QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

1822 - IL CONGRESSO DI VERONA

Fra l’ottobre e il dicembre 1822 si svolse a Verona il congresso degli Stati europei per discutere di vari problemi: la situazione italiana dopo i moti del 1820-1821, e in particolare la questione della successione di Carlo Alberto al trono di Sardegna, l’opportunità di un intervento militare in Spagna per reprimere i costituzionalisti, i problemi aperti dalla proclamazione dell’indipendenza della Grecia. Al congresso parteciparono principi e sovrani di tutta Europa, accompagnati da ministri degli esteri, ambasciatori e plenipotenziari. Visto che in Italia l’ordine era stato ristabilito, si decise per il progressivo ritiro delle forze austriache dal Piemonte e dal Napoletano, e furono respinte le proposte di Carlo Felice di escludere dalla successione al trono sabaudo Carlo Alberto, reo di aver ceduto alle pressioni dei costituzionali. Venne però richiesto a Carlo Alberto di dare prova di fedeltà all’assolutismo: la prova fu data dal principe nel 1823 nei combattenti di Cadice contro i costituzionalisti spagnoli. Cadde definitivamente, per l’opposizione delle altre potenze, anche il progetto austriaco di una lega degli Stati italiani sotto il controllo dell’Austria, e fu respinta, per l’opposizione dei rappresentanti pontificio e toscano, la proposta del duca di Modena di istituire un ufficio centrale di polizia politica con sede a Verona. Riguardo alla Spagna, il congresso affidò alla Francia il compito di reprimere militarmente l’insurrezione e di ristabilire l’ordine legittimista. Più complessa si presentava la questione greca, per la quale mancava un accordo fra le potenze, e per la prima volta, contro il parere dell’Austria e della Prussia, venne approvata la proposta di riconoscere, almeno in questo caso particolare, il diritto all’indipendenza nazionale, escludendo il principio di intervento.

 

IL PIANO SOLO

Il piano SOLO fu predisposto nel 1964 dal comandante dei carabinieri, il generale Giovanni De Lorenzo, già capo del SIFAR dal 1953 al 1962, e fu così chiamato perché prevedeva il solo intervento dei carabinieri qualora una grave crisi politica avesse richiesto misure straordinarie per la difesa dell’ordine.

Il 26 giugno, giorno delle dimissioni del governo Moro, sembrò a De Lorenzo che il piano dovesse scattare. Convocò a Roma i capi delle tre divisioni dell’Arma e consegnò loro le copie del piano SOLO e li pose in allerta, riservandosi di comunicare il momento dell’azione. I tre comandanti ricevettero anche gli elenchi degli “enucleandi”, cioè delle personalità da arrestare e trasferire in Sardegna. Il piano prevedeva l’occupazione delle grandi città e dei loro luoghi strategici e la repressione delle eventuali reazioni del paese. De Lorenzo era, nell’estate 1964, in stretto contatto con il Quirinale. Antonio Segni, contrario al centrosinistra, era dal canto suo visibilmente preoccupato per la crisi economica e manifestava timori per l’ordine pubblico, nel caso si fosse composto un governo senza il PSI. Ciò che accadde effettivamente nell’estate 1964 non è però stato mai chiarito. Il piano SOLO fu rivelato dall’Espresso nel maggio 1967. Nel corso del processo intentato contro il settimanale romano da De Lorenzo (divenuto dal 1968 deputato, prima del PDIUM poi del MSI) emersero le prime risultanze sul tentato golpe e sulle deviazioni del SIFAR, sebbene il presidente del consiglio Moro opponesse una serie di “omissis”, si rifiutasse cioè in nome della sicurezza dello Stato di consegnare intere parti dei documenti richiesti dai magistrati. Dopo le elezioni del 1968 si formò anche una commissione parlamentare d’inchiesta. Gli “omissis” sono stati tolti solo alla fine del 1990, anche se è rimasto coperto da segreto l’elenco degli “enucleandi” e non sono stati chiariti i legami del piano SOLO con un’altra vicenda oscura, quella di Gladio.

 

GIOACCHINO ROSSINI

1792
Nasce a Pesaro. Il padre, suonatore di tromba e di corno è un “pubblico trombettiere” (banditore) della città: da lui Gioacchino eredita esuberanza di carattere e musicalità.

1804
Compone sei Sonate a quattro per due violini, violoncello e contrabbasso. Entrato al Conservatorio di Bologna, compone la sua prima opera, Demetrio e Polibio, di genere serio.

1810
Inaugura la carriera facendo rappresentare La cambiale di matrimonio, di genere buffo.

1812-15
Scrive varie opere di successo, sia comiche (La pietra del paragone, Il signore Bruschino, L’italiana in Algeri), sia serie (Tancredi ed Elisabetta regina d’Inghilterra). La sua musica si afferma con sempre maggiore vigore.

1816
Compone l’opera seria Otello e quindi uno dei suoi capolavori, l’opera buffa Il barbiere di Siviglia.

1817-20
Rafforza il proprio successo con altre opere: Cenerentola (di genere comico) e La gazza ladra, (di genere semiserio). Continua a scrivere anche vere e proprie opere serie: Armida, La donna del lago, Mosè in Egitto e Maometto II.

1822-23
Si sposa con la cantante Isabella Colbran e scrive Semiramide, che rappresenta il culmine della sua concezione ancora settecentesca dell’opera seria, fatta di “pezzi chiusi” e di bel canto. Assiste al trionfo delle sue opere a Vienna, dove incontra Beethoven, e in Inghilterra. Conscio di aver saturato del tutto il mondo operistico italiano, si stabilisce a Parigi, dove rimarrà per tutto il resto della vita.

1826-28
Rimaneggia alcune opere italiane e le presenta in francese. Sempre in francese compone il melodramma giocoso Il conte Ory.

1829
Scrive il grand-opéra Guglielmo Tell, ma comprende di continuare ad avere del genere operistico una concezione classica e di non poter quindi accogliere del tutto le nuove idee del Romanticismo: dopo quel lavoro egli non si accosterà più al teatro.

1831
Viene colpito da una grave forma di esaurimento nervoso. Da allora in poi si limiterà a scrivere pezzi da salotto come le Serate musicali per voci e pianoforte e vari quaderni di brevi e scherzosi pezzi per pianoforte, con o senza voci, intitolati Peccati di vecchiaia (fra di essi abbondano titoli curiosi come Il mio preludio igienico del mattino, Studio asmatico, Uffa, i piselli!, Piccola polka cinese, ecc.).

1841
Termina uno Stabat mater, che aveva iniziato nel 1832.

1863-67
Compone una Piccola Messa Solenne per 12 solisti, due pianoforti e armonium.

1868
Muore a Parigi.

 

RICHARD WAGNER

1813
Nasce a Lipsia e studia, in buona parte da autodidatta, rivelando anche profondi interessi letterari e filosofici.

1833-35
Scrive le prime opere: Le fate e Il divieto d’amare mentre lavora come maestro del coro e come direttore d’orchestra in varie cittadine tedesche; si associa al movimento letterario della “Nuova Germania” nato per difendere e valorizzare la cultura nazionale.

1839
Una burrascosa traversata per mare per raggiungere Londra gli ispira il soggetto dell’opera L’Olandese volante.

1840
Termina la prima significativa opera: Rienzi.

1841
Si stabilisce a Parigi dove conduce una vita di stenti (fra l’altro, a causa dei debiti che non riesce a pagare, viene anche messo in prigione), riducendosi a trascrivere melodie da salotto.

1842
E’ maestro della cappella di corte a Dresda; qui scrive altre due opere: il Tannbauser ed il Lohengrin, entrambe ambientate nel Medioevo tedesco.

1849
Partecipa alla rivoluzione democratico-liberale di Bakunin, sale sulle barricate, scrive il saggio L’arte e la rivoluzione e viene presto ricercato dalla polizia. Fugge da Dresda e ripara prima a Weimar, da Liszt, e poi a Zurigo.

1850
Trova in Liszt un amico ed un sostenitore convinto: grazie a lui può veder rappresentato il Lohengrin. Incomincia a definire lo schema del suo imponente ciclo di quattro opere (da qui il nome di “Tetralogia”, dal greco tetra=quattro) intitolato L’anello del Nibelungo, ispirato alla mitologia nordica.

1854
Termina la prima opera della Tetralogia: L’oro del Reno.

1856
Termina la seconda opera della Tetralogia, La walchiria, e inizia la composizione della terza, Sigfrido.

1857-59
Interrompe la composizione della Tetralogia per scrivere Tristano e Isotta.

1864
Conosce il giovane re Luigi II di Baviera che lo toglie definitivamente dalle ristrettezze economiche in cui sino ad allora è vissuto. Grazie alla stima di questo monarca può farsi costruire a Bayreuth un teatro che risponda ai suoi nuovi intendimenti musicali e scenici.

1868
Presenta a Monaco i Maestri cantori di Norimberga, opera ispirata alle figure dei Meistersinger.

1874
Termina l’ultima opera della Tetralogia: Il crepuscolo degli dei.

1876
Viene inaugurato il teatro di Bayreuth con Sigfrido e Il crepuscolo degli dei: è il primo teatro nel quale l’orchestra è disposta più in basso del palcoscenico, in modo da non essere vista dal pubblico.

1882
Porta a termine la sua ultima opera, Parsifal.

1883
Muore improvvisamente a Venezia.

 

LE TERMOPILI

Il patto di alleanza tra Atene e Sparta, nella Seconda guerra persiana, assegnava agli Spartani il comando supremo dell’esercito, com’era naturale data la loro perfetta e collaudata preparazione militare.
Le truppe persiane, passato l’Ellesponto su un ponte di barche, attraversata la Tracia (da tempo territorio persiano) e la neutrale Macedonia, si preparavano a invadere la Grecia da Nord, appoggiate da mille navi che si dirigevano verso l’istmo di Corinto.

Di fronte a questo attacco a tenaglia, ai generali spartani parve indispensabile difendere l’istmo, dove concentrarono il massimo delle forze, mentre al confine settentrionale della Grecia si limitarono a inviare poche centinaia di soldati.

Questi si concentrarono in una gola montuosa, il passo delle Termopili, che i nemici dovevano necessariamente attraversare per invadere la Grecia, e che per i Persiani significava un difficile ostacolo. Essi cercarono quindi di aggirarlo con uno stratagemma: individuarono un soldato greco che, in cambio di denaro, rivelò l’esistenza di un passaggio segreto grazie al quale i Persiani piombarono da Sud alle spalle delle truppe spartane.

