QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

BENEDETTO CROCE

Filosofo, storico, critico letterario, uomo pubblico. Croce fu uno dei principali protagonisti della vita culturale italiana della prima metà del Novecento.

Nato a Pescasseroli nel 1866, si formò alla scuola dello zio Silvio Spaventa e di Antonio Labriola; aderì per un breve periodo al marxismo, presto ridotto a canone di interpretazione storica nei saggi raccolti il Materialismo storico ed economia marxistica del 1900. I suoi contatti con Giovanni Gentile, che con Croce guidò la reazione contro il dominante positivismo, risalivano al 1896 e furono assai intensi fino al 1925, quando si interruppero bruscamente per il diverso atteggiamento assunto dai due pensatori di fronte al fascismo. L’attività intellettuale di Croce trovò uno strumento privilegiato nella rivista “La Critica”, da lui fondata nel 1903. Nel primo decennio del secolo completò la sua elaborazione filosofica: nel 1902 apparve l’Estetica; nel 1905, la Logica; nel 1909, la Filosofia della pratica.

Nominato senatore del regno nel 1910, Croce divenne ministro della pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti. Simpatizzò inizialmente con il fascismo, apprezzandone la dichiarata volontà di restaurazione dopo la crisi politica e sociale del primo dopoguerra. Se ne allontanò solo nel 1925: alla sua iniziativa si deve la redazione di Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti. Negli anni della dittatura Croce divenne il punto di riferimento non solo dall’antifascismo liberale, ma anche dei giovani intellettuali che avvertivano il plumbeo clima della dittatura. Alla caduta del fascismo si adoperò per la salvezza della monarchia, cercando vanamente di indurre Vittorio Emanuele III all’abdicazione e il figlio Umberto alla rinuncia al trono. Fu ministro senza portafoglio nel II ministero Badoglio e nel I governo Bonomi, presidente del Partito liberale italiano fino al 1947 e senatore di diritto nella prima legislatura.

Morì a Napoli il 20 novembre 1952.

GUGLIELMO GIANNINI E L’UOMO QUALUNQUE

Il movimento dell’Uomo qualunque si formò sull’onda del successo dell’omonimo settimanale satirico creato nel dicembre 1944 dal commediografo e regista Guglielmo Giannini, nato a Pozzuoli (NA) il 14 ottobre 1891.

Il programma era sinteticamente espresso in affermazioni del tipo “abbasso tutti!”, oppure “l’uomo qualunque è stufo di tutti, il suo solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa più le scatole”. Nella visione qualunquista, per gestire la cosa pubblica non erano necessari i “politici”, ma soltanto amministratori, dei “ragionieri”. Con toni graffianti e irriverenti, che spesso scivolavano nella volgarità, “L’uomo qualunque” indirizzò i suoi strali in particolare contro la politica di epurazione, gli ideali resistenziali e gli uomini dei CLN.

Costituitosi in partito del congresso nazionale di Roma (16-19 febbraio 1946), il Fronte dell’uomo qualunque ottenne consistenti successi nelle elezioni per la Costituente e nelle amministrative dello stesso anno. Nel corso del 1947 ebbe inizio la sua parabola discendente. Dopo alcuni tentativi di stabilire alleanze con i liberali e i cattolici, Giannini avviò a sorpresa un dialogo con Togliatti, ipotizzando un’alleanza con il PCI. Tale decisione fu accolta malissimo nella file del movimento, nel quale si levarono le voci dissenzienti di filofascisti e monarchici. Molti di questi confluirono nel Movimento sociale italiano e nel Partito monarchico. Nelle elezioni del 1948 l’Uomo qualunque  si presentò insieme con i liberali sotto l’insegna del Blocco nazionale e riuscì a fare eleggere soltanto cinque rappresentanti, tra i quali non c’era il suo fondatore. Giannini si candidò ancora come indipendente nelle liste della DC nel 1953 e nel 1958 per i monarchici, senza mai riuscire a essere eletto.

Morì a Roma il 13 ottobre 1960. Con la sua scomparsa anche il settimanale da lui fondato cessò le pubblicazioni.

LE ENCICLICHE DI PAOLO VI

Agli osservatori laici le encicliche di Paolo VI parvero contenere messaggi contrastanti. La Populorum progressio, resa pubblica il 28 marzo 1967, si inseriva nella linea giovannea. Incentrata sul tema della cooperazione tra i popoli e sul problema dei paesi in via di sviluppo, essa denunciava i “misfatti” e le “conseguenze negative” del passato colonialista e del neocolonialismo. Segnalava l’aggravamento degli squilibri tra popoli ricchi e popoli poveri, riconosceva il diritto di tutti i popoli alla libertà, alla liberazione dalla miseria, dalla fame, dalle malattie e dall’ignoranza. Proponeva a tal fine la costituzione di un fondo mondiale, da alimentare con i finanziamenti finora destinati a spese militari e con gli aiuti dei paesi industrializzati. La Populorum progressio ribadiva la condanna della violenza e delle rivoluzioni, rigettava la “collettivizzazione integrale” e la “pianificazione arbitraria” e optava per un programma di riforme, osservando che anche il liberoscambismo non era in grado di risolvere i problemi dei paesi poveri. La Sacerdotalis coelibatus, del 24 giugno 1967, e la Humanae vitae, del 25 luglio 1968, rivelavano d’altra parte l’esigenza di non recidere, nell’epoca dei rivolgimenti postconciliari, i legami con gli orientamenti tradizionali presenti nella Chiesa. La Sacerdotalis coelibatus riaffermava l’obbligo al celibato per i sacerdoti; ribadiva il valore del matrimonio, ma ammoniva che “l’uomo (…) non è soltanto carne, e l’istinto sessuale non è tutto in lui”. L’Humanae vitae, che ebbe una fredda accoglienza, sottolineava la “connessione inscindibile (…) tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”; respingeva l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo e confermava la condanna dell’aborto.

 

IL CANTO GREGORIANO

Canto proprio della liturgia romana su testo tratto dalla Sacra Scrittura.
Arte musicale raffinata, non popolare, il canto gregoriano è monodico e ripudia gli strumenti. Costituisce un repertorio vasto, eterogeneo, per lo più anonimo, di circa 3000 melodie di epoche, forme, luoghi d’origine differenti. La storia del gregoriano si può dividere in vari periodi. Nei primi secoli i cristiani, provenendo da regioni culturalmente differenti, concorsero a formare riti e canti con caratteristiche diverse, e la chiesa di Roma, essendo legata alle chiese orientali, soprattutto a quelle greche, ne adottò la lingua e probabilmente anche i canti. Quando, verso la fine del sec. IV, essa si diede un rito proprio in latino, poco alla volta plasmò pure un proprio stile di canto, anche se con reminiscenze dei modelli giunti dall’Oriente. Perciò a Roma, lungo il sec. V, si andò formando un tipo di canto con forti influssi della musica ebraica, greca, bizantina. Tale canto, detto antico romano, è quello che confluirà più tardi nel canto gregoriano, ma per il sec. VII si parla ancora di canto romano. Verso il 753 gli antifonari romani (raccolte di testi letterari per i riti e i canti) passarono in Gallia, dove le melodie romane furono adattate ai gusti locali. Sarebbero queste le melodie che san Gregorio Magno, secondo una testimonianza di Giovanni Diacono (sec. IX), avrebbe fatto copiare e codificare in un antifonario archetipo, detto Antiphonarium cento. Il nome di canto gregoriano a ogni modo, fu usato per la prima volta solo alla fine del sec. VIII. Il repertorio di questo periodo primitivo è ritenuto il vero, autentito canto gregoriano e viene detto gallico-romanoi; a esso appartengono i canti del proprio della messa (Introito, Graduale, Tractus, qualche Alleluia, Offertorio, Communio) e, probabilmente, le Antifone e i Responsori dell’Ufficio.

Nel sec. IX Carlo Magno avviò un programma di espansione del canto gregoriano, che portò alla lenta eliminazione di altri riti e canti (come il gallicano e il mozarabico). In questo secondo periodo, che giunge fino al sec. XI, diversi monasteri divennero centri famosi per la diffusione del canto gregoriano (S.Gallo, Einsiedeln, Fulda, Tours, Corbie, Nonantola, Montecassino), si formarono i canti dell’ordinario della messa (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) e fiorirono i tropi e le sequenze. Alla fine del sec. IX, con la nascita della scrittura musicale neumatica, le melodie, che fino ad allora si tramandavano oralmente, poterono essere ricordate con maggiore precisione e mantenersi esenti da infiltrazioni estranee. Ma dal sec. XI il canto gregoriano non poté evitare di subire i condizionamenti recati dalla musica trovadorica e dalla nascente polifonia, nella quale venne affermandosi l’uso di impiegare le melodie gregoriane per elaborazioni contrappuntistiche.

