QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

LA MATER ET MAGISTRA E LA PACEM IN TERRIS

Pubblicata nel settantesimo anniversario della Rerum novarum di Leone XIII, la Mater et magistra, pur ricollegandosi alla tradizione, costituiva un aggiornamento della dottrina della Chiesa alla luce dei nuovi problemi del mondo contemporaneo. L’enciclica di Giovanni XXIII era innovativa soprattutto in campo internazionale, dato che sottolineava la centralità del sottosviluppo in molti paesi ex coloniali e richiamava i paesi industrializzati a un impegno per il superamento degli squilibri dei paesi poveri nel rispetto della loro indipendenza. La Mater et magistra esprimeva inoltre solidarietà nei confronti delle classi lavoratrici, valutando positivamente la conquista di nuovi diritti. Il punto d’arrivo della linea pastorale di Giovanni XXIII fu la Pacem in terris, resa pubblica l’11 aprile 1963, che rivelava una straordinaria sensibilità per i problemi, le ansie e le aspettative del mondo contemporaneo e influì positivamente sul processo di distensione internazionale. Si rivolgeva a “tutti gli uomini di buona volontà”, indicava “i segni dei tempi” nell’ascesa delle classi lavoratrici, nel mutamento della condizione femminile, nella nascita di nuovi Stati nazionali, nel processo della democrazia e dei diritti dell’uomo e nella diffusione del convincimento che i conflitti internazionali andassero risolti per via negoziale e non con le armi. Affermava l’uguaglianza degli uomini e riconosceva il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero. Nell’ultima parte, dedicata ai “richiami pastorali”, giustificava la collaborazione tra credenti e non credenti, introducendo una distinzione tra errore ed errante e tra false dottrine e movimenti politici e sociali che a esse si ispirano, dato che questi, a differenza delle dottrine, si modificano e sono o possono divenire portatori di istanze giuste.

 

ACHILLE LAURO E IL LAURISMO

Il 13 febbraio 1958 il governo sciolse per gravi irregolarità amministrative il consiglio comunale di Napoli, insediando un commissario. Si poneva così fine al predominio dell’armatore Achille Lauro, sindaco fino a poche settimane prima, allorché si era dimesso per partecipare alle elezioni politiche. Nelle elezioni del giugno 1952 la lista delle destre apparentate, con Lauro capolista, aveva conquistato il 40% dei voti, cioè la maggioranza relativa, e la maggioranza assoluta dei seggi. Lauro, in virtù delle sue fortune private, sembrava allora poter garantire una fruttuosa e corretta gestione del denaro pubblico, ma, dopo essersi fatto notare per i metodi spregiudicati usati in campagna elettorale per accaparrarsi i voti, gestì in modo assai personalistico i 35 miliardi della legge speciale su Napoli, approvata dopo la sua ascesa in Comune. La sua giunta si caratterizzò negli anni successivi per l’impulso indiscriminato dato al settore edilizio, che stravolse il volto della città con la sistemazione urbanistica di piazza Municipio e del rione Carità e la costruzione del villaggio Lauro, e per l’uso propagandistico dell’assistenza pubblica. Fin dall’esercizio del 1954 il bilancio del Comune presentò un considerevole deficit, derivante anche dall’aumento spropositato dei dipendenti pubblici. Nelle elezioni del 1956, la maggioranza laurina ottenne il 51,7%. Lauro come sindaco di Napoli poté contare sull’acquiescenza della DC, che, fallita la legge elettorale maggioritaria nel 1953, aveva necessità in Parlamento dei voti monarchici. Il suo ruolo nazionale fu però indebolito dalla scissione monarchica del 1954, mentre fu accolta con preoccupazione l’affermazione della lista del “comandante” nelle regionali sarde del 1957. Dopo le elezioni del 1960 Lauro ritornò a capo dell’amministrazione napoletana con una debole maggioranza, ma il consiglio comunale fu nuovamente sciolto, e nel 1962 conquistò la maggioranza la DC di Silvio e Antonio Gava.