Il comandante Leonida aveva due scelte: arrendersi e finire prigioniero con i suoi uomini, o resistere con la sicurezza di essere comunque sconfitto, data l’eccezionale superiorità numerica dei nemici. Senza esitare decise per la resistenza, sia perché l’educazione ricevuta a Sparta faceva coincidere la resa con la vigliaccheria, sia perché, impegnando i nemici in battaglia, avrebbe dato ai suoi alleati più tempo per organizzare la difesa.

Decisi, quindi, ad affrontare morte sicura, i 300 uomini di Leonida si batterono con eroico coraggio e furono tutti uccisi.

 

GABRIELE D’ANNUNZIO

Nasce a Pescara nel 1863 da famiglia borghese; genio precoce, Gabriele D’Annunzio pubblica i suoi primi versi quando è ancora studente liceale a Prato. E altrettanto presto inizia a collaborare a riviste letterarie e mondane. L’artista ha importanza non solo per la storia della letteratura, ma anche per la storia politica e di costume; la sua fama di uomo raffinato, incline alle avventure sentimentali (tra cui la più celebre è quella con l’attrice Eleonora Duse) e ai gesti “eroici” varca i confini italiani.

Poeta e drammaturgo, rappresenta un importante aspetto del primo Decadentismo italiano ed europeo, quello più legato ai miti dell’Estetismo (“fare della vita un’opera d’arte”) e del Superomismo (“vivere una vita inimitabile”).

Partecipa attivamente alle vicende politiche italiane e nella sua vita non mancano gesti di vero coraggio. Dobbiamo ricordare che, scoppiata la prima guerra mondiale. D’Annunzio si schiera a favore dell’intervento e partecipa ad azioni di guerra di vasta risonanza quali “La beffa di Bucari” e il volo su Vienna, ma soprattutto l’occupazione della città di Fiume compiuta con un gruppo di volontari nel 1919.

Tra le sue opere ricordiamo: i romanzi Il Piacere, L’innocente, Il fuoco; le raccolte poetiche Primo vere, Laudi del cielo, del mare e della terra, Alcyone; le tragedie La città morta, La figlia di Iorio.

Nel campo degli argomenti e soprattutto delle forme espressive, sperimenta nuove strade e per questo ha grande influenza sul linguaggio poetico del Novecento. D’Annunzio, infatti, ricerca la raffinatezza dello stile, tende alla preziosità e musicalità del linguaggio e la sua arte è definita “estetizzante”.

Muore sole e quasi cieco nella sontuosa villa di Gardone, detta il Vittoriale degli italiani, nel 1938.

 

PIOTR ILIJC CIAIKOVSKI

1840
Nasce in Russia, in una cittadina dei monti Urali dove suo padre è ingegnere minerario. La madre, di origini francesi, lo avvia allo studio del pianoforte.

1850
Si trasferisce con la famiglia a San Pietroburgo e là per volere del padre frequenta una Scuola di Giurisprudenza.

1859
Trova un impiego presso il Ministero della Giustizia, ma sente che la sua vera vocazione è quella musicale.

1861
Inizia a frequentare i corsi della Società Musicale Russa di San Pietroburgo destinata a diventare l’anno seguente un vero e proprio Conservatorio.

1865
Si congeda dal Conservatorio musicando come saggio conclusivo l’Ode alla gioia di Schiller, già utilizzata, fra tanti, anche da Beethoven.

1866
Si trasferisce a Mosca per occupare una cattedra di armonia nel Conservatorio. Scrive la sua Prima Sinfonia, sottotitolata “Sogni d’inverno”.

1867
Entra in relazione con Milij Balakirev, il leader del “Gruppo dei Cinque” e viene da lui spronato a scrivere vari lavori, fra cui la “fantasia sinfonica” Romeo e Giulietta.

1875
Compone il Primo Concerto per pianoforte e orchestra.

1876
Scrive il balletto Il lago dei cigni

1877
Dopo il fallimento del suo matrimonio, conosce una ricca vedova, Nadeshda von Meck, dalla quale riceve stima, fiducia e sostegno economico: i due continueranno a frequentarsi quasi esclusivamente per via epistolare. Scrive la Quarta Sinfonia.

1878
Fa rappresentare l’Eugenio Onieghin e crea il suo unico Concerto per violino e orchestra.  Compie un lungo viaggio in occidente, visita fra l’altro Firenze e Roma, dove scrive il Capriccio italiano.

1885
Scrive il poema sinfonico Manfred.

1889
Crea il balletto de La bella addormentata.

1890
Compone e rappresenta l’opera La dama di picche.

1891
Inizia a comporre il balletto Lo schiaccianoci. Si reca in America per dirigere le sue musiche. Ma anche questo viaggio non lo libera dalle crisi depressive che lo hanno sempre assillato e che continuano a influenzare il carattere della sua musica.

1893
Muore a San Pietroburgo, poco dopo aver ultimato e presentato la Sesta Sinfonia intitolata “Patetica”.

 

THOMAS MANN

Nato a Lubecca nel 1875 da una famiglia dell’aristocrazia commerciale, dimostra precocemente un talento letterario. Alla morte del padre, nel 1891, la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera, dove Thomas frequenta gli ambienti artistici e collabora a diverse riviste. Nel 1901 pubblica il suo primo romanzo, I Buddenbrook, col significativo sottotitolo di Decadenza di una famiglia, e si impone all’attenzione del pubblico.

Scrive poi racconti, tra i quali ricordiamo Tonio Kroger e La morte a Venezia, e alcuni romanzi (La montagna incantata, Carlotta a Weimar e Doktor Faustus), oltre a una vasta produzione saggistica che lo rende uno dei maggiori intellettuali del Novecento. Nel 1929 gli viene infatti conferito il premio Nobel. Quattro anni più tardi, subito dopo l’ascesa al potere di Hitler, si reca all’estero per un giro di conferenze e decide di non rientrare in patria; nel 1938 si trasferisce negli Stati Uniti, per tornare soltanto nel 1952 in Europa, a Zurigo, dove muore tre anni dopo.

 

L’UOMO DI NEANDERTAL

L’Uomo di Neandertal è uno dei protagonisti della Preistoria in Europa.

Nel 1856 furono casualmente scoperti, in una valle della Germania che si chiama appunto Neandertal, un cranio e delle ossa che potevano essere attribuiti a un ominide della specie Sapiens. Studi accurati condotti anche su un centinaio di altri reperti molto simili (tra cui scheletri interi) permisero agli scienziati di individuare in quell’ominide caratteristiche fisiche così marcate da suggerirne la classificazione in una sottospecie separata: quella dell’Homo sapiens Neandertalensis.

L’Uomo di Neandertal era di statura inferiore a quella dell’uomo moderno. Il cranio era un po’ più grande del nostro, con la fronte bassa, il naso largo, il mento quasi assente, i denti sporgenti.

Per decine di migliaia di anni (da 200.000 a 35.000 anni fa) furono i Neandertaliani a popolare l’Europa e il Vicino Oriente, essendosi adattati a vivere in tutti i climi. Cacciatori nomadi, essi si cibavano soprattutto di carne e sapevano lavorare la pietra e il legno, con cui fabbricavano coltelli, raschietti e lance appuntite.

Di tutte le specie del genere Homo, quella di Neandertal fu la prima a seppellire i cadaveri ed è soprattutto per questo motivo che fra i suoi “contemporanei” l’Uomo di Neandertal può essere scelto come grande personaggio. Gli scheletri dell’Uomo di Neandertal sono stati trovati nelle caverne, rannicchiati (forse per poter scavare una fossa più piccola). Grazie a numerose testimonianze, gli studiosi hanno accertato che il rito funebre consisteva nel mangiare il cervello dei morti.

I Neandertaliani sparirono totalmente circa 30.000 anni fa, quando sul loro territorio furono sopraffatti da una nuova specie, quella dell’Uomo di Cro-Magnon (dalla località francese in cui nel 1868 fu rinvenuto il primo esemplare), già appartenente alla specie Sapiens Sapiens, molto più evoluto sia fisicamente sia culturalmente.

 

NICCOLO’ MACHIAVELLI

Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da una famiglia nobile, ma economicamente decaduta. Nel 1498 viene eletto Segretario della Repubblica, col compito di studiare i problemi amministrativi e politici; in questa veste si reca presso Luigi XII, poi presso il principe Cesare Borgia e l’imperatore Massimiliano d’Austria. Comincia a scrivere i suoi primi saggi sui sistemi di governo ed elabora le idee che sfoceranno nel suo capolavoro, Il Principe.

Quando i Medici tornano al potere, Machiavelli, a causa della sua partecipazione al governo repubblicano, viene mandato al confino, poi addirittura imprigionato e comunque allontanato dalla vita pubblica, cosa di cui soffre moltissimo.

Si dedica allo studio degli antichi e compone le sue opere più importanti: I Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, in cui discute il pensiero dello storico latino ed esprime considerazioni sulle forme di governo, Il Principe, e anche opere brillanti e scherzose, come la commedia La Mandragola.

I Medici infine riconoscono le sue capacità e gli attribuiscono uno stipendio come storico ufficiale: Machiavelli scrive le Istorie fiorentine che delineano in otto volumi la storia interna di Firenze. Ma il riavvicinamento ai signori di Firenze renderà impossibile la sua partecipazione al nuovo governo repubblicano che si afferma dopo l’espulsione dei Medici nel 1527. Machiavelli muore quello stesso anno lasciando la famiglia in gravi difficoltà economiche.

ITALO CALVINO

Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas, Cuba, nel 1923 e trascorre i primi vent’anni della sua vita a Sanremo, dove i genitori avevano fatto ritorno subito dopo la sua nascita. Conseguita la maturità classica si iscrive all’università e, nel 1943, partecipa alla resistenza nelle formazioni partigiane operanti in Liguria. Alla guerra partigiana dedica, nel 1947, il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Nel 1945 si trasferisce a Torino, lavora come redattore al quotidiano del Partito Comunista, “L’Unità”, e inizia la sua attività di consulenza editoriale presso la casa editrice Einaudi. Tra le sue numerose opere narrative, sono da ricordare: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Le cosmicomiche vecchie e nuove (1965, 1984), Le città invisibili (1972), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), Palomar (1983). Nel 1956 pubblica una raccolta di Fiabe italiane, trascritte dai dialetti di tutte le regioni; nel 1963 scrive un libro per ragazzi, Marcovaldo. Raccoglie inoltre in volumi numerosi interventi sul dibattito letterario contemporaneo (Una pietra sopra, 1980).

Morto nel 1985, Calvino ha lasciato incompiuta la scrittura di un ciclo di lezioni (Lezioni americane) che avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard. Le cinque “lezioni” già scritte costituiscono un testamento spirituale, nel quale si riafferma il valore della letteratura come forma di conoscenza.

GRAZIA DELEDDA

Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871. Frequenta fino alla quarta la scuola elementare poi, non essendoci altre scuole femminili, prosegue gli studi con lezioni private e come autodidatta. A diciassette anni pubblica il suo primo racconto su una rivista di moda, seguito, l’anno dopo, da una raccolta di novelle, Nell’azzurro (1890). Nel 1900 si trasferisce a Roma.

La produzione di Grazia Deledda è vastissima: spazia dai romanzi ai racconti, dalle raccolte di poesie agli articoli per riviste e giornali. Scrive con metodo pubblicando uno o due libri l’anno.

Dopo le prime opere, che risentono molto dell’influenza dei grandi maestri del romanzo europeo (Balzac, Dumas, Hugo, Dostoevskij ma anche Manzoni, Verga, De Amicis), la Deledda trova con il romanzo Elias Portulu  (1903) e coi successivi sia il riconoscimento di un gran numero di lettori, sia l’attenzione e l’interesse dei critici letterari. Tra i titoli di questo periodo fortunato: Cenere (1904), L’edera (1906), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915).

Nelle vicende di questi romanzi prevalgono le figure femminili, fedeli, passionali, devote fino al sacrificio, impegnate nel tentativo di cambiare il corso del destino e di sfuggire alla corruzione del mondo moderno. Insieme a queste caratteristiche, un’altra qualità della Deledda è la capacità di collegare il carattere dei personaggi agli elementi della natura e del paesaggio, che è quello aspro della nativa Sardegna.

Nel 1926 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore a Roma nel 1936.

 

ULISSE - UMBERTO SABA

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

 

OSCAR WILDE

Oscar Wilde nasce a Dublino nel 1854, e qui cresce, in un ambiente colto e spregiudicato. Conclusi gli studi a Oxford, il suo ingegno brillante, i suoi successi letterari e le sue pose eccentriche e provocatorie lo impongono presto come una delle personalità dominanti nei circoli artistici e nei salotti mondani di Inghilterra e Francia. Vive infatti tra Parigi e Londra, compiendo frequenti viaggi in Italia, Grecia e Nordafrica.

Le sue esperienze letterarie si mescolano a una vita che egli stesso considera un’opera d’arte: egli si pone come un grande esponente dell’Estetismo, della corrente del Decadentismo che considera la bellezza un valore fondamentale della vita umana. Scrive poesie, favole, racconti, saggi e una serie di brillanti commedie di polemica sociale; ma la sua opera più nota è Il ritratto di Dorian Gray, del 1891, che diventa subito una sorta di vangelo del Decadentismo e dell’Estetismo. Dopo essere stato l’idolo ricercatissimo della classe dirigente, viene processato e condannato per condotta immorale a due anni di lavori forzati.

Muore in Francia nel 1900, in miseria e abbandonato da tutti.

 

A ZACINTO - PARAFRASI

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
E io non toccherò mai più la terra sacra (per la nascita di Venere) dove il mio corpo di bambino stette disteso, o mia Zacinto, che ti rifletti nelle acque del mar Ionio dalle quali nacque, pura.
   
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
Venere, che rese fertili quelle isole col suo primo sorriso, per cui non poté non lodare le tue nubi estive e la tua vegetazione il verso famoso di Omero (colui) che le peregrinazioni per mare
   
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
volue dal fato celebrò e l’esilio in terre diverse, grazie al quale, famoso per la sua gloria ma anche per le sue disavventure, Ulisse poté tornare a baciare la sua aspra Itaca.
   
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
Tu non avrai altro che i versi del tuo figlio, o terra che mi hai dato la vita; per me stabilì il destino una tomba su cui nessuno potrà piangere (perché lontana dalla patria).

PRIMO LEVI

Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una ricca famiglia ebrea di tradizioni intellettuali. Nel 1941 si laurea in chimica nonostante l’ostacolo delle leggi razziali. Dopo l’8 settembre 1943, la disfatta dell’esercito italiano e l’occupazione nazista dell’Italia, Levi aderisce a una formazione partigiana di “Giustizia Libertà”, ma viene arrestato dalla milizia repubblichina. Consegnato ai tedeschi viene deportato ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Sopravvissuto la lager, viene liberato nel gennaio del 1945 dall’Armata Rossa e, per quasi un anno, è al seguito delle truppe sovietiche in un’odissea che lo conduce lungo un itinerario impazzito per tutta l’Europa orientale. Soltanto nell’ottobre del 1945 riesce a tornare a casa.

Esordisce nel 1947 con Se questo è un uomo, testimonianza della prigionia patita nei campi di concentramento nazisti e della lotta per la sopravvivenza, non solo fisica ma anche della propria dignità di uomo. Il romanzo successivo, La tregua (1963, premio Campiello) dà una descrizione del ritorno alla vita dopo quell’atroce esperienza. Pubblica in seguito altri romanzi, saggi, raccolte di poesie (Osteria di Brema, 1975; Ad ora incerta, 1984) e numerosi racconti.
Muore suicida nel 1987.

Il nome di Primo Levi è principalmente legato alla testimonianza degli orrori della guerra e dell’olocausto contenuta nelle celebri pagine di Se questo è un uomo. La riflessione sull’atroce esperienza del lager ritorna però anche in altre opere di questo autore, da Se non ora quando (1982) a I sommersi e i salvati (1986), intrecciandosi con una lucida analisi e critica della società contemporanea. Fra le tante opere di Levi ricordiamo: Il sistema periodico (1975), dove i vari elementi chimici vengono utilizzati come spunto per raccontare la formazione morale e civile di un giovane ebreo, e La chiave a stella (1978), celebrazione della professionalità di un operaio raccontata come esempio di una scelta di grande rigore morale.

ELSA MORANTE

Elsa Morante nasce a Roma nel 1912. Impara da sola a leggere e scrivere senza frequentare la scuola elementare; terminati gli studi liceali, abbandona la famiglia vivendo di lezioni private e di collaborazioni a riviste culturali. Da quell’esercizio giornalistico nasce il primo volume di racconti, Il gioco segreto, che esce nel 1941, contemporaneamente alla favola Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina. Nello stesso anno sposa lo scrittore Alberto Moravia da cui si separerà nel 1962. L’opera che l’ha imposta all’attenzione della critica è Menzogna e sortilegio (1948, premio Viareggio), in cui si narra la decadenza di una famiglia gentilizia del sud, attraverso la ricostruzione che ne fa una giovane donna sempre rinchiusa nella sua stanza.

Il tema della solitudine torna nel romanzo L’isola di Arturo (1957), storia della difficile maturazione di un ragazzo che vive come segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, all’ombra del grande penitenziario. Dopo la raccolta di versi Alibi (1958) e i racconti dello Scialle andaluso (raccolti in volume nel 1963), il libro che ha segnato una svolta nella poetica della scrittrice è Il mondo salvato dai ragazzini (1968): articolato in poesie, poemi, canzoni, è dedicato ai fanciulli e agli adolescenti, gli unici, secondo la Morante, capaci di “credere che il mondo è proprio come appare”. Nel 1974 pubblica La storia.

L’ultimo suo romanzo, Aracoeli, pubblicato nel 1982, descrive le vicende esistenziali di un personaggio alla ricerca delle proprie origini attraverso la memoria della figura materna.

Muore a Roma nel 1985.

I MALAVOGLIA DI GIOVANNI VERGA

Quando appare, nel 1881, il romanzo di Verga venne accolto male dal pubblico e dalla critica, incapaci di capirne la novità tematica ed espressiva. Il Verga parla di “fiasco pieno e completo” a Luigi Capuana che gli risponde: “I Malavoglia non sono un fiasco, il fiasco lo fa il pubblico e la critica che si ricrederanno presto come accade sempre coi lavori che escono dalla solita carreggiata! Per me i Malavoglia sono la più completa opera d’arte che si sia pubblicata in Italia dai Promessi Sposi in poi”.

Le caratteristiche
Nei Malavoglia il Verga fa uso di un punto di vista che permette al narratore di “scomparire”, lasciando che i fatti quasi si producano da sé. Lo scrittore, cioè, evita di esprimere le proprie posizioni ideologiche e morali sulle vicende; anche la lingua e la sintassi riflettono l’ambiente rappresentato. Lo scopo è quello di calare il lettore nella comunità di Acitrezza, i cui principi sono la morale “dell’ostrica” (cioè la necessità di rimanere “attaccati” a ciò che si conosce), la “religione della famiglia” e la “vaghezza dell’ignoto” (il mondo punisce chi spezza i vincoli con la comunità).

La trama
I Toscano, detti “Malavoglia”, pescatori di Acitrezza, possiedono una casa e una barca, la “Provvidenza”. Padron ‘Ntoni, il vecchio capofamiglia, padre di Bastianazzo che a sua volta ha cinque figli, compra un carico di lupini da vendere altrove; ma la barca fa naufragio, Bastianazzo muore e i lupini vanno perduti. Per i Malavoglia è l’inizio di una serie di sventure: per pagare il debito bisogna vendere “la casa del nespolo”; Luca, il secondogenito, cade nella battaglia di Lissa e la vedova, Maruzza, muore vittima del colera. ‘Ntoni, il figlio maggiore, si dà al contrabbando e finisce in galera, e anche la sorella più piccola, Lia, compromessa per le voci che circolano su una sua presunta relazione con don Michele, il brigadiere delle guardie doganali, fugge di casa (si saprà poi che è diventata una prostituta); mentre la sorella maggiore, Mena, a causa delle difficoltà economiche non potrà sposarsi con compare Alfio. Con la morte di Padron ‘Ntoni la famiglia è smembrata, anche ‘Ntoni lascerà il paese. Resterà, per riscattare la casa del nespolo e continuare il mestiere del nonno, il più giovane dei fratelli, Alessi.

CESARE PAVESE

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, Cuneo, da una famiglia piccolo-borghese di origini contadine. Orfano di padre dall’età di sei anni, riceve dalla madre un’educazione austera. Mettendo a frutto i suoi studi di letteratura inglese, dopo la laurea si dedica a un’intensa attività di traduttore e nel 1934 diviene direttore della rivista “Cultura”. Condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al Partito Comunista, trascorre un anno a Brancaleone Calabro, dove inizia il diario, Il mestiere di vivere, edito postumo nel 1952. Tornato a Torino, pubblica la sua prima raccolta di versi, Lavorare stanca (1936), quasi ignorata dalla critica; continua a tradurre scrittori inglesi e americani (Melville, Dos Passos, Defoe) e collabora attivamente con la casa editrice Einaudi. Alla fine della guerra si iscrive al Partito Comunista e pubblica sul quotidiano “L’Unità” I dialoghi col compagno (1945). Aveva già esordito come narratore con i romanzi Il carcere e Paesi tuoi (1941), opere di carattere autobiografico, che già evidenziano alcuni temi – la solitudine, il “proprio” paese – che saranno tipici di tutta la sua produzione. Nei romanzi del dopoguerra (Feria d’agosto, 1946; Il compagno, 1947; La casa in collina, 1948; La bella estate, 1949; La luna e i falò, 1950) l’osservazione minuta della realtà si accompagna ai temi del contrasto città-campagna, della solitudine e dell’incomunicabilità metropolitana, contraddizioni che rimandano ai valori fondamentali dell’esistenza: primo fra tutti la ricerca delle proprie radici nel ritorno alla terra. Se il riconoscimento ufficiale della critica giunge finalmente a Pavese con il premio Strega, assegnatogli nel 1950, la depressione, dovuta al suo carattere fragile e introverso, oltre che a varie difficoltà nei rapporti con gli altri, spinge lo scrittore al suicidio, avvenuto a Torino, nell’agosto del 1950.

UMBERTO SABA

Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883. La madre, ebrea, viene abbandonata dal marito prima della nascita del figlio; Saba conosce il padre solo da adulto ma ne rifiuta il cognome scegliendone uno in omaggio alla madre (“saba” significa “pane” in ebraico). Senza aver terminato gli studi, lavora come praticante in una casa di commercio triestina e anche come mozzo su un mercantile. Presta servizio militare durante la prima guerra mondiale, ma senza mai andare al fronte. La sua prima raccolta di poesie è del 1911. Dopo la guerra diventa proprietario di una libreria antiquaria, che costituisce per lui un rifugio ma anche un mezzo di sostentamento e di tutela della propria attività di scrittore. Nel 1921 pubblica presso la sua “Libreria antica e moderna” il Canzoniere.

Parallelamente al crescere della sua fama peggiorano le sue condizioni psichiche, già da anni minate dalla nevrosi, tanto da spingerlo a sottoporsi a intense cure psicoanalitiche. Con la promulgazione delle leggi razziali, Saba è costretto a rifugiarsi prima a Parigi, poi a Firenze, dove Montale e altri intellettuali antifascisti lo proteggono. Vengono pubblicate nel frattempo altre sue raccolte, destinate a ottenere i massimi e unanimi riconoscimenti della critica. Ma la fama non lo aiuta a vincere le crescenti crisi depressive, che lo costringono a un pressoché totale isolamento.
Muore a Gorizia nel 1957.
Saba ha scritto anche un romanzo incompiuto, Ernesto (scritto nel 1953, ma edito soltanto nel 1975).

VITA PRIVATA DI AUGUSTO

Giulio Cesare non aveva figli maschi: perciò adottò il pronipote Ottaviano che, essendo nato a Roma nel 63 a.C., non aveva neppure vent’anni quando il padre adottivo fu assassinato. Da lui, Ottaviano ereditò un patrimonio enorme, di cui si servì anche per eliminare prima i nemici di Cesare, poi i propri, sino a rimanere, nel 31 a.C., padrone assoluto di Roma.

Il termine “Roma”, sinonimo di Impero romano, indicava allora un territorio estesissimo che comprendeva l’Europa occidentale e centrale, la penisola balcanica, il Vicino Oriente e l’Africa settentrionale. Il potere che a Ottaviano (ormai “Augusto”) derivava da questo dominio era praticamente illimitato: ma egli seppe esercitarlo con saggezza, senza opprimere le popolazioni sottomesse, anzi, valorizzandole per tutto ciò che costituiva l’identità di ciascuna.

La determinazione con cui Augusto liquidò i rivali era la medesima che applicò alla propria vita privata. Giovanissimo, aveva sposato Scribonia, da cui divorziò il giorno in cui nacque la sua unica figlia, Giulia; ma a 25 anni s’innamorò di Livia Drusilla, che apparteneva all’oligarchia senatoria sia per nascita sia per matrimonio, avendo sposato il senatore Claudio Nerone. Livia aveva già un figlio, Tiberio, e ne aspettava un altro, quando conobbe Augusto, il quale riuscì a farla divorziare e a ottenere uno speciale permesso per le nuove nozze.
Fu un matrimonio lungo (52 anni, sino alla morte di Augusto avvenuta nel 14 d.C.) e fortunato, ma senza figli, che Augusto avrebbe invece voluto anche per risolvere il problema della successione: infatti il comportamento scandaloso di Giulia costrinse il padre, che aveva fatto approvare leggi molto severe per quanto riguardava la morale pubblica e privata, a mandarla in esilio nell’isola di Ventotene, dove la donna morì ben presto.
All’allontanamento di Giulia non fu estranea l’ambiziosa Livia, che intendeva realizzare un piano preciso: poiché Roma in sostanza era divenuta una monarchia, dove il potere si trasmette per via dinastica, Augusto avrebbe potuto designare come successore uno dei suoi due figli. Ma Druso, che Augusto ammirava e apprezzava, morì molto giovane, e Tiberio non piaceva al patrigno per il carattere difficile e ombroso.
Tuttavia il rispetto e la considerazione che Augusto nutriva per la moglie erano tali che egli ne accettò il suggerimento, e dieci anni prima di morire adottò Tiberio, ormai quarantaseienne.
Durante il lungo regno, Augusto, benché abile stratega (come si era rivelato tra il 44 a.C. e il 31 a.C.), non partecipò quasi mai alle campagne di guerra, delegandole ai suoi generali come per sottolineare la sua estraneità ai conflitti e, al contrario, il suo impegno nell’edificare la pace.
Quando egli ancora era in vita, furono erette più di 80 statue per celebrare la sua gloria; quando morì, fu sepolto con grandissimi onori nella gigantesca tomba che lui stesso si era fatto costruire molti anni prima, il Mausoleo che ancora oggi si ammira non lontano dal Tevere.

 

ROBERT SCHUMANN

1810
Nasce in Germania. Il padre è un celebre editore ed il giovane Robert cresce in un ambiente che favorisce il suoi interessi non solo musicali, ma anche letterari.

1828
Per desiderio della madre si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, ma nel contempo studia pianoforte sotto la guida di Friedrich Wieck, di cui conosce la figlia, Clara, sua futura moglie.

1830
Ottiene le prime affermazioni come pianista e decide di abbandonare gli studi all’Università per dedicarsi completamente alla musica.

1831-32
Vedono la luce le prime notevoli composizioni per pianoforte: Papillons op.2, Intermezzi op.4, trascrizioni pianistiche dai Capricci di Paganini. La ricerca di una sempre maggiore agilità tecnica al pianoforte lo induce a sperimentare uno strumento col quale aumentare l’articolazione delle dita: l’espediente provoca all’arto un’infiammazione cronica tale da stroncare le sue ambizioni di virtuoso.

1834
Fonda il “Nuovo Giornale di Musica” sul quale può dibattere problemi e discutere quanto di nuovo viene prodotto dai colleghi contemporanei. Si innamora di Clara Wieck, ma questa relazione è ostacolata dal padre di lei: la ragazza è una promettente pianista e il padre teme che il matrimonio le precluda questa strada (non sarà così: una volta sposata con Schumann, nel 1840, Clara riuscirà ugualmente ad affermarsi come concertista).

1835
Entra in amicizia con Felix Mendelssohn Bartholdy. Termina la stesura di Carnaval.

1840-43
Scrive numerosi Lieder, una Prima Sinfonia, denominata “Primavera” e vari lavori cameristici (Quartetti op. 41, Quintetto con pianoforte op. 44, ecc.).

1844
Scrive le Scene dal Faust di Goethe. La sua salute mentale incomincia a farsi precaria e lo costringe a lasciare la direzione della sua rivista.

1846-48
Porta a termine la Seconda Sinfonia e riscuote un buon successo a Praga con il suo unico Concerto per pianoforte e orchestra. Scrive le musiche di scena per il Manfred di Byron.

1850-51
Viene nominato direttore dei concerti a Düsseldorf. Scrive la Terza Sinfonia, soprannominata “Renana”, e la Quarta.

1853-54
Diviene amico di Brahms. La sua salute psichica è sempre più compromessa; tenta il suicidio gettandosi nel Reno, ma viene salvato da alcuni pescatori. Viene internato in una casa di cura a Endenich.

1856
Muore a Endenich.

ISAAC NEWTON

Isaac Newton nacque nel 1642 in un piccolo villaggio del Lincolnshire, in Inghilterra. A dodici anni il giovane Newton, per frequentare la scuola che si trovava distante, prese alloggio presso un farmacista. Questi incoraggiò il ragazzo nel suo “hobby” preferito: costruire con le proprie mani modellini di vari oggetti. Newton era talmente dotato da riuscire a costruire una riproduzione funzionante di un mulino a vento, oltre a orologi ad acqua, meridiane, aquiloni, lanterne e altro.

Frequentò l’Università di Cambridge, dove si laureò nel 1665, anno in cui, a causa di una terribile epidemia di peste, si dovette ritirare in campagna per circa diciotto mesi. Durante questo periodo Newton gettò le basi di tutte le sue scoperte più importanti.
Tornato a Cambridge nel 1667, come docente di matematica, si dedicò al tempo stesso a studi di ottica, costruendo con le proprie mani tutto quanto gli occorreva (lenti, prismi ecc.). A questo periodo risale la scoperta che la luce bianca contiene tutti i colori dell’arcobaleno.

Nel 1687 fu pubblicata la sua opera più importante, scritta in latino, i Principia (il titolo completo è Phylosophiae Naturalis Principia Mathematica, cioè “Principi matematici della filosofia naturale”, nome con cui all’epoca veniva definita la fisica). A giudizio di molti scienziati si tratta del più grande testo scientifico che sia mai stato scritto.

In esso Newton enuncia le leggi del moto e della gravitazione universale, fornisce la dimostrazione matematica delle leggi di Keplero che descrivono le orbite dei pianeti intorno al Sole, elabora le leggi del pendolo, descrive i movimenti dei corpi, i moti dei satelliti di Giove e di Saturno, i moti della Luna, spiega come calcolare la massa del Sole e dei pianeti partendo dalla massa della Terra (calcola tra l’altro la densità media della Terra che egli dice compresa tra 5 e 6 grammi per centimetro cubo, avvicinandosi molto al valore reale); giunge anche alla conclusione che la Terra debba essere appiattita ai poli e leggermente rigonfia all’equatore, spiega il fenomeno delle maree sostenendo che sono prodotte dell’attrazione combinata del Sole e dalla Luna.

Nel 1704 pubblicò in inglese la sua grande opera sulla luce, Opticks, nella quale descrisse il comportamento della luce, ricorrendo a molti esperimenti, e spiegò i colori dei corpi illuminati e dell’arcobaleno.

Nel 1711 pubblicò Analysis, un trattato di matematica sul calcolo differenziale.

Morì nel 1727. Venne sepolto all’interno dell’Abbazia in Westminster e gli fu eretto un imponente monumento. Newton è riconosciuto ancora oggi come uno dei più grandi geni dell’umanità e viene considerato il vero fondatore della scienza moderna.

 

NAPOLEONE BONAPARTE

Napoleone Bonaparte (fu lui a trasformare il cognome in Bonaparte, più facile da pronunciare per i francesi), nacque nel 1769 ad Ajaccio, in Corsica, l’isola che l’anno precedente era stata ceduta alla Francia dalla Repubblica di Genova.

Suo padre era un avvocato tutt’altro che ricco; la madre, Letizia Ramolino, dedicava tutte le energie all’allevamento degli otto figli.

Il secondogenito Napoleone a soli 10 anni fu inviato a studiare in Francia grazie a una borsa di studio. La sua formazione si realizzò nel collegio militare di Brienne, dove il ragazzo si mise in luce per l’eccezionale attitudine allo studio dell’arte militare e per la prodigiosa memoria.

Superato brillantemente l’esame finale, Napoleone passò alla scuola militare di Parigi. Anche qui si distinse al punto che a soli 16 anni fu nominato sottotenente: l’incarico gli rendeva un sia pur misero stipendio mensile, che egli inviava alla madre, nel frattempo rimasta vedova.

Allo scoppio della Rivoluzione prestava servizio col suo reggimento a Auxonne, ma compì la prima azione militare di rilievo durante l’assedio di Tolone: in questo porto del Mediterraneo era scoppiato un moto controrivoluzionario, e gli abitanti avevano chiesto l’aiuto della flotta inglese (1793). Per espugnare la città, il giovane sottotenente suggerì una tattica, imprevedibile per i nemici, che faceva largo uso dell’artiglieria. Il successo dell’impresa contribuì ad accelerare la sua carriera: fu nominato generale di brigata a 24 anni.

Nel 1795 represse a cannonate l’insurrezione dei monarchici che volevano abbattere la Convenzione, intervento che gli valse la riconoscenza di Barras, un influente membro del Direttorio. Costui, anche per intercessione della bella Giuseppina Beauharnais, donna del gran mondo, affidò a Bonaparte il comando dell’armata d’Italia. Giuseppina e Napoleone si sposarono il giorno prima che egli partisse per l’Italia: la donna vide soddisfatta la sua ambizione quando, pochi anni più tardi, il marito la incoronò imperatrice dei Francesi.

Il matrimonio durò sino al 1810: in quell’anno Napoleone, nella doppia speranza di avere un erede e di ottenere la neutralità dell’Austria, sposò Maria Luigia d’Asburgo, dalla quale ebbe effettivamente un figlio, Napoleone II, soprannominato “L’Aiglon” (“L’Aquilotto”, nomignolo affibbiatogli dai nemici del padre, in contrapposizione all’aquila simbolo del potere di Napoleone), che morì giovane.

Gli ultimi anni di Napoleone furono tragici: la ritirata di Russia, la sconfitta di Lipsia, il disastro di Waterloo, l’esilio, contribuirono forse alla sua morte precoce.

 

IL ROMANZO SOCIALE

Il romanzo sociale dà particolare risalto alla rappresentazione dei costumi della società che fa da sfondo alla vicenda narrata. Questo tipo di romanzo, pertanto, si propone di delineare un quadro realistico della società del tempo evidenziando, in particolar modo, i mali, le ingiustizie, le tristi e dolorose condizioni di vita delle classi più povere.

Ambientata in una precisa epoca storica, quella contemporanea all’autore, la vicenda narrata è per lo più caratterizzata da un intreccio ricco, mosso, carico di tensione. I fatti e i personaggi, che presentano sempre uno stretto rapporto con l’ambiente sociale in cui rispettivamente accadono e vivono, sono generalmente raccontati e descritti in terza persona da un narratore esterno.

Dal punto di vista linguistico, il romanzo sociale utilizza una prosa scarna, asciutta, oggettivo-realistica con frequente ricorso a termini o espressioni popolari, gergali o dialettali, per riprodurre i modi del parlato.

Il romanzo sociale, nato nella prima metà dell’Ottocento con le opere dello scrittore francese Honoré de Balzac, che ne può essere considerato il creatore, e con quelle del famoso scrittore inglese Charles Dickens, ebbe larga diffusione anche nella seconda metà dell’Ottocento con le opere di Emile Zola e nel Novecento, in particolare con i romanzi di Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi nei quali affiora chiaramente l’intento di denuncia politica e morale nei confronti di determinati fenomeni sociali.

 

ALESSANDRO MAGNO

Alessandro nacque dal matrimonio di Filippo II con la principessa Olimpiade. Non era che uno dei numerosi figli del re macedone, ma l’unico legittimo: il padre lo allevò nella prospettiva che gli succedesse sul trono, da una parte abituandolo a esercitare il potere, dall’altra procurandogli il miglior maestro che il mondo greco potesse offrire, il grande filosofo Aristotele. Perciò nella personalità del giovane erano presenti al tempo stesso una certa crudeltà barbarica e un profondo rispetto per la cultura, come risultò evidente quando distrusse completamente Tebe, lasciando intatta solo la casa del famoso poeta Pindaro.

Legatissimo alla madre, Alessandro ne prese le parti quando Filippo la lasciò per sposare un’altra donna, e si narra che fosse d’accordo con Olimpiade quando questa fece strangolare il marito durante una banchetto. Secondo la tradizione, Alessandro era bello, biondo, chiaro di carnagione, con un occhio azzurro e uno nero. Coltissimo, da ragazzo sognava di portare ai popoli dell’Oriente la civiltà greca di cui era fervido ammiratore; ma quando divenne re, quell’aspirazione divenne prima sete di conquista, poi culto di sé, al punto che pretendeva di essere adorato come un dio.

Durante i dieci anni della guerra di conquista in Asia, il progetto di Alessandro si trasformò: ammaliato da quelle culture, volle creare un unico immenso Stato, dalla forte impronta orientale. Egli impose il proprio dominio, ma al tempo stesso incoraggiò le diverse popolazioni a mantenere la loro identità. Allo scopo di fondere il mondo greco con quello persiano, lui stesso sposò prima Rossana, principessa di una lontana regione asiatica, poi Statira, figlia dell’imperatore Dario. In occasione di quest’ultimo matrimonio, pretese che fosse celebrato anche quello di 80 suoi ufficiali con altrettante giovani aristocratiche persiane.

Fondato il nuovo impero, Alessandro, stimolato dall’ansia di conoscere, si spinse con i suoi uomini nelle terre più lontane mai raggiunte dagli Occidentali: con intuizione veramente moderna, diede ordine al suo ammiraglio Nearco, che compiva lo stesso percorso navigando lungo le coste dell’Oceano Indiano, di annotare usi e costumi delle genti locali.

La morte precoce di Alessandro contribuì a farne un mito: l’audacia senza limiti, l’energia estrema, la volontà di superare ogni orizzonte, lo resero una figura inimitabile.

SANDRO PERTINI

Nato a Stella (SV) il 25 settembre 1896, Alessandro Pertini si laureò in legge e in scienze politiche e sociali. Dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale, Pertini si iscrisse al PSI nel 1918. Oppositore del fascismo, fu tra gli organizzatori della fuga di Filippo Turati. Vennero poi l’esilio in cui si adattò a ogni mestiere, il rientro in Italia con il carcere e il confino, il reciso rifiuto della domanda di grazia inoltrata al duce dalla madre, l’amicizia in carcere con Gramsci. Dopo l’evasione dalle carceri tedesche a Roma nella primavera 1944, raggiunse il Nord e rappresentò il PSI nel CLNAI. Dopo la liberazione fu nel 1945 segretario del PSI e a lungo direttore del “Lavoro” di Genova. Assertore dell’autonomia del PSI, nel 1948 fu contrario alla formazione della lista del Fronte popolare, ma operò sempre per l’unità della sinistra. Presidente della Camera dal 1968 al 1978, Pertini fu eletto presidente della repubblica l’8 luglio da una maggioranza assai vasta. Fin dal suo discorso di insediamento proclamò di volere essere il presidente dell’unità nazionale. Richiamandosi di continuo alla Costituzione e al nesso inscindibile tra giustizia e libertà, ricordò i “patrioti” con cui aveva condiviso “le galere del tribunale speciale, i rischi della lotta antifascista e della resistenza”. Per l’Italia intravedeva una funzione di pace: “si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai”. Pertini, in un momento di grave crisi per il paese e le sue istituzioni, seppe divenire un punto fermo di riferimento e conquistare l’affetto degli italiani, al di là delle sue singole scelte. Morì a Roma il 25 febbraio 1990.

L’OVRA

La riorganizzazione della polizia operata nel corso del 1927 da Arturo Bocchini, sotto l’attenta direzione di Mussolini, ebbe come perno centrale e fiore all’occhiello la costituzione dell’OVRA, un organo specificamente destinato alla repressione delle attività antifasciste, con modalità d’azione più snelle e sbrigative di quelle dei normali uffici di polizia. L’OVRA fu sempre volutamente circondata da un alone di mistero per sottolinearne l’immagine di onnipresenza e capillarità. La notizia della sua esistenza, per esempio, non fu mai data ufficialmente, ma si ebbe da un comunicato del capo del governo, pubblicato dal “Popolo d’Italia” all’inizio del 1931, in cui informava che erano stati ricevuti a Palazzo Venezia “gli alti funzionari dell’OVRA”. Non mancarono indecisioni nella determinazione del significato preciso della stessa sigla. Tra le interpretazioni accreditate, oltre quella, che è la più attendibile, di Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo, vi erano “Organo vigilanza reati antistatali” e “Opera volontaria repressione antifascismo”. Sembra, inoltre, che tale monogramma trovasse il consenso di Mussolini soprattutto per l’assonanza con il termine “piovra”, evocativo del ruolo che la polizia segreta doveva assumere all’interno della società italiana. L’azione dell’OVRA consistette nello stendere all’interno del paese, ma anche all’estero, una fitta rete di informatori e delatori, sulla cui attendibilità ed estrazione non veniva fatto alcun lavoro di filtro o di selezione, al fine di reperire notizie su qualsiasi opera di supposta opposizione al fascismo. Contro le persone così individuate l’OVRA si muoveva poi nella maniera più decisa, eseguendo perquisizioni, controlli, arresti ed estendendo la sua azione in taluni casi anche al di là dei confini nazionali.

 

1965 – IL LIBRO IN EDICOLA: GLI OSCAR

Il 27 aprile 1965 apparve nelle librerie, cartolibrerie ed edicole una nuova edizione di Addio alle armi di Ernest Hemingway. Aveva un formato tascabile, costava solo 350 lire, era il primo di una serie di volumi pubblicati settimanalmente, che potevano essere acquistati dappertutto, come qualsiasi altro periodico. Apparvero poi La ragazza di Bube di Carlo Cassola, Un amore di Dino Buzzati e tanti altri romanzi contemporanei. Facevano parte di una nuova collana di Mondadori, gli Oscar, nella quale era prevista la pubblicazione integrale di romanzi e poi anche di saggi, la cui prima edizione risalisse ad almeno tre anni prima. Non era la prima volta che una casa editrice italiana lanciava sul mercato libri tascabili: nel 1949 la Rizzoli aveva dato il via alla BUR, che da allora andava pubblicando classici della letteratura di ogni epoca. Ma gli Oscar Mondadori costituivano una fondamentale novità, perché per la prima volta il libro si adattava alle forme dei mass media più moderni, tanto che uno degli slogan della campagna pubblicitaria era: “I libri transistor che fanno biblioteca”. Gli Oscar riservavano inoltre particolare attenzione all’aspetto esteriore del libro, che, a differenza della copertina grigia dei volumetti della BUR, si caratterizzava per la vivacità dei colori e delle soluzioni grafiche. Per le giovani generazioni gli Oscar costituirono uno stimolo notevolissimo alla lettura, come testimoniavano le tirature: a ottobre, i 23 volumi già usciti avevano già avuto una tiratura complessiva di oltre 5 milioni di copie, oltre 250.000 in media per volume. Erano tirature sconosciute all’editoria italiana. A giugno uscirono anche i Garzanti per tutti con La paga del soldato di William Faulkner, Moll Flanders di Daniel Defoe, Un amore di Swann di Marcel Proust, e la serie di Angelica di Anne e Serge Golon, che ebbe un grande successo popolare e ispirò una serie di fortunati film. In seguito molti editori lanciarono collane tascabili che si rivolgevano al nuovo pubblico di massa delle edicole.

 

LA QUESTIONE DI TRIESTE

Il trattato italo-jugoslavo di Rapallo del 1920 aveva incluso nei territori sotto la sovranità italiana una popolazione di circa 500.000 slavi. In queste regioni il fascismo aveva condotto una politica di italianizzazione forzata, agendo con misure fortemente repressive. Le forze partigiane jugoslave negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale avevano occupato ampie porzioni di territorio italiano. Solo dopo delicate trattative con gli anglo-americani, nel giugno del 1945, gli jugoslavi si erano ritirati, sulla base di una spartizione provvisoria dei territori che assegnava al controllo degli Alleati la cosiddetta Zona A, comprendente Trieste, una parte del Carso, Gorizia e una fascia di territorio compreso tra il vecchio confine del 1915 e gli altipiani sulla sinistra dell’Isonzo. Sotto l’amministrazione jugoslava era invece la Zona B, comprendente la parte orientale della provincia di Gorizia, l’Istria (con la sola eccezione di Pola) e Fiume. Tra l’aprile e il luglio del 1946 la conferenza di Parigi per la definizione dei trattati di pace discusse il problema. Furono ascoltate la tesi italiana e la tesi jugoslava. Il ministro degli esteri francese Georges Bidault propose una soluzione di compromesso in base alla quale venne costituito il Territorio Libero di Trieste (TLT), ufficialmente creato il 16 settembre 1947, che doveva essere posto sotto la guida di un governatore designato dall’ONU. Non fu, però, possibile trovare un accordo tra le potenze per l’attribuzione di questa carica. Si mantennero quindi due amministrazioni: quella anglo-americana sulla città di Trieste e sugli immediati dintorni (Zona A) e quella jugoslava sul territorio istriano (Zona B). Nell’ottobre del 1954, in seguito ad accordi diretti tra Jugoslavia e Italia, gli Alleati passarono a Roma l’amministrazione di Trieste. La questione fu definitivamente risolta con il trattato italo-jugoslavo di Osimo (AN) nel novembre del 1975.

 

IL MODERNISMO

Il complesso e vario movimento culturale (ma con importanti implicazioni politiche) definito modernista, in quanto esprimeva l’esigenza di rinnovare il cattolicesimo tramite gli apporti del pensiero moderno e un coinvolgimento diretto nei problemi posti dalle trasformazioni del mondo contemporaneo, fu fatto conoscere in Italia da alcuni importanti periodici, fondati da ecclesiastici vicini ai nuovi orientamenti di pensiero. La personalità più originale del modernismo italiano, Ernesto Buonaiuti, a cui si devono importanti opere di storia del cristianesimo, fondò e diresse personalmente a Roma la “Rivista storico-critica delle scienze teologiche” (1905-1910) e “Nova et vetera” (1908). Quest’ultima, subito sconfessata dal Vaticano, esprimeva le aperture al socialismo avanzate da Buonaiuti nelle Lettere di un prete modernista (1908). Buonaiuti collaborò anche a “Studi religiosi” (1901-1907), la rivista che sotto la direzione del prete Salvatore Minocchi fu la principale protagonista della diffusione in Italia del modernismo dell’irlandese George Tyrell e dei francesi Maurice Blondel, Lucien Laberthonnière e Alfred Loisy. Espressione del modernismo laico milanese fu invece la rivista “Il Rinnovamento”, fondata nel 1907 da Tommaso Gallarati SCotti e altri giovani aristocratici lombardi, che si ispiravano alle idee di Vincenzo Gioberti e si proponevano di formare la “coscienza critica” dei lettori, anche nella prospettiva di un rinnovamento in senso democratico dei rapporti fra gerarchie ecclesiastiche e fedeli. Attivo collaboratore del gruppo milanese fu Antonio Fogazzaro, lo scrittore che nel romanzo Il santo, pubblicato nel 1905 e condannato nel 1906 dalla Chiesa, manifestò la sua adesione agli ideali rappresentati nella figura del prete modernista. Nel 1907 la Chiesa condannò ufficialmente il modernismo, giudicato un indirizzo di pensiero contrario alla dottrina cattolica, con un decreto del Sant’uffizio e con l’enciclica di Pio X Pascendi dominici gregis; nel 1910 fu imposto il giuramento antimodernista ai sacerdoti.

 

IGNAZIO DI LOYOLA E L’ORDINE DEI GESUITI

Ignazio di Loyola (1491-1556), nato da una nobile famiglia basca, era stato ufficiale dell’esercito spagnolo; ferito durante un assedio, ritornò per curarsi a Loyola, la sua città, e in questo periodo maturò la decisione di dedicare la propria vita al servizio di Dio.
Diede addio alla famiglia, appese spada e pugnale ai piedi di una statua della Madonna e si recò a Barcellona come pellegrino mendicante. Nel 1522 incominciò a scrivere un libro, gli Esercizi Spirituali, che avrebbe concluso a Parigi al termine dei suoi studi.
Dopo un pellegrinaggio in Terrasanta, si stabilì a Barcellona, deciso a procurarsi una seria preparazione culturale: completò poi gli studi all’Università di Parigi, dove si trasferì nel 1528.
A Parigi Ignazio di Loyola raccolse intorno a sé, attratti dalla sua personalità dominatrice, sei brillanti studenti universitari provenienti da Spagna, Portogallo e Savoia: essi si legarono nel voto di povertà e castità. In seguito, ordinati sacerdoti, si recarono a Roma per mettersi a disposizione del papa.
Fino a quel momento essi non si erano data alcuna regola, ma nel 1539 Ignazio pubblicò un breve scritto (Formula instituti) che già conteneva gli elementi fondamentali dell’Ordine che intendeva fondare e che nel 1540 venne riconosciuto dal papa Paolo III come Compagnia di Gesù.
Il nuovo Ordine era strutturato secondo una rigida gerarchia e sottoposto a un “generale” dotato di potere assoluto e subordinato solo al papa. Chie entrava nell’Ordine pronunciava, oltre ai soliti voti, uno specifico voto di obbedienza totale al papa, fino alla morte. Ogni azione dell’Ordine, che si diffuse soprattutto nell’Europa centrale, era compiuta a “maggiore gloria di Dio”.
In questo “servizio” il gesuita è sciolto da ogni legame di fedeltà ai sovrani e da ogni condizionamento politico di patria o di nazionalità.
Gli Esercizi Spirituali rappresentano per la Compagnia di Gesù ciò che la Regola rappresenta per altri Ordini: una guida del praticante diretta ad ottenere la purificazione dell’anima, l’individuazione della volontà di Dio prima di compiere una scelta di vita, la consacrazione della mente e della volontà al servizio del Creatore.
Ignazio di Loyola, che credeva fortemente nel ruolo della Chiesa, si adoperò con grande efficacia nella difesa della fede e nell’affermazione dell’autorità del Papato.
Alla morte del suo fondatore, la Compagnia di Gesù aveva esteso grandemente la rete della sua influenza e costituiva una potenza internazionale: membri dell’Ordine erano diventati confessori e direttori spirituali di molti regnanti e i suoi collegi ospitavano i figli della nobiltà e dell’alta borghesia, condizionandone la formazione culturale.
In opposizione all’austerità del culto protestante, i Gesuiti sfruttarono a fondo il fascino che poteva essere esercitato sulle masse popolari dal fasto delle cerimonie e delle processioni.
Essi praticarono anche una diffusa attività missionaria in India, in Giappone, in Cina e soprattutto in Sud America: questa attività fu resa particolarmente efficace dalla disponibilità dei Gesuiti a lasciar sopravvivere forme ereditate dalle religioni preesistenti.

 

FRANZ SCHUBERT

1797
Nasce nei pressi di Vienna. Il padre è un maestro di scuola. Frequenta come fanciullo cantore il coro della cappella di corte e il seminario imperiale.

1813-16
Compone le prime cinque sinfonie e ne abbozza alcune altre. Insegna nella scuola del padre e inizia a comporre molti Lieder, nel solo 1815 ne scrive circa 150.

1817
Compone fra l’altro il Lied La Trota.

1818
Viene assunto come insegnante di musica presso la famiglia Esterhazy, parente di quella presso la quale aveva lavorato Haydn.

1819
Compone il Quintetto La Trota

1821
Un concerto di sue musiche contribuisce a farlo conoscere negli ambienti musicali di Vienna: malgrado ciò egli non riuscirà mai ad affermarsi.

1822
Scrive quella che diventerà famosa come Sinfonia Incompiuta, essendo priva degli ultimi due tempi: tale composizione rimarrà tuttavia sconosciuta sino al 1865. Termina inoltre la Fantasia Il Viandante per pianoforte e l’opera Alfonso ed Estrella, ma non riesce a farla rappresentare.

1823
Compone il ciclo di venti Lieder La bella mugnaia e le musiche di scena per Rosamunda, principessa di Cipro.

1824
Scrive varia musica da camera, fra cui il Quintetto per archi La morte e la fanciulla.

1827
Crea gli Improvvisi per pianoforte, op. 90 e op. 142.

1828
Termina la Sinfonia che verrà chiamata La grande e che rimarrà, come l’Incompiuta, ineseguita a lungo: sarà Schumann a farla eseguire nel 1840. Viene pubblicato il ciclo di 24 Lieber Il viaggio d’inverno. Muore a Vienna in estrema povertà e viene sepolto in una tomba vicina a quella di Beethoven.

 

ORGANO

Categoria: Aerofoni
Sottocategoria: a serbatoio d’aria

STRUTTURA
L’organo è il più antico strumento a tastiera. Produce i suoni tramite varie canne alimentate dall’aria inviata da un mantice. Nei primi esemplari di organo questo mantice era azionato da una pompa mossa dall’acqua; in seguito, alla forza dell’acqua venne sostituita quella di volenterosi addetti a comprimere e dilatare con le mani (i tiramantici) o anche con i piedi (i calcanti), i mantici dell’organo. Oggi questo compito viene svolto da un congegno elettrico.

Spinta dal mantice l’aria viene convogliata alle varie canne, che funzionano come un normale strumento a fiato e che si differenziano fra di loro per la lunghezza (da pochi decimetri a vari metri), per il materiale (di legno o di metallo), per la forma (coniche, cilindriche, a imbuto, ecc.) e per il tipo di imboccatura. Sono dette ad anima quelle che hanno l’imboccatura naturale come il nostro flauto dolce, ad ancia le altre.

Questa grande varietà di canne offre una considerevole possibilità di timbri diversi, cioè di registri, che sono distinti in un grande numero di famiglie: alcuni conservano il nome dello strumento a cui il loro timbro assomiglia (corno, flauto, oboe, ecc.), altri posseggono un nome descrittivo (voce angelica, armonia eterea, ecc.), altri ancora hanno un numero riferito al suono armonico che interviene a meglio caratterizzarli (ottava, duodecima, ecc.). La scelta di questi registri viene fatta dall’esecutore che aziona varie leve e pulsanti, posti attorno alla tastiera. Naturalmente sono possibili numerose combinazioni, dette impasti, di vari registri che accrescono ulteriormente la varietà timbrica dello strumento. Sempre per questo motivo l’esecutore dispone non solo di una, ma almeno di due o tre tastiere disposte una sull’altra (esistono organi che ne posseggono cinque e più), che permettono di abbinare ad ognuna un dato tipo di registro e di aumentare così il numero delle combinazioni timbriche. Lo strumento è anche dotato di una pedaliera, cioè di una serie di pedali disposti a raggiera con i quali si possono suonare le note più gravi.

TECNICA
Il controllo dei meccanismi di un organo richiede un perfetto coordinamento dei movimenti delle mani e dei piedi; questo difficile compito aggravato dal fatto che in pratica non esistono due strumenti uguali fra loro e quindi l’organista prima dell’esecuzione deve “studiare” lo strumento.
Poiché le canne dell’organo sono alimentate dall’aria in maniera costante, la eventuale diversa pressione del dito sui tasti non dà la possibilità di variazione di intensità. Lo strumento quindi è stato dotato di un particolare congegno detto a gelosia che conferisce allo strumento la possibilità di effetti, quali il crescendo e il diminuendo, tramite la lenta apertura o chiusura delle antine situate davanti alle canne.

DIFFUSIONE
Lo strumento che ha origini antichissime (si parla di un organo greco del III sec. a.C.), è sempre stato molto importante soprattutto come strumento utilizzato in chiesa. E’ uno strumento essenzialmente solistico: non mancano però esempi in cui viene impiegato all’interno dell’orchestra. Ricordiamo a proposito i Concerti per organo di Georg Friedrich Haendel.

TIMBRO
L’organo ha una grandissima varietà di timbri, cioè di registri: ogni epoca ne ha privilegiato alcuni per cui un organo “barocco” ha un colore espressivo assai diverso da un organo ottocentesco.

PARTICOLARITA’
Nel corso dei secoli l’organo si è evoluto aumentando sempre più le sue capacità tecniche e di conseguenza le sue dimensioni:
- l’organo portativo era, come dice la parola stessa, uno strumento portatile che veniva suonato con una sola mano perché l’altra era impegnata con il mantice;
- l’organo positivo era invece uno strumento “da camera” e si suonava con due mani perché i mantici venivano azionati da un’altra persona. Nel Trecento furono aggiunti i pedali e nel Quattrocento vennero inseriti i primi registri.

Uno degli organi più grandi costruiti negli ultimi anni si trova a Passau, in Germania, ed è dotato di circa 17.000 canne, 5 tastiere, 215 registri.

Esiste anche un piccolo organo domestico: l’harmonium. Si tratta sempre di uno strumento a tastiera in cui il suono è prodotto dalla vibrazione di ance libere che vengono sollecitate con l’aria spinta dal movimento continuo e alternato di due piccole pedane poste sotto i piedi dell’esecutore oppure, nei modelli più recenti, da un motore elettrico: la lunghezza e lo spessore delle ance determinano l’altezza della nota.
Rispetto all’organo, l’harmonium ha un limitato numero di registri (8-10)

 

G. PIERLUIGI DA PALESTRINA

1525 ca.
Nasce a Palestrina, cittadina nei pressi di Roma.

1537
E’ fanciullo cantore nella basilica di S.Maria Maggiore a Roma.

1544
E’ nominato organista e maestro di canto nel Duomo di Palestrina.

1551
Su invito del Papa Giulio III, diviene maestro della Cappella Giulia a Roma.

1555-65
Ricopre varie cariche: nominato cantore presso la Cappella Sistina, viene subito licenziato in quanto non è celibe; passa allora all’incarico di maestro di cappella prima in S.Giovanni in Laterano, poi in S.Maria Maggiore, quindi diviene direttore musicale nel nuovo Seminario Romano. Nel frattempo si occupa anche di musica profana presso la villa di Tivoli del cardinale Ippolito d’Este.

1571
Ritorna all’incarico presso la Cappella Giulia.

1580
Rimasto vedovo, si risposa e si dedica alla pubblicazione dei propri lavori.

1594
Muore a Roma.

La ricca produzione di Palestrina è essenzialmente di genere vocale: comprende più di 100 messe, oltre 350 mottetti e molti madrigali sacri.
Celebre, fra tante, la Messa di Papa Marcello, scritta in memoria di Marcello II.
Da non trascurare tuttavia sono anche i suoi numerosi madrigali profani, come Vestiva i colli.

 

GLI UNNI

L’origine degli Unni è totalmente oscura: comparvero a Est del fiume Volga poco dopo la metà del IV secolo, sconfissero dapprima gli Alani (popolo germanico che occupava le pianure fra il Volga e il Don), poi rapidamente abbatterono il grande dominio degli Ostrogoti. Soggiornarono per un certo tempo in Pannonia e nel 375 piombarono sui Visigoti, che occupavano la regione corrispondente all’attuale Romania, arrivando alla frontiera danubiana dell’Impero romano.

La più antica informazione sulle abitudini degli Unni (risale all’anno 395) ci è fornita dallo storico romano Ammiano Marcellino, che li descrive come pastori primitivi, possessori di mandrie e di cavalli, che integravano la loro alimentazione con i prodotti della caccia e della raccolta, ma che ignoravano del tutto le tecniche agricole.
Secondo Ammiano non possedevano abitazioni stabili, ma si spostavano nella steppa alla ricerca di pascoli e di acqua. Le loro vesti erano fatte di stoffa (probabilmente ottenuta dallo scambio con altre genti), e di pelle.

Vivevano sempre a cavallo, mangiando, scambiando i loro prodotti e negoziando i loro patti senza mai smontare. Non avevano un re: ciascun gruppo era guidato da un capo, del quale non si conoscono i poteri, né si sa se avesse conquistato quel ruolo in pace o in guerra. Sembra che non avessero un capo supremo neppure quando erano impegnati nelle loro maggiori imprese belliche.
Come guerrieri, gli Unni ispirarono in tutta Europa un terrore che non fu eguagliato da nessun altro popolo barbaro. Erano abilissimi arcieri a cavallo: i nemici non cessavano di stupirsi della precisione con cui si servivano degli archi.

I loro cavalli non erano belli ma erano fortissimi. L’abilità degli Unni nell’arte di cavalcare, la tempesta di frecce che erano in grado di scagliare con incredibile rapidità, la velocità delle loro tattiche, con cariche feroci e improvvise ritirate, li portarono a schiaccianti vittorie prima sui Goti e più tardi sui Romani.
Trent’anni dopo il resoconto di Ammiano, la loro organizzazione era mutata e il comando dei vari gruppi era concentrato nelle mani di un singolo re, Rugila; quando questi morì (434) gli succedettero i suoi due nipoti Bleda e Attila.