Dal sec. XVI alla prima metà del XIX si ebbe un periodo di decadenza del canto gregoriano, con varie alterazioni e mutilazioni delle melodie originarie; ne fu un esempio l’Editio medicea (1614-15) del Graduale, il libro contenente i canti della messa per tutto l’anno ecclesiastico. In essa i neumi furono interpretati misuratamente, cioè senza la libertà ritmica originaria, e i melismi (cioè i lunghi vocalizzi) vennero abbreviati. Una riedizione dell’Editio medicea fu effettuata tra il 1871 e l’81 ed è nota come Editio Ratisbonensis. Finalmente, a metà del secolo scorso i monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes avviarono un’opera di ripristino del canto gregoriano per riportarlo all’integrità originaria. Si studiarono e si confrontarono i codici più antichi (secc. IX-X), promuovendo una più precisa interpretazione delle melodie, nonché una pratica esecutiva consona alla loro semplicità e purezza. Si avvertì inoltre l’esigenza di estendere la conoscenza dei codici a una più ampia cerchia di studiosi. Perciò, nel 1889, si cominciò a pubblicare la serie di volumi della Paléographie musicale, riproducenti in copia fotostatica gli antichi codici; mentre, a cura della Santa Sede, fu avviata nel 1905 la pubblicazione di una Editio vaticana delle melodie gregoriane ufficiali, scritte in note quadrate e senza segni d’interpretazione ritmica.

La teoria del canto gregoriano è basata su un sistema modale di otto scale, costituito da quattro modi detti autentici e quattro plagali, questi ultimi una quarta sotto gli autentici. A ogni modo autentico corrisponde un plagale, con cui ha in comune la nota ch funge da base alla melodia e da conclusione, detta finale. Si hanno così quattro finali, riferibili alle note  re, mi, fa, sol. Questa teoria fece la sua prima apparizione nei secc. VIII-IX e ricalca, in parte, il sistema teorico della musica bizantina. Circa il ritmo, poco si sa di sicuro. Tra le varie ipotesi, i benedettini di Solesmes (in particolare i gregorianisti Dom Guéranger, Dom Pothier e Dom Macquereau) adottarono la teoria del ritmo libero, proprio della declamazione, dando a ogni nota il valore di durata suggerito dalla pronuncia della sillaba. Negli ultimi decenni, gli apporti dell’etnomusicologia allo studio delle tradizioni musicali antiche hanno contribuito a un nuovo indirizzo nell’impostazione del problema, rappresentato dalla cosiddetta semiologia gregoriana, secondo la quale i neumi antichi non sono da intendersi come una forma “incompleta” e “imperfetta” di notazione, ma come la trascrizione grafica di una prassi esecutiva “orale” che investe la struttura musicale stessa nei suoi aspetti ritmico-musicali ed espressivi. Sul controverso problema del ritmo gregoriano questa nuova impostazione ha proposto soluzioni ancora diverse da quelle classiche del “ritmo oratorio” di Dom Pothier, del “ritmo libero” di Dom Macquereau, o da quella “mensurale” avanzata da altri.

1925: LA BATTAGLIA DEL GRANO

Quando venne lanciata la “battaglia del grano”, annunciata il 14 giugno 1925, le importazioni di cereali oscillavano tra i 22 e i 25.000.000 di quintali e incidevano nella misura di 4 miliardi di lire, circa la metà del deficit della bilancia commerciale italiana. L’obiettivo dell’autosufficienza granaria venne visto come fattore di prestigio e dimostrazione dell’indipendenza della nazione di fronte all’ipotesi di una crisi nei rapporti tra l’Italia e il resto del mondo, dovuta sia a motivi economici, sia a possibili cause belliche. Si avviò attorno a questo tema una vasta propaganda condotta dal governo, autorità locali, giornali, scuole, sindacati, tecnici agrari e persino parroci delle campagne. Vennero istituiti concorsi nazionali e provinciali con l’assegnazione ai migliori agricoltori di premi consegnati personalmente dalle massime autorità.
Mussolini fu spesso presente a tali manifestazioni. Il 1931 fu poi l’anno dell’annuncio della “vittoria sul grano”: con una produzione di 81.000.000 di quintali, l’Italia per la prima volta coprì quasi per intero il suo fabbisogno di cereali. Obiettivo della battaglia era stato aumentare la produzione, mantenendo identica la superficie coltivata. Tale risultato fu, in parte, conseguito al Nord attraverso la massiccia introduzione di concimi chimici e macchine agricole. Al contrario, nel Mezzogiorno l’aumento dei rendimenti avvenne attraverso l’estensione delle zone coltivate a grano, seminato anche su terreni poco adatti a riceverlo, a scapito di altre coltivazioni più redditizie. Inoltre la diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati internazionali a partire dal 1926 costrinse il governo a intervenire con successivi aumenti della tariffa doganale protezionistica. In tal modo, la “battaglia del grano” finì per introdurre nel settore agricolo gravi elementi di crisi, che comunque intaccarono solo in parte il valore propagandistico dell’iniziativa.

