QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

LA STAMPA DI FINE OTTOCENTO

A partire dagli anni Ottanta furono fondati e/o si affermarono in Italia alcuni importanti quotidiani che si rivolgevano a un pubblico di lettori reso più numeroso dai progressi dell’alfabetismo derivati dalla più estesa scolarizzazione. Questi giornali raggiunsero alte tirature ed ebbero un ruolo di primo piano contribuendo ad alimentare il dibattito politico-intellettuale e a dare un diverso volto al giornalismo dell’epoca. Tra le esperienze più significative si collocava Il Secolo di Milano, il cui proprietario era l’editore Edoardo Sonzogno. Fondato nel 1866, durante gli anni Novanta superò le 100.000 copie di tiratura, facendosi portavoce delle battaglie dei radicali guidati da Felice Cavallotti per la moralizzazione della vita pubblica. Sempre a Milano, Eugenio Torelli-Viollier creò Il Corriere della Sera, ispirato a un liberalismo moderato. Esso si distinse per l’ottima resa tecnica, dovuta anche alla modernità delle attrezzature tipografiche (fu introdotto, per esempio, l’uso delle rotative), e per la ricchezza delle informazioni, garantita dall’efficiente organizzazione redazionale. A Roma, oltre a giornali umoristici, letterari e mondani, quali Capitan Fracassa (1880) e Il Fanfulla (1870), che dopo il 1882 appoggiò la politica di Depretis, videro la luce quotidiani destinati a notevole fortuna: nel 1878 Il Messaggero e La Tribuna nel 1883, entrambi di orientamento radicale. Nell’Italia meridionale grande successo ebbero Il Corriere di Napoli, pubblicato dal 1888 sotto la direzione di Edoardo Scarfoglio, e Il Mattino, fondato da Scarfoglio nel 1891 insieme alla moglie, la scrittrice Matilde Serao, e divenuto ben presto il maggiore quotidiano del Mezzogiorno. Altre importanti iniziative editoriali furono il bolognese Il Resto del Carlino (1885), Il Secolo XIX di Genova (1885), Il Gazzettino di Venezia (1887), La Stampa, nata a Torino nel 1895 come continuazione della Gazzetta piemontese.

GIROLAMO FRESCOBALDI

(Ferrara 1583 – Roma 1643) compositore.

Allievo di Luzzaschi, all’età di vent’anni si trasferì a Roma, dove, nel 1607, ebbe la nomina a organista in S.Maria in Trastevere. Nello stesso anno seguì il suo protettore, il cardinale Bentivoglio, nelle Fiandre. Esordì come compositore pubblicando ad Anversa una serie di madrigali (Il primo libro de madrigali a cinque voci). In seguito sarebbe tornato raramente alla musica vocale (si ricordano i due libri di Arie musicali a una-tre voci con clavicembalo o tiorba, 1630), che non gli era congeniale. E’ infatti nel campo della musica strumentale che Frescobaldi rivelò la sua grandezza e conquistò fama europea. Nel 1608, al ritorno dalle Fiandre, pubblicò a Milano un libro di Fantasie a quattro che, pur rivelando ancora palesemente la derivazione dai modelli polifonici vocali, già mostra di quale inventiva ritmica egli fosse capace, moltiplicando le possibilità dei giochi contrappuntistici. Dopo un soggiorno di alcuni mesi a Ferrara, vinto il concorso per il posto di organista alla cappella Giulia, Frescobaldi si stabilì a Roma, prestando contemporaneamente servizio per gli Aldobrandini; e a Roma rimase per tutto il resto della vita, salvo due parentesi; l’una a Mantova presso i Gonzaga (nel 1614, per soli due mesi), l’altra a Firenze presso il granduca di Toscana Ferdinando II (1628-34).