La principale fonte di informazioni sugli Unni al tempo di Attila è rappresentata dalla testimonianza dello storico greco Prisco, che visitò il suo accampamento nell’anno 449 e lo incontrò più volte personalmente Prisco lo descrive come un uomo basso e robusto, con una grande testa, naso piatto, occhi profondamente infossati e una sottile barba.

A quel tempo gli Unni avevano accumulato grandi quantità di oro, come risultato dei tributi imposti all’Impero d’Oriente: intorno al 430 l’imperatore Teodosio II versava loro 170 kg d’oro l’anno, quantità che nel 435 venne raddoppiato. Nel 443 ricevettero gli Unni 3 tonnellate d’oro in una sola volta, mentre il tributo veniva portato a una tonnellata d’oro all’anno. Oltre a ciò, essi ricavavano enormi profitti dai saccheggi e dai prigionieri che rivendevano come schiavi a Costantinopoli. Quando andavano in guerra, gli Unni portavano con sé ampie schiere di combattenti reclutati tra i popoli sottomessi, non soltanto per il vantaggio militare che ne derivava, ma anche perché sarebbe stato pericoloso lasciare a casa quegli uomini, quando l’esercito si allontanava.

Con Attila, che nel 445 aveva ucciso il fratello Bleda, il comando militare divenne ereditario nella sua famiglia. Attila esercitò il potere in pace e in guerra: progettava personalmente le imprese del suo popolo e conduceva i negoziati con gli Stati stranieri; amministrava la giustizia senza consultarsi con nessuno e dirigeva il suo enorme dominio per mezzo di funzionari da lui prescelti, ciascuno dei quali comandava un corpo di armati.

Benché rude guerriero, Attila apprezzava la cultura e ospitò alla sua corte studiosi greci e latini e raffinati artisti. Alla sua morte, che la leggenda attribuì ad avvelenamento per opera della moglie, il suo regno crollò come un castello di carte.

 

CLAUDIO MONTEVERDI

1567
Nasce a Cremone; il padre è un medico.

1582
A soli 15 anni pubblica una raccolta di Canzonette a tre voci.

1587
Dà alle stampe il primo dei suoi nove fondamentali libri di Madrigali, lavori che costituiscono il culmine e anche la fine di questo genere musicale.

1590
Entra come violista e cantore nell’orchestra del duca Vincenzo Gonzaga a Mantova; compie nel contempo numerosi viaggi al seguito del Duca (fra l’altro nelle Fiandre) ed ha così modo di ampliare le sue conoscenze in campo musicale.

1607
Compone l’Orfeo, una “favola pastorale” in musica che viene presentata con grande favore a Mantova e che gli dà fama in tutta Italia.

1608
Sempre a Mantova fa rappresentare la sua seconda opera, l’Arianna, della quale però ci è pervenuto un solo brano, il Lamento di Arianna.

1610
Si dedica anche alla musica sacra, pubblicando una Messa a cappella a 6 voci, il Vespro della Beata Vergine  e un Magnificat.

1612
Alla morte del Duca si trasferisce a Venezia, dove assume l’ambito incarico di “maestro di musica”, che manterrà sino alla morte.

1619
Pubblica il rivoluzionario Settimo Libro di Madrigali, che intitola Concerto, in cui il madrigale cinquecentesco è totalmente stravolto: vengono utilizzati strumenti e talvolta il canto è affidato a una o due voci sole. I madrigali si avvicinano così al nuovo genere del melodramma.

1632 ca.
Viene ordinato sacerdote.

1638
Appare l’ottava raccolta di madrigali, intitolata “Madrigali guerrieri e amorosi”: in essa si trova il Combattimento di Tancredi e Clorinda, ispirato a un episodio de La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.

1640
Pubblica una raccolta di musica religiosa dal titolo Selva morale e spirituale.

1641-42
A quest’epoca risalgono le uniche due opere, delle numerose scritte nel corso del periodo veneziano, pervenute sino a noi: Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea. Su entrambe tuttavia pesa il dubbio che non possano essere totalmente attribuire a Monteverdi.

1643
Muore a Venezia.

 

CLEOPATRA, REGINA D’EGITTO

“La sua bellezza non era di quel genere incomparabile che afferra istantaneamente gli altri, ma il suo fascino era irresistibile, e all’attrattiva della persona e della parola si aggiungeva una forza di carattere che ne pervadeva il discorso e il gesto, e che lasciava ammaliati coloro che le stavano vicino. Era una delizia anche solo sentire il suono della sua voce…”.

Così Plutarco, uno storico greco vissuto tra il I e il II secolo d.C., rappresenta Cleopatra, la regina la cui personalità colpì poeti grandissimi come Dante, che la cantò nella Divina Commedia, Shakespeare, che le dedicò la tragedia Antonio e Cleopatra, e altri ancora. Cleopatra (nata nel 70 a.C.) fu regina d’Egitto perché, secondo la tradizione, aveva sposato il fratello Tolemeo XIII, ma si sentiva soprattutto greca, in quanto erede del più grande e antico regno ellenistico. Intelligente e colta, era detestata dalla casta dei sacerdoti, che vedeva minacciato da lei il proprio ascendente sul faraone dodicenne: fu allontanata dal trono, ma all’arrivo in Egitto di Cesare (49 a.C.) ottenne che questi, con la forza delle armi, le restituisse il potere.

Da quel momento ella strinse con Cesare un rapporto non solo personale, ma anche politico, in quanto sperava di essere aiutata nella realizzazione di un unico grande Stato, comprendente anche Roma e i suoi territori, in cui i popoli orientali e quelli occidentali godessero di uguali diritti.
Fu questa sua ambizione a renderla odiosa quando Cesare la condusse con sé a Roma, oltre alle abitudini stravaganti che ella aveva portato con sé: un serraglio, lussi senza limiti, pretese scandalose.
Morto Cesare, Cleopatra fece ritorno in Egitto, dove ben presto giunse, in qualità di governatore, Marco Antonio, che era stato il miglior generale di Cesare e il suo difensore. I due, che si sposarono ed ebbero tre figli, concepirono un progetto ardito: creare in Oriente una monarchia universale che si opponesse a Roma. Quando la sconfitta di Azio stroncò il loro disegno, Antonio si trafisse con una spada; Cleopatra si fece mordere da un serpente velenoso.

 

1945 – LA RESISTENZA

In tutti i paesi europei che nel corso della seconda guerra mondiale finirono sotto l’occupazione tedesca si organizzarono dei movimenti di liberazione nazionale che ricorrendo a forme di opposizione attiva e passiva diedero vita al fenomeno della resistenza. Tale lotta si caratterizzava da una parte come guerra di liberazione contro la dominazione e l’oppressione di eserciti invasori, dall’altra come proposta di ideali antitetici a quelli del totalitarismo nazista e fascista. All’interno del movimento di resistenza vennero quindi a confluire gruppi di differente ispirazione, in alcuni casi in contrasto tra loro, soprattutto nella determinazione degli obiettivi ultimi della lotta, che per alcuni dovevano limitarsi al ripristino delle situazioni precedenti l’occupazione, mentre per altri avrebbero dovuto portare all’avvio di vasti progetti di rinnovamento delle strutture politiche e sociali. Nello specifico della situazione italiana il CLN (Comitato Liberazione Nazionale), al quale parteciparono tutti i principali gruppi politici ricostituitisi dopo la caduta del fascismo, rappresentò il tentativo di superare le divisioni nella fase più delicata della lotta contro i nazifascisti. Sotto la direzione del CLN operavano le formazioni partigiane che nell’Italia centrosettentrionale impegnarono, a partire dall’autunno del 1943, i reparti nazisti in una costante azione di guerriglia. I raggruppamenti più importanti furono quelli organizzati dal PCI nelle Brigate Garibaldi e nei GAP (Gruppi di azione patriottica); nelle campagne operarono le SAP (Squadre di azione partigiana). I socialisti costituirono le Brigate Matteotti. Gli azionisti diedero vista ai gruppi di Giustizia e libertà. Accanto alle formazioni della sinistra operarono gruppi cattolici, e “autonomi”, composti da ex militari monarchici e badogliani. Alle soglie della liberazione nel 1945 la massa dei combattenti si componeva di oltre 200.000 unità. I caduti della guerra di resistenza italiana furono circa 70.000.

IL ROMANZO STORICO

Il romanzo storico è un misto di storia e di invenzione: esso, infatti, narra una vicenda di invenzione ambientata però in un’epoca storica precisa, generalmente del passato, ricostruita più o meno fedelmente nelle sue caratteristiche sociali e culturali. Accanto a personaggi storici, ossia realmente esistiti, che si configurano per lo più come personaggi secondari, si muovono e agiscono personaggi inventati, ma verosimili, nel senso che riflettono nel loro modo di pensare e di comportarsi la realtà storica e sociale dell’epoca in cui è ambientato il romanzo.

Una caratteristica particolare del romanzo storico è la presenza di personaggi collettivi: vi sono infatti molte scene “corali” che hanno per protagonista non più il singolo personaggio, ma la folla, il popolo, gruppi di persone, raffigurati in atteggiamenti o comportamenti di partecipazione nei confronti degli eventi politici e sociali del loro tempo.

Dal punto di visto stilistico, il romanzo storico è spesso caratterizzato da ampie descrizioni di paesaggi che hanno la funzione di “incorniciare” l’azione e da minuziose, dettagliate descrizioni di oggetti, arredi, abiti d’epoca per meglio caratterizzare i personaggi. Inoltre il linguaggio usato è solitamente di registro alto, elevato, letterario, ma non è raro anche l’utilizzo di un linguaggio un po’ antiquato, che riproduce fedelmente quello parlato nell’epoca in cui si svolge la vicenda narrata.

Nato nei primi decenni dell’Ottocento, per opera dello scrittore scozzese Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, il romanzo storico ebbe subito molto successo e grande diffusione in tutta Europa.

Al modello inventato da Scott si ispirò Alessandro Manzoni per la sua opera I promessi sposi, il più importante romanzo storico italiano. Inoltre, il romanzo Guerra e pace di Lev Tolstoj è ritenuto uno dei più grandi romanzi storici di tutti i tempi.

Considerato un genere tipico dell’Ottocento, il romanzo storico ebbe grande fortuna anche nel Novecento: basti pensare ai romanzi Il Gattopardo  di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e La Storia  di Elsa Morante.