QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

COMPLESSI DA CAMERA

L’uso contemporaneo di più strumenti diversi ha dato luogo a una grande varietà di organici che, in base al numero degli esecutori, si distinguono in: complesso da camera e orchestra.

La precisazione “da camera” incominciò ad entrare in uso nel Seicento per distinguere lavori come Concerti, Sonate, ecc., di genere e di ambientazione profana, da quelli “da chiesa”, di carattere e destinazione sacra.
Il termine “da camera” venne ad indicare quella musica destinata ad un limitato organico e che poteva quindi essere eseguita in una “camera”, cioè in un piccolo ambiente domestico. Bisogna infatti tener presente che solo nella seconda metà del Settecento iniziò a diffondersi l’abitudine dei concerti pubblici che erano in genere destinati alla musica orchestrale: la musica da camera rimase invece negli ambienti privati degli aristocratici e dei borghesi come semplice modo per fare musica insieme, senza la necessità assoluta che ci fosse il pubblico pagante. Solo con l’avvento del Romanticismo la musica da camera verrà eseguita in Sale da Concerto.

Al genere della musica da camera appartengono tutti quei brani eseguiti a due o più strumenti (fino a dieci). Quando l’esecutore è uno solo si parla di brano solistico.
Quindi abbiamo:

- il duo, ad esempio, per pianoforte e violino, pianoforte e violoncello, flauto e pianoforte, due violini, violino e viola, ecc.;

- il trio, in genere formato da pianoforte, violino e violoncello; oppure da violino, viola e violoncello (in questo caso viene definito “trio per archi”);

- il quartetto, costituito generalmente da due violini, una viola e un violoncello. Più raro è l’organico con pianoforte, violino, viola e violoncello;

- il quintetto, formato in genere da due violini, due viole e un violoncello (definito “quintetto di archi”). Si ha invece il “quintetto con pianoforte” quando uno degli archi è sostituito dal pianoforte.

Procedendo dobbiamo quindi citare il sestetto, il settimino, l’ottetto, il nonetto e il decimino: furono tutti organici in cui il tipo di strumenti poteva variare con estrema libertà.
Abbiamo visto che in sostanza gli strumenti più usati sono gli archi: non bisogna però dimenticare che esistono anche composizioni da camera per soli fiati.

 

LA GENETTA

Genetta genetta
Famiglia: Viverridi

Caratteristiche: Lunghezza senza coda 40-55 cm, lunghezza coda 38-48 cm, peso 1-2,3 kg. Grande quanto un gatto domestico, corpo allungato, slanciato con arti brevi; pelo da giallastro a grigio-bruno con file di macchie nere nel senso della lunghezza; coda lunga e folta con 8-10 anelli neri; sotto gli occhi e vicino alla punta del naso macchie bianche.

Diffusione: penisola iberica, Francia meridionale, Baleari; Africa.

Habitat: savana arida, foresta tropicale aperta, pendii rocciosi fino a 2500 m di altezza.

Abitudini: notturna; solitaria, tranne nel periodo dell’accoppiamento; si arrampica bene, scendendo velocemente anche a testa in giù; si muove di soppiatto senza far rumore quando va a caccia; si pulisce spesso e abbondantemente leccandosi.

Alimentazione: piccoli animali, prevalentemente topi a altri Roditori.

Riproduzione: periodo di accoppiamento II-III e VII-VIII; gestazione 10-11 settimane; 2-4 piccoli inetti, ma già coperti di pelo; le orecchie si aprono a 5 giorni e gli occhi a 8; vengono allattati per 6 mesi e rimangono 1 anno con la madre.

La genetta non è un gatto, ma appartiene, come la mangusta, alla famiglia dei Viverridi, un gruppo di Mammiferi filogeneticamente molto antico. Essendo un tipico animale notturno, ha occhi particolarmente grandi, con i quali riesce a percepire i movimenti della preda anche con una luce molto fioca. Nella completa oscurità, però, neanche la genetta vede più nulla e inoltre, come molti animali notturni, è daltonica. Questo animale grazioso ed elegante sa muoversi perfettamente di soppiatto: rannicchiata su se stessa, scivola silenziosa sui sentieri di caccia nella macchia, agile e sicura si arrampica sugli alberi, scendendo anche a testa in giù. Agguanta la preda – per lo più topi e altri Roditori – con un balzo preciso e la trattiene poi con le zampe anteriori come fanno i nostri gatti domestici. Come i gatti può ritrarre profondamente le unghie e tiene accuratamente pulito il pelo leccandolo abbondantemente.
Nell’Europa meridionale l’uomo ha tenuto a lungo in casa genette addomesticate perché catturassero topi e ratti, prima che nel corso del Medioevo fossero soppiantate dai “moderni” gatti domestici.
La maggior parte dei Viverridi emette, da ghiandole odorifere vicine all’ano, una secrezione che ha forte odore di muschio. Questa sostanza era un tempo apprezzata e pagata a caro prezzo in Europa come componente di medicinali e soprattutto come materia prima per la produzione di profumi. Diversamente da quanto accade in Oriente, la sostanza odorosa della genetta da noi non ha più alcuna importanza economica.

 

L’ALLUVIONE DI FIRENZE

Dopo 3 giorni consecutivi di pioggia intensa una terribile alluvione si abbatté sull’Italia il 4 novembre 1966.
Tra i centri più colpiti vi erano le principali città d’arte, Venezia, Firenze, Siena, intere regioni, come le Tre Venezie, nelle quali perì un centinaio di persone, l’Emilia Romagna e la Toscana. Danni ingenti si verificarono anche in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, in Lazio e in Sardegna.
Venezia fu coperta per ventitrè ore dalle acque, e il suo patrimonio artistico subì danni enormi. Firenze fu sommersa da tre metri d’acqua dell’Arno e rimase isolata dal resto del paese. Le acque avevano inondato negozi e magazzini, rendendo assai difficile la fornitura dei beni di prima necessità. Furono sfollate 12.000 persone, mentre una settantina persero la vita. Si temette per la sorte di Ponte Vecchio. Chiese, palazzi, musei, biblioteche erano gravemente danneggiati. Opere di straordinario valore rischiarono di andare perdute per sempre: il Crocifisso di Cimabue, la Maddalena di Donatello e molte altre. Il paese manifestò grande solidarietà: non solo furono raccolti da più parti fondi per gli aiuti immediati, ma centinaia di giovani si precipitarono a Firenze per cooperare alla salvezza dei beni conservati nei musei della città e delle migliaia di volumi della Biblioteca nazionale danneggiati dalle acque. Il governo assunse immediatamente misure di emergenza: la benzina fu aumentata di 10 lire e fu imposta un’addizionale del 10% sulle imposte dirette. Ma, come scriveva il “Corriere della sera”, sarebbero stati necessari interventi preventivi a difesa del territorio per poter evitare una situazione così drammatica: ancora una volta, l’Italia era stata colta “impreparata a difendersi dalle alluvioni”.

 

I SETTE FRATELLI CERVI

I Cervi, una famiglia contadina di Campegine, in provincia di Reggio Emilia, da sempre antifascisti, dopo l’8 settembre 1943 ospitarono nella loro cascina soldati sbandati e prigionieri stranieri in fuga: li accoglievano, li nutrivano, li curavano, trovavano i collegamenti perché raggiungessero i partigiani. Il 26 novembre 1943 la milizia repubblichina circondò la cascina sparando: i sette fratelli e il padre risposero con le bombe a mano e con un fucile mitragliatore. Allora i fascisti incendiarono stalla e abitazione; perché le mogli e i figli si salvassero, i Cervi si arresero. Vennero imprigionati a Reggio, ma quando (il 27 dicembre) il segretario del fascio di un paese vicino venne giustiziato in un’azione partigiana, i sette fratelli Cervi furono fucilati.

