QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

COMPLESSI DA CAMERA

L’uso contemporaneo di più strumenti diversi ha dato luogo a una grande varietà di organici che, in base al numero degli esecutori, si distinguono in: complesso da camera e orchestra.

La precisazione “da camera” incominciò ad entrare in uso nel Seicento per distinguere lavori come Concerti, Sonate, ecc., di genere e di ambientazione profana, da quelli “da chiesa”, di carattere e destinazione sacra.
Il termine “da camera” venne ad indicare quella musica destinata ad un limitato organico e che poteva quindi essere eseguita in una “camera”, cioè in un piccolo ambiente domestico. Bisogna infatti tener presente che solo nella seconda metà del Settecento iniziò a diffondersi l’abitudine dei concerti pubblici che erano in genere destinati alla musica orchestrale: la musica da camera rimase invece negli ambienti privati degli aristocratici e dei borghesi come semplice modo per fare musica insieme, senza la necessità assoluta che ci fosse il pubblico pagante. Solo con l’avvento del Romanticismo la musica da camera verrà eseguita in Sale da Concerto.

Al genere della musica da camera appartengono tutti quei brani eseguiti a due o più strumenti (fino a dieci). Quando l’esecutore è uno solo si parla di brano solistico.
Quindi abbiamo:

- il duo, ad esempio, per pianoforte e violino, pianoforte e violoncello, flauto e pianoforte, due violini, violino e viola, ecc.;

- il trio, in genere formato da pianoforte, violino e violoncello; oppure da violino, viola e violoncello (in questo caso viene definito “trio per archi”);

- il quartetto, costituito generalmente da due violini, una viola e un violoncello. Più raro è l’organico con pianoforte, violino, viola e violoncello;

- il quintetto, formato in genere da due violini, due viole e un violoncello (definito “quintetto di archi”). Si ha invece il “quintetto con pianoforte” quando uno degli archi è sostituito dal pianoforte.

Procedendo dobbiamo quindi citare il sestetto, il settimino, l’ottetto, il nonetto e il decimino: furono tