della città dovettero piegarsi alla pressione popolare. La giunta provvisoria di governo di Palermo, composta da nove esponenti della nobiltà e nove della borghesia, fu costretta ad accettare le richieste delle corporazioni: indipendenza della Sicilia, Costituzione spagnola, abolizione del servizio di leva obbligatorio, potere di veto da parte delle maestranze su tutti gli atti della giunta, riduzione delle tasse, difesa dei privilegi corporativi. Solo Agrigento, fra le città siciliane, si unì tuttavia alle rivendicazioni palermitane e una vera guerra civile si scatenò nell’isola quando bande armate attaccarono e saccheggiarono Caltanissetta, rimasta fedele a Napoli. I moderati e i democratici napoletani, convinti che la rivolta nascesse da un complotto dei baroni di Palermo, furono questa volta uniti nella volontà di reprimere la sommossa siciliana. La dura repressione, condotta dal generale Florestano Pepe, segnò non solo un profondo indebolimento della rivoluzione costituzionalista nel suo complesso, ma contribuì non poco al rafforzamento dello spirito separatista nella Sicilia occidentale.