Dieci anni dopo, Italo Calvino ne scrisse questo ricordo.
”Qui, da questo filare comincia la terra dei sette fratelli. Questa piana, sono state le braccia dei sette fratelli a lavorarla; questi canali, questa vigna, ogni cosa qui intorno, l’hanno fatta i sette fratelli; e questa è la loro fattoria, quella è la loro stalla, la famosa stalla razionale, orgoglio dei sette fratelli, e le bestie famose per il latte e per il peso; ed ecco l’ala della casa che fu incendiata quella notte, ecco le finestre da cui i fratelli risposero al fuoco dei fascisti, ecco il muro contro il quale furono messi in fila a mani alzate, dopo che Gelindo aveva salutato le donne e detto che resistere non si poteva più e che conveniva arrendersi per poi cercare di scappare, e Aldo aveva detto che stessero tutti tranquilli, che avrebbe preso lui la responsabilità di tutto e così anche se lo fucilavano restavano sei di loro a far andare avanti la campagna: la storia dei sette fratelli Cervi si è svolta tutta qui.
Era una famiglia numerosa, come quelle che voleva il duce; ma nelle intenzioni di Mussolini le famiglie numerose dovevano essere allevamenti di disperati, di bestie da macello; questa invece era una delle ultime famiglie patriarcali.
Che i Cervi fossero contro il fascio, il duce, l’impero e tutto il resto non era un mistero, perché non lasciavano passare occasione per dirlo e predicarlo ai quattro venti; ma erano anche quelli che la sapevano lunga su tutti gli avvenimenti nazionali e internazionali, passati e presenti e anche futuri.
Le idee politiche non se le erano trovate già in testa nascendo, i sette Cervi; ci erano arrivati ragionando e discutendo e leggendo, a poco a poco.
Dopo l’8 settembre quell’avamposto di una società futura che era stata la famiglia Cervi ora assume un altro significato, ideale: diventa un avamposto di fratellanza internazionale nel cuore della guerra più crudele. Un centinaio di stranieri si fermarono alla fattoria dei Cervi nei mesi dal settembre al novembre 1943: inglesi, sovietici, un aviatore americano ferito, un tedesco disertore.
I Cervi furono tra i primi ideatori e sperimentatori delle nuove forme di lotta, particolarmente per quel che riguarda le azioni di squadra in pianura, di cui allora non si supponevano i grandi sviluppi futuri. Come prima erano i pionieri di nuove tecniche agricole, così ora sperimentarono i metodi di guerriglia, misurandosi nelle più varie esperienze di lotta partigiana, dalle azioni di sabotaggio all’attività clandestina nei centri abitati.
Tutto quello che il popolo italiano espresse di meglio nella Resistenza: lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra, tutto questo fu nei Cervi. Perciò in questi sette veri volti di intelligenti contadini emiliani riconosciamo l’immagine della nostra faticosa, dolorosa rinascita”.
(da Italo Calvino, I sette fratelli, in “Patria indipendente”, n.24 del 20 dicembre 1953)

TEODORICO

Teodorico fu un grande re che coltivò tenacemente la speranza di edificare un regno potente e pacifico.
A differenza di altri barbari, come i Vandali che avevano cercato di imporre la propria fede, cioè l’arianesimo (E’ una teoria relativa alla natura di Cristo enunciata all’inizio del IV secolo dal prete Ario: premessa fondamentale è l’assoluta unicità di Dio, il solo a non essere creato. Poiché Gesù è creato, non può essere Dio. L’arianesimo fu considerato un’eresia e condannato dalla Chiesa nel Concilio di Nicea del 325), Teodorico professò la tolleranza, perché voleva mantenere la pace nel suo regno. Questa imparzialità non significava indifferenza verso tutti i culti, ma rispondeva a un chiaro programma di governo: assicurare la pacifica convivenza tra vinti e vincitori e soprattutto restaurare la grande civiltà degli uni (i Romani) con la forza degli altri (i Goti): ai Romani era assicurata l’amministrazione civile, ai Goti toccava il potere militare.