GIOVANNI BATTISTA ANGIOLETTI

Letterato (Milano 1896-Napoli 1961). Nel 1920 fondò la rivista letteraria “Trifalco”; fu direttore dell’”Italia Letteraria”, tornata ad essere, nel secondo dopoguerra, la “Fiera Letteraria”. Diresse i programmi culturali della RAI e fondò la Comunità europea degli scrittori. Angioletti, è uno dei principali rappresentanti del gusto letterario per l’”aura lirica” tipico della “Ronda”: nella sua prosa le immagini delle cose appaiono sospese in una evocazione poetica, impressioni e sensazioni si aprono a miti e fantasie. In uno stile pacato e misurato, volto a una nitida intelligenza della realtà, l’autore ama fondere racconto, dialogo e descrizione.
L’affettuoso sentimento della propria terra, un elegiaco senso del tempo, il gioco della memoria sono i suoi temi più intensi. Angioletti, fu anche polemista letterario, fedele a un’idea di umanesimo europeo come nobile richiamo morale, da opporre all’orrore della società contemporanea. Fra le sue opere ricordiamo le raccolte di saggi La terra e l’avvenire, Scrittori d’Europa, Ritratto del mio paese, Le carte parlanti, Un europeo d’Italia, i racconti de Il giorno del giudizio, i romanzi Donata e La memoria.

 

AFRODITE

Dea greca dell’amore, della fertilità e della bellezza, la cui nascita è attestata in due versioni mitiche.
Una, che la ricollega alla primordiale cosmogonia dalle acque, secondo l’etimologia del suo nome (dal greco afròs, schiuma, con riferimento alla schiuma del mare in cui cadde il membro virile di Urano e da cui nacque la dea, detta perciò Anadiomene). L’altra, che riduce la primordialità della dea e la subordina al cosmo retto da Zeus, facendone una sua figlia (e della dea Dione). L’origine della figura greca di Afrodite, è oggetto di controversie fra gli studiosi. La tendenza ermeneutica riconosce nella dea la sopravvivenza dell’antica dea-madre mediterranea, dall’accentuato carattere erotico, connessa con la fertilità della terra e con la vegetazione. Indubbia è anche la sua affinità con la Core micenea, cui la collega una marcata analogia: Afrodite, possiede aspetti partenici, come Core conserva aspetti afroditici ed erotici; Afrodite, proviene da divinità cretesi che possedevano, come Core, caratteri connessi con l’escatologia. Ciò consente di comprendere più a fondo la stessa natura erotica di Afrodite: la sua componente mistica pone l’unione sessuale con la dea in una prospettiva di rivelazione ultraterrena. In tale prospettiva vanno considerate le forme di prostituzione sacra collegate al culto di Afrodite: le sacerdotesse-prostitute consentivano a celebrare attraverso l’unione sessuale un rito di fertilità e di rinnovamento garante di un’illuminazione divina e della sopravvivenza oltre la morte.
La tradizione mitologica greca, a partire da Omero, mostra Afrodite come sposa di Efesto e amante di Ares. L’apparente contrasto fra la dea della bellezza e il dio storpio si spiega con l’origine stessa di Efesto, un dio iniziatico del passaggio nell’aldilà e paredro della Grande Dea da cui derivò Afrodite. Successivamente Ares fu spesso considerato lo sposo legittimo di Afrodite: da questa unione nacquero Eros e, secondo il ciclo tebano, Armonia, la sposa di Cadmo. Altri amanti di Afrodite furono Ermes (da cui generò Ermafrodito) e Bute ( da cui generò Erice). Fra gli appellativi di Afrodite, spiccano quelli di Cipria (per la priorità del culto cipriota), Citerea (dall’isola di Citera, dov’era un suo santuario), e in particolare Urania (l’Afrodite, precosmica generata da Urano) e Pandemos (l’Afrodite pubblica, cosmica, inserita nell’ordinamento urbano), entrambi usati da Platone per simboleggiare l’amore celeste e terreno. In età ellenistica Afrodite fu identificata con le egizie Hathor e Isi, mentre nell’ambiente romano fu identificata con Venere.