Sin dal tempo del suo definitivo trasferimento a Roma, Frescobaldi si era fatto apprezzare come compositore non meno che come organista; i contemporanei stupivano per l’arte prodigiosa con la quale sapeva trattare lo strumento, e le sue musiche erano tanto richieste da doversene tirare più edizioni in breve spazio di tempo. Questa popolarità acquisita in tutti gli ambienti, dai più umili agli aristocratici, da quelli dei semplici dilettanti a quelli dei più severi teorici, si spiega con l’assenza, in Frescobaldi, di ogni forma di astrazione intellettualistica e di meccanicismo; il rilievo che la materia musicale assume nelle sue composizioni, in un mirabile processo di semplicità e di appassionato candore, è tale da far dimenticare il problema dei mezzi tecnici. Questo particolare fascino si riflette nella riconquistata atmosfera religiosa, nel ritorno alla meditata spiritualità dell’ufficio ecclesiastico, al di là di ogni barocco turbamento dei sensi e senza il ricorso a quell’eloquenza mondana che dopo M.A.Cavazzoni aveva toccato in varia misura tutti i musicisti, impegnati a rivestire di note un culto sempre più esteriore. Di tale severità di intenzioni fanno fede il libro dei Ricercari et canzoni franzese (1615), nel quale Frescobaldi riassunse e concluse il processo storico di queste forme, trattandole con il più scrupoloso rispetto dei movimenti contrappuntistici, e i due libri di Toccate. Il primo (Toccate e partite d’intavolatura di Cimbalo, 1615) presenta una straordinaria varietà di situazioni musicali, anche per l’impiego massiccio della tecnica della variazione e della fioritura. Il secondo, dal titolo più ampio (Toccate, Canzone, Versi d’Hinni, Magnificat, Gagliarde, Correnti et altre partite d’intavolatura di Cimbalo et Organo, 1627), prevede esplicitamente un impiego liturgico di molte composizioni (alcune toccate, fra l’altro, sono scritte per l’elevazione, ed evitano accuratamente ogni virtuosismo per adagiarsi in un caldo clima contemplativo), pur non mancando di pagine di mero intrattenimento. Tra questi due libri, nel 1624, Frescobaldi ne pubblicò anche uno di Capricci fatti sopra diversi Soggetti, et Arie. Se poco aggiunge all’arte di Frescobaldi, la raccolta delle Canzoni a una-quattro voci per sonare con ogni sorte di strumenti (1628), di grandissimo rilievo è invece il risultato dei Fiori Musicali di diverse compositioni, Toccate, Kyrie, Canzoni, Capricci e Ricercari (Venezia, 1635), raccolta di 46 brani, fra i quali soltanto gli ultimi due sono profani (e fra questi è la celebre bergamasca). La raccolta si propone di presentare i brani occorrenti per tre messe per organo (della Domenica, degli Apostoli, della Madonna); costante è pertanto l’impiego delle melodie gregoriane, trattate secondo la  tecnica della polifonia su canto fermo. Qui è abolito ogni apparato esteriore, e risultano persino semplificate le difficoltà di esecuzione; il discorso musicale appare sofferto, nato dopo un lungo travaglio fra tentativi e rifacimenti, e tuttavia spontaneo, di efficacia immediata, capace di imporsi come perentoria, chiarificante lezione di stile e di gusto. Nel 1645 vennero pubblicate, postume, le Canzoni alla francese in partitura, mentre numerose composizioni per organo restarono manoscritte e sono state edite solo in tempi moderni. Composizioni vocali sacre e profane furono pubblicate in antologie dell’epoca, altre restarono manoscritte.

 

JOHANN MICHAEL HAYDN

(Rohrau 1737 – Salisburgo 1806) compositore austriaco.

Nel 1745 raggiunse a Vienna il fratello, Franz Joseph, e anch’egli divenne ragazzo cantore nel coro della cappella di S. Stefano. Nel frattempo continuava lo studio del violino, dell’organo e della composizione. Nel 1757 fu nominato Kapellmeister a Grosswardein, nel 1762 Hofmusicus e Concertmeister a Salisburgo alla corte dell’arcivescovo Colloredo, prima come supplente di L.Mozart e di A.Salieri, poi (1781) come successore di W.A.Mozart. Svolgeva intanto attività di compositore, di organista presso varie chiese e di insegnante; furono suoi allievi, tra gli altri, C.M. von Weber, A.Diabelli, A.Reicha.
Sposò la cantante Magdalena Lipp, interprete, fra l’altro di opere di Mozart. Nel 1777 compì un viaggio in Italia; tornato in patria, nel 1800 perdette quasi tutti i suoi beni in seguito all’occupazione di Salisburgo da parte delle truppe francesi. Si trasferì allora a Vienna, dove gli vennero in aiuto il fratello e l’imperatrice Maria Teresa.
Nel 1804 fu nominato membro dell’Accademia reale di musica di Svezia; l’anno seguente, l’imperatrice gli commissionò un Requiem, ma la morte lo interruppe al Dies irae.
Fra le principali composizioni di Haydn fu apprezzato soprattutto come autore di musica sacra, in lingua latina ma anche, secondo le direttive di riforma dell’arcivescovo Colloredo, in tedesco. Inferiori alla produzione sacra, ma non prive di interesse, sono le composizioni per teatro e strumentali, caratterizzate soprattutto da una sicura conoscenza della voce e delle risorse strumentali.

 

ENRICO DE NICOLA

Il 28 giugno 1946 Enrico De Nicola venne eletto capo provvisorio della Repubblica Italiana, con 396 voti su 504 votanti, superando la prevista maggioranza di tre quinti dell’Assemblea costituente. Il 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, divenne presidente della repubblica fino all’11 maggio, quando cedette la carica a Luigi Einaudi, primo presidente eletto dal Parlamento.

De Nicola era nato a Napoli nel 1877. Eletto alla Camera dei deputati nel 1909, aveva ricoperto la carica di presidente dell’assemblea di Montecitorio dal 1920 al 1924. Nel 1921 si era impegnato nella definizione di un “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti e aveva offerto la sua mediazione per la formazione del governo Bonomi. Per due volte nel 1922 fu incaricato di formare un governo, ma non riuscì nell’intento a causa dei veti posti da popolari e giolittiani. In occasione delle elezioni del 1924, che segnarono il definitivo affossamento dello Stato liberale, in un primo momento aderì al listone fascista, dal quale ritirò la propria candidatura pochi giorni prima del voto, dichiarando di volersi ritirare dalla lotta politica. Fu nominato senatore nel 1929. Nella delicata fase attraversata dal paese dopo la caduta del fascismo e l’8 settembre 1943, De Nicola elaborò la soluzione di compromesso per la questione istituzionale che portò al ritiro di Vittorio Emanuele III e all’attribuzione della luogotenenza a Umberto di Savoia. Dopo l’esperienza di capo dello Stato ricoprì la carica di presidente del Senato nel 1951-1952. Fu presidente della prima Corte costituzionale istituita nel 1956. Morì a Torre del Greco (NA) nel 1959.

1834: LA GIOVINE EUROPA

Tra Svizzera, Francia, Belgio e Inghilterra (l’Europa liberale che si opponeva all’Europa della Santa alleanza di Austria, Russia e Prussia) si muoveva un variegato mondo di esuli politici, le cui file si erano fortemente ingrossate dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 in Italia e in Polonia. I polacchi in particolare, che avevano proclamato l’indipendenza del proprio paese nel gennaio 1831 e avevano dovuto precipitosamente fuggire nel settembre per sottrarsi alla durissima repressione dello zar Nicola I, vivevano problemi assai vicini a quelli dei perseguitati politici italiani, schiacciati dalla politica della Santa alleanza.
Nel generale riflusso della spinta democratica in Europa, nell’aprile del 1834 Giuseppe Mazzini progettò un’organizzazione di carattere sovranazionale, da opporre alla Carboneria ormai passata sotto il controllo di Filippo Buonarroti. In contrapposizione al cosmopolitismo delle antiche società segrete, Mazzini pensò a una Giovine Europa all’interno della quale ogni associazione nazionale (la Giovine Italia, la Giovini Polonia, la Giovine Germania, e successivamente la Giovine Svizzera) doveva operare in modo specifico per l’indipendenza del suo popolo. Non su una rivoluzione democratica europea sul modello giacobino né tantomeno sull’attesa della Francia liberatrice dovevano contare i patrioti europei, ma la nuova Europa doveva nascere dalla “missione particolare” che spetta a ogni uomo e a ogni popolo, missione che “mentre costituisce la individualità di quell’uomo e di quel popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’umanità”. La Giovine Europa non conseguì significativi risultati politici e si dissolse in pochi anni, ma rimane un momento significativo della crisi, del cosmopolitismo illuminista e del trionfo dell’idea romantica della “missione nazionale”.