Lo stesso ideale di pace e di conservazione era alla base della politica di Teodorico verso i regni germanici. Egli riuscì a esercitare il potere su un territorio ampio quanto quello degli antichi imperatori, anche se il suo era un potere di diversa natura: cercò di appianare i conflitti con tutti i sovrani dei regni romano-barbarici e strinse alleanze attraverso vincoli di parentela. Ma i conflitti non mancarono, soprattutto con Clodoveo, re dei Franchi, e poi con i Burgundi e con i Vandali, e il suo disegno di sistema internazionale fallì. Anche con i Romani il progetto fallì: agli unni dell’illusione di pace e di stabilità, vissuti quando fu accolto a Roma dal senato, dal popolo e dal papa, seguirono anni nei quali, messo in allarme dagli atteggiamenti dell’imperatore d’Oriente e circondato da una corte infida e piena di tensioni interne, Teodorico reagì condannando a morte o al carcere il filosofo Boezio, il senatore Simmaco e il papa Giovanni I.

Con il sangue di Odoacre il regno di Teodorico si era aperto (493), con il sangue dei martiri di Roma si chiuse: tragico epilogo di un sogno fallito.
Era l’anno 526 quando egli morì. La sua speranza e la sua illusione erano durate circa trent’anni, ma il significato storico di questo dramma è che Teodorico è il vinto, mentre vincono coloro che muoiono.

 

IL PARTIGIANO

Partigiano italiano, maquisard francese, gueux olandese, andarte greco, partizan iugoslavo… Chi combatte contro i nazisti è in tutta Europa lo stesso: un uomo o una donna che, seguendo la voce della coscienza e del dovere, prende le armi per liberare il suo Paese dagli invasori.

La Resistenza è ovunque una lotta clandestina, ovunque si realizza con i metodi della guerriglia. Il suo scopo è innanzitutto quello di ostacolare i movimenti del nemico e provocare il maggior danno possibile alle sue strutture militari. Occorre perciò spezzare i collegamenti tra i reparti tedeschi, mirando in particolare a impedirne i rifornimenti: far saltare i binari, far crollare ponti e gallerie, minare tratti di strada, distruggere locomotive e automezzi, porre fuori uso impianti di trasmissione e centrali idroelettriche.
Altro obiettivo della guerra partigiana è l’eliminazione fisica dei nemici più pericolosi: i capi militari dell’esercito avversario, i collaborazionisti, i torturatori; oppure far fuori interi posti di blocco.
I partigiani hanno bisogno di rifornimenti: cibo, benzina, armi. Per procurarseli assaltano i depositi alimentari dei Tedeschi, scaricano il bestiame dai treni, prelevano il carburante dai piccoli aeroporti, sottraggono mitragliatrici e munizioni dagli arsenali delle caserme. Quando è inevitabile, ricorrono alle requisizioni, ma per lo più la popolazione civile li aiuta con altruismo, privandosi di quel poco che possiede per contribuire alla lotta comune.

Talvolta la guerriglia, si trasforma in battaglia vera e propria: allora la furia tedesca si scatena in saccheggi, incendi e violenze, le cui conseguenze ricadono sui civili inermi, così come i rastrellamenti (cioè la caccia operata palmo a palmo dai nazifascisti alla ricerca di partigiani o di renitenti alla leva o di chi li appoggia). I rastrellamenti si concludono con la cattura dei ricercati o, in assenza di questi, di un certo numero di civili che saranno fucilati per vendetta. L’effetto dei rastrellamenti è quello di terrorizzare la popolazione: i Tedeschi sfruttano questo atteggiamento psicologico per creare una frattura tra i partigiani e i civili, molti dei quali non sono più disposti ad appoggiare concretamente il movimento di liberazione. Feroci manifesti minacciano ferro e fuoco a chi, in qualunque modo, protegga i “banditi”.

Ciò semina sconforto e disorientamento tra i partigiani, che si sentono responsabili delle orribili rappresaglie nemiche: ma “guerra è guerra” e si va avanti sostenuti dalla volontà di vincere.
Per quanto riguarda l’Italia, i partigiani sono militanti antifascisti (passati dopo l’8 settembre all’opposizione concreta), ex-militari, contadini, valligiani, cittadini (soprattutto operai e professionisti), animati da un acceso spirito di ribellione e dalla febbrile volontà di combattere. Inizialmente essi si dedicano soltanto a opere di sabotaggio e a brillanti colpi di mano, ma ben presto si rendono conto della necessità di un’organizzazione rigida: le bande si trasformano in unità organiche, con una ferma disciplina, una gerarchia precisa, un inquadramento regolare. Ogni banda si articola in distaccamenti, che a loro volta si suddividono in squadre. A capo di ogni banda c’è un comandante che destina i servizi (vedetta, staffetta) e la specializzazione (squadra d’assalto, squadra logistica, cioè di trasporto viveri e materiale, ecc.), con turni e ispezioni. Ciascun partigiano risponde in prima persona delle armi e del materiale di cui dispone: eventuali gesti di indisciplina o di scorrettezza vengono puniti con sanzioni che vanno dalla limitazione delle sigarette al raddoppio dei turni di guardia, all’espulsione, sino alla fucilazione.