 

I MILLE

Non si è mai potuto stabilire con precisione il numero dei volontari al seguito di Garibaldi al momento dello sbarco a Marsala. L’elenco ufficiale, compilato nel 1878, comprendeva 1088 uomini e una donna, Rosalia Montmasson, la moglie di Francesco Crispi, ma sembra che il numero effettivo fosse leggermente superiore. Per la maggior parte le “camicie rosse” erano lombardi (434, fra i quali un nutrito gruppo di 180 bergamaschi); le altre regioni più rappresentate erano il Veneto (194), la Liguria (156, quasi tutti genovesi), la Toscana (78, in grande maggioranza livornesi), la Sicilia (45, in maggioranza palermitani). Pochi erano i piemontesi, sia per la scarsa tradizione insurrezionale del Piemonte sia perché molti dei possibili volontari erano già stati assorbiti nell’Esercito regolare del Regno di Sardegna. Dal punto di vista sociale i Mille (termine che entrò in uso assai più tardi) riflettevano la composizione delle forze della sinistra: per metà erano professionisti e intellettuali, per l’altra metà artigiani e operai delle città. Era totalmente assente la componente contadina, che pure rappresentava la grande maggioranza della popolazione italiana. La maggior parte dei garibaldini aveva alle spalle una lunga esperienza di militanza cospirativa: alcuni erano veterani della guerra del 1848 e della difesa di Roma e di Venezia, molti avevano combattuto con i Cacciatori delle Alpi nella II guerra d’indipendenza. Alla fine della campagna l’esercito garibaldino arrivò a contare quasi 50.000 uomini. Molti volontari, circa 20.000, che non avevano fatto in tempo ad arrivare a Genova al principio di maggio, raggiunsero Garibaldi in successive spedizioni, organizzate prevalentemente dal Partito d’azione mazziniano, tra maggio e settembre. Altri 25-30.000 erano meridionali che si posero al seguito di Garibaldi durante la marcia da Marsala a Teano. Molto scarso fu invece l’effetto della leva obbligatoria proclamata in Sicilia il 14 maggio, che segnò uno dei più gravi fallimenti di Garibaldi dittatore.

1842 - IL GIANNETTO

Pubblicato per la prima volta nel 1836, e riedito molte volte negli anni successivi, il Giannetto divenne il primo manuale scolastico largamente adottato nelle scuole elementari di tutta Italia. Autore era il pedagogista milanese Luigi Alessandro Parravicini (Milano 1800 – Vittorio, Treviso, 1880), direttore dal 1826 della scuola elementare di Como e incaricato dal 1837 al 1839 come professore di metodica e consulente della pubblica istruzione nel Canton Ticino. Dopo un viaggio nell’impero asburgico per studiare il funzionamento degli istituti tecnici, Parravicini venne chiamato nel 1842 alla direzione della scuola tecnica di Venezia dove rimase per tutta la vita e dove compose nel 1842 la sua opera più importante, il Manuale di pedagogia e di metodica. Il Giannetto è un libro per ragazzi in cui si espongono le nozioni elementari di storia, geografia, scienze naturali, igiene, macchine e mestieri, alternate con racconti edificanti. Giannetto, il narratore, è il bambino povero che riesce, con l’istruzione e la buona volontà, a imparare un mestiere e a diventare agiato. L’ideologia che stava dietro alle sue peripezie era quella dei liberali moderati toscani, convinti sostenitori della necessità di un’istruzione del popolo nel nome dei valori della famiglia, della proprietà e del lavoro e fautori di una modernizzazione dell’agricoltura nel rispetto della tradizione. Il libro di Parravicini diede origine a una lunga serie di Giannetti e Giannettini che culminarono, dopo l’unità, nelle figure infantili del celebre Cuore di Edmondo De Amicis.

GIOVANNI GRONCHI

Giovanni Gronchi nacque a Pontedera (PI) nel 1887. Laureatosi in lettera a Pisa, fu eletto deputato del Partito popolare nel 1919 e partecipò alla prima fase del governo Mussolini come sottosegretario all’industria. Durante il fascismo si ritirò a vita privata, dedicandosi ad attività industriali. Fu tra i fondatori della DC, rappresentandola nel Comitato di liberazione nazionale con De Gasperi. Ministro dell’industria fino al 1946, fu successivamente eletto presidente del gruppo parlamentare della DC e, dopo le elezioni del 1948, presidente della Camera. Esponente di punta della sinistra democristiana, Gronchi nel 1955 fu eletto presidente della repubblica nonostante l’opposizione della segreteria del suo partito e con il voto decisivo dell’opposizione di sinistra. Suscitò molto scalpore il suo primo messaggio alla nazione: si mostrava infatti aperto sostenitore della distensione internazionale e della coesistenza pacifica e affermava che nessun progresso è possibile senza la partecipazione di “quelle masse lavoratrici e quei ceti medi che il suffragio universale ha condotto sino alle soglie dell’edificio dello Stato, senza introdurle effettivamente dove viene esercitata la direzione politica”. Il suo esercizio della presidenza della repubblica suscitò in verità molte critiche, specie per il deciso interventismo politico. Fin dalla formazione del governo Segni, impose un suo fedele seguace, Fernando Tambroni, al ministero degli interni. Nel 1960 lo incaricò di formare un governo che, sostenuto dal MSI, suscitò una vivissima opposizione non solo delle sinistre e dei laici, ma anche di settori della stessa DC, sia in Parlamento sia nelle piazze. Cessato il mandato nel 1962, Gronchi, pur restando di diritto senatore a vita, si tenne in posizione defilata; aderì al gruppo misto del Senato.
Morì a Roma nel 1978.

VITTORIO EMANUELE II

Nato a Torino il 14 marzo 1820, Vittorio Emanuele II era salito al trono nel Regno di Sardegna il 23 marzo 1849, in seguito all’abdicazione del padre, Carlo Alberto, avvenuta sul campo di battaglia di Novara dopo la sconfitta piemontese nella I guerra d’indipendenza. Mantenne in vigore e difese lo Statuto albertino, rispettò i limiti concessi al sovrano dalla carta costituzionale e si guadagnò l’appellativo di Re galantuomo.

Pur essendo di sincera fede cattolica, sostenne negli anni Cinquanta la politica antiecclesiastica del governo piemontese e, nonostante i cattivi rapporti personali, assecondò la politica interna ed estera di Cavour. Nel marzo del 1861 fu proclamato primo re d’Italia. Trasferitosi con la corte da Torino a Firenze nel 1864, nel 1870, dopo la fine dello Stato Pontificio, si insediò nel Palazzo del Quirinale, a Roma.

Vedovo dal 1855 della regina Maria Adelaide di Asburgo-Lorena (con la quale si era unito in matrimonio nel 1842), sposò morganaticamente la popolana Rosina Vercellana, dopo averla creata contessa di Mirafiori. Dopo una breve malattia (diagnosticata dai medici di corte come una pleuro-polmonite con probabili complicazioni malariche), Vittorio Emanuele II morì a Roma il 9 gennaio 1878.

ANDREA COSTA

Nato a Imola (BO) nel 1851, Andrea Costa fece parte negli anni Settanta dei gruppi internazionalisti legati all’anarchico russo Michail Bakunin e collaborò a giornali di orientamento socialista come “Il Fascio operaio”. Arrestato a Bologna nel 1874 per il ruolo di spicco svolto nell’organizzazione dell’insurrezione dell’Italia centrale, preparata tra il 1873 e il 1874, dopo due anni di carcere emigrò a Parigi e qui venne a contatto con l’esule russa Anna Kuliscioff.

Lo stretto rapporto affettivo e intellettuale con la Kuliscioff, da cui Costa ebbe una figlia, esercitò su di lui una grande influenza politica, concorrendo a orientarlo verso il socialismo. Testimonianza del suo passaggio dall’anarchismo al socialismo e vero e proprio manifesto ideologico è la Lettera agli amici di Romagna, scritta dal carcere di Parigi (dove venne rinchiuso nel marzo 1878 a causa della sua partecipazione all’Internazionale per la quale fu amnistiato nel giugno 1879) e pubblicata sulla “Plebe” nell’agosto 1879. Tornato in Italia, fondò a Milano “La Rivista internazionale del socialismo” (1880) e a Imola il settimanale “Avanti!” (1881).

Vasta è la sua produzione pubblicistica, all’interno della quale ricordiamo Il 18 marzo e la Comune di Parigi del 1886 e Bagliori di socialismo del 1900. Primo deputato socialista a entrare in Parlamento (1882), quando morì, nel 1910 a Imola, era vicepresidente della Camera da due anni.

 

MASSIMO D’AZEGLIO E L’ETTORE FIERAMOSCA

Nato a Torino nel 1798, il marchese Massimo Taparelli d’Azeglio, dopo una giovinezza trascorsa a Roma, lontano dalla vita politica e dalle cospirazioni liberali, si era stabilito negli anni Trenta a Milano, dove era entrato in rapporto con gli ambienti romantici e in particolare con Alessandro Manzoni. Ottenuto l’incoraggiamento e la “inattesa approvazione” di Manzoni e di Tommaso Grossi, d’Azeglio nel 1833 pubblicò la sua rievocazione della celebre disfida di Barletta del 1503, per, come ebbe a dire egli stesso, “iniziare un lento lavoro di rigenerazione del carattere nazionale” e “mettere un po’ di fuoco nel corpo degli italiani”. Secondo i modelli della letteratura romantica, la storia degli eventi militari si intrecciava con la tragica storia d’amore di Ettore Fieramosca e di Ginevra, ma il romanzo era soprattutto teso a evidenziare il valore degli italiani e in particolare di Brancaleone e Fanfulla da Lodi. Ettore Fieramosca ebbe un grande e immediato successo soprattutto per l’esplicito richiamo ai valori d’un tempo e per l’implicito invito a mettere da parte “inimicizie sacrileghe e insensate” per liberare l’Italia dallo straniero. Massimo d’Azeglio divenne uno dei punti di riferimento più importanti della cultura e della vita politica italiana. Direttamente impegnatosi nella vita politica, pubblicò nel 1841 il nuovo romanzo storico Niccolò de’ Lapi, nel 1846 Degli ultimi casi di Romagna, sull’insurrezione di Rimini del 1845, nel 1847 Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana e, nel 1848, I lutti di Lombardia. Fu presidente del consiglio piemontese dopo la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza e successivamente commissario piemontese nelle Romagne e governatore a Milano.

Morì a Torino nel 1866 mentre era intento a scrivere I miei ricordi, una autobiografia che si arresta ai primi anni della sua attività politica.

1941 - RADIO LONDRA

Le trasmissioni di Radio Londra, che andavano in onda dopo la celebre sigla costituita dal segnale morse, composto da tre punti e una linea, corrispondente alla lettera V di “vittoria” ed evocativo del motivo di apertura della V sinfonia di Beethoven, iniziarono a essere indirizzate verso le nazioni soggiogate dall’occupazione nazista nell’autunno del 1939. Fin da quel momento, pur essendo l’Italia una nazione ancora non belligerante, venne costituita una redazione italiana. Il primo discorso rivolto al nostro paese fu letto il 22 dicembre 1939 dal colonnello Harold Stevens, che divenne poi una delle voci più note di Radio Londra. Con l’evolvere del conflitto l’impegno e le caratteristiche delle trasmissioni si modificarono: da un solo commento settimanale a cura del colonnello Stevens nel 1939 si passò nel 1940-1941 a una serie articolata di trasmissioni della durata di mezz’ora, mandate in onda più volte nel corso della giornata. Nel 1943 e 1944 furono realizzati due programmi di particolare importanza. il Fighters and workers programme (Programma per i combattimenti e i lavoratori), che ebbe come principale conduttore Umberto Calosso, veniva mandato in onda alle 6.30 e alle 17.30 per la durata di un quarto d’ora e dava notizie sulla situazione militare italiana, trasmettendo anche messaggi alle famiglie dei soldati fatti prigionieri. L’altra trasmissione, La voce di Londra, alle 16.30 e alle 22.30, mandava in onda per circa mezz’ora notiziari, commenti, sceneggiati radiofonici sui più importanti episodi del conflitto, interviste, ritratti di protagonisti politici e militari, messaggi speciali per le forze della resistenza.

Tra i collaboratori di Radio Londra impegnati nella conduzione delle varie rubriche vi furono Aldo Cassutto (un giornalista triestino che elaborava i testi del colonnello Stevens), Ruggero Orlando, Livio Zeno Zencovich, Umberto Limentani, Piero e Paolo Treves, Elio Nissim, John Joseph Marus (che, sotto le pseudonimo di Candidus, attaccava duramente le parole d’ordine della propaganda fascista).