Le bande ricevono periodicamente la visita dei commissari politici, partigiani con l’incarico di promuovere tra i compagni un processo di educazione e maturazione politica. Essi spiegano che l’Esercito di Liberazione Nazionale è un esercito nuovo e rivoluzionario che non ha nulla da spartire con quello sabaudo: che il CLN (Comitato Liberazione Nazionale) è l’unico organo che, dopo la fuga del re, operi la Resistenza attiva contro i nazifascisti; che compito dei partigiani non è solo cacciare i Tedeschi, ma anche porre le basi per un processo democratico che investa tutta la struttura sociale e politica del Paese.

Resistere non è facile: il freddo, la fame, la diffidenza delle popolazioni, l’incertezza del domani, la ferocia sempre maggiore dei nemici rischiano di indebolire gli animi. Ma questi ostacoli sono compensati dallo slancio di tanti generosi: donne che portano da mangiare, montanari che fanno da guida sui valichi, sacerdoti che colgono le motivazioni sociali di questa guerra popolare. E aiuti vengono anche dagli Alleati che, sia pur in misura inferiore rispetto alla necessità, per mezzo di lanci dagli aerei (preannunciati da messaggi in codice trasmessi via radio e attuati là dove brillano i fuochi di segnalazione), forniscono armi e viveri.
Venti mesi di fatiche, rinunce, pericoli, sofferenze: ma alla fine, la libertà.

I MEGALITI

Nell’Europa occidentale e settentrionale, circa 6500 anni fa, mentre si affermavano le prime forme di agricoltura e di allevamento, vennero costruiti giganteschi monumenti di pietra detti megaliti (dal greco mega = grande e lithos = pietra, grandi pietre).

Sul significato e sulle precise funzioni dei megaliti sono state formulate molte ipotesi, ma sembra che la loro destinazione fosse soprattutto religiosa.
I megaliti sono stati suddivisi dagli studiosi in due categorie: i menhir e i dolmen, a seconda della struttura architettonica e delle funzioni che probabilmente dovevano svolgere.

I menhir sono blocchi di pietra a volte piuttosto grandi, fissati verticalmente nel terreno, isolati o a gruppi: essi sono sistemati o su lunghe file parallele (se ne trovano esempi a Carnac, in Francia) oppure in grandi cerchi concentrici come a Stonehenge, in Inghilterra. Quanto ai dolmen, essi svolgevano la funzione di tomba collettiva: sono formati da tre o quattro pietre che, disposte in verticale, ne sostengono un’altra posta in orizzontale, che funge da copertura.

Sembra più difficile capire quale fosse la funzione dei menhir: anch’essi sono legati allo svolgimento di pratiche religiose, ma la loro disposizione è adatta pure all’osservazione dei movimenti del Sole e della Luna per determinare i cicli stagionali e, forse, i movimenti delle maree.

Un altro mistero riguarda la costruzione di monumenti così grandisoi in un tempo in cui gli uomini disponevano di tecniche ancora molto rudimentali. Forse le pietre venivano trascinate su legni fino a una buca che aveva una parete diritta e una inclinata: si facevano scivolare lungo la parete inclinata, poi si alzavano con l’aiuto di corde e si fissavano riempiendo la buca con materiale solido.

LE ORCHESTRE

Orchestra, in greco antico, indicava lo spazio del teatro destinato ai movimenti degli attori durante la rappresentazione delle tragedie; il termine fu poi ripreso agli inizi del Seicento con la nascita del melodramma per designare lo spazio in cui trovavano posto gli strumentisti più tardi fu adoperato per indicare l’insieme degli strumenti.
L’orchestra incominciò ad avere una formazione stabile a partire dalla fine del Seicento con la nascita del Concerto grosso che utilizzava essenzialmente gli archi e il clavicembalo.

Con il passare del tempo l’organico dell’orchestra si ingrandì grazie all’aggiunta di nuovi strumenti (di tutte le categorie), ma fu H.Berlioz, nell’Ottocento, a comprendere la necessità di indicare con precisione il numero degli orchestrali, dosando con attenzione la quantità dei diversi strumenti in modo che alcuni non prevalessero sugli altri, determinò anche la disposizione degli strumenti sul palco, tenendo conto della loro potenza sonora, per evitare che quelli dal suono più tenue venissero coperti da altri più potenti.
Ecco quali furono nel tempo, le diverse composizioni dell’orchestra.

Nel primo Settecento
(Bach, Haendel, Vivaldi). Circa 17 elementi (violini, viole, violoncelli, oboi, trombe, fagotti, clavicembalo e violone per il “basso continuo”).

Nel secondo Settecento
(Haydn, Mozart). Circa 30 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, timpani).

Nel primo Ottocento
(Beethoven). Circa 60 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, timpani, triangolo). L’orchestra incomincia a essere “sinfonica”.

Nel secondo Ottocento
(Ciaikovsky). Circa 80 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, arpa, flauti, ottavino, oboi, corno inglese, clarinetti, fagotti, corni, tromboni, basso tuba, timpani, triangolo).

Nel primo Novecento
(Strawinsky, Respighi). Circa 100 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, ottavino, oboi, corno inglese, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, grancassa).

Il culmine di questo continuo ampliarsi dell’organico orchestrale venne raggiunto con i lavori di Gustav Mahler e di Richard Strauss, che inserirono in alcune composizione anche strumenti decisamente insoliti come i “campanacci da mucche” e la “macchina del vento”.
In reazione a questo continuo ingigantimento dell’organico orchestrale, incominciò a formarsi l’idea dell’orchestra da camera, con un numero assai limitato di esecutori (circa 15-20). Con l’avvento della musica jazz e leggera, l’orchestra ha acquistato caratteristiche particolari, grazie anche all’aggiunta di strumenti abitualmente non usati nell’orchestra sinfonica (come i saxofoni, la batteria e la chitarra).

 

FRANZ LISZT

1811
nasce in Ungheria da madre tedesca.

1822
studia pianoforte e composizione a Vienna; si sposta quindi a Parigi, ma non può iscriversi al Conservatorio in quanto straniero: non svolge pertanto studi regolari.

1824-25
inizia la carriera di pianista virtuoso e compie le prime tournées in Gran Bretagna e in Francia. Compone i suoi primi pezzi, tra i quali sette Variazioni brillanti su un tema di Rossini e un Allegro di bravura. Si accosta anche all’opera, con Don Sancho ovvero Il castello dell’amore, ma senza successo.

1826-34
stabilitosi a Parigi, vive di lezioni private; conosce Paganini, Rossini ed anche vari scrittori, pittori e filosofi dell’epoca: la musica infatti sarà per lui sempre coinvolta con le altre forme d’espressione artistica. Studia ancora assiduamente il pianoforte, dà concerti e crea i suoi primi significativi lavori pianistici, come le Armonie poetiche e religiose.

1835-37
si stabilisce a Ginevra con Marie d’Agoult, dalla quale ha una figlia, Blandine; scrive il primo ciclo di Anni di pellegrinaggio per pianoforte, dedicato alla Svizzera. Intraprende un’intensa attività concertistica: scende anche in Italia, dove gli nasce la secondogenita Cosima. Inizia a comporre il secondo ciclo pianistico degli Anni di pellegrinaggio, dedicato all’Italia.

1838-42
scrive per pianoforte gli Studi di esecuzione trascendentale da Paganini. Ha un terzo figlio, Daniel. Continua a dare concerti non solo in Germania, ma anche in Russia, Belgio, Olanda, Portogallo, Turchia (dove suona nell’harem del sultano); si separa da Marie d’Agoult.

1847-48
considera conclusa la sua attività di concertista virtuoso e si stabilisce a Weimar come direttore dell’orchestra del Teatro di Corte. Qui entra in relazione con una principessa russa che lo spinge a comporre quelli che egli chiama poemi sinfonici: Tasso, lamento e trionfo, I preludi, Prometeo, Mazeppa, Amleto, ecc.  In tutto ne scrive 12.

1849-50
A Weimar offre ospitalità a Wagner che da dovuto fuggire da Dresda; si interessa alle sue opere facendo rappresentare in prima assoluta il Lohengrin.

1852-57
scrive la Sonata in si minore per pianoforte. Organizza una serie di concerti in onore di Berlioz. Presenta i suoi due Concerti per pianoforte e orchestra.

1861-65
Lascia Weimar e si trasferisce a Roma, ove si fa abata e si dedica prevalentemente alla composizione di brani religiosi come gli oratori La leggenda di Santa Elisabetta e Christus.

1869-75
si assenta talvolta da Roma per tenere corsi di pianoforte a Weimar. La figlia Cosima sposa in seconde nozze Richard Wagner, che diviene così genero di Liszt. E’ nominato consigliere reale e poi presidente dell’Accademia Statale di Musica di Budapest, dove insegna pianoforte.

1886
viene solennemente festeggiato in molte città d’Europa per i suoi 75 anni, ma proprio in quel periodo, mentre si trova a Bayreuth per assistere ad alcune rappresentazioni delle opere di Wagner, muore di polmonite, lasciando come unico patrimonio la sua tonaca e pochi capi di biancheria.

LENIN

Vladimir Il’ic Ul’janov (Lenin era uno pseudonimo) nacque nel 1870 in una famiglia piccolo-borghese di tendenze progressiste. Suo fratello Alessandro fu giustiziato per aver partecipato a un attentato terroristico contro lo zar: Lenin ne raccolse l’eredità dedicandosi all’attività rivoluzionaria quando ancora era studente (frequentava la facoltà di Legge).

Tuttavia egli era persuaso che populismo e terrorismo fossero fasi superate, e che fosse giunto il momento di mettere in pratica le teorie di Mar, di cui era profondo studioso: infatti partecipò alla fondazione del Partito operaio socialdemocratico russo (1898). Ben presto però le sue posizioni si discostarono da quelle della socialdemocrazia perché egli riteneva che la classe operaia fosse in grado soltanto di lottare per essere meno sfruttata, mentre al Partito spettava il compito di educare le masse e guidarle alla presa del potere. Per questo il Partito doveva essere dotato di una forte organizzazione fatta di “rivoluzionari di professione”, e di una rigida disciplina.

Arrestato più volte, Lenin trascorse gli anni tra il 1895 e il 1914 tra il carcere, la deportazione in Siberia e il confino.
Allo scoppio della guerra per evitare un nuovo arresto fuggì in Svizzera: qui il suo stile di vita austero costituì un esempio per gli emigrati e divenne poi un modello.
La sua capacità di comunicare agli altri le proprie convinzioni era eccezionale, e se ne ebbe una prova nel 1917 quando, scoppiata la rivoluzione a Pietrogrado, il governo tedesco lo fece rientrare in patria. Infatti era noto che Lenin voleva la pace immediata e i Tedeschi speravano che la sua presenza avrebbe spronato i Russi a chiedere l’armistizio, liberando gli Imperi centrali da un pericoloso nemico.

Il viaggio in treno da Zurigo a Pietrogrado attraverso l’Europa in guerra fu drammaticamente avventuroso: chiuso con la moglie e pochi compagni in un vagone piombato, Lenin era scortato da decine di soldati tedeschi, che egli riuscì a convincere, una volta arrivati in Russia, a partecipare alla Rivoluzione.
Il Partito bolscevico sosteneva la necessità di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria: per affermare la dittatura del proletariato Lenin spese ogni energia. Lucido e determinato, seppe affrontare anche con durezza ostacoli e responsabilità di ogni genere, sino alla vittoria completa della sua linea politica.
Colpito da un primo ictus cerebrale nel 1922, morì nel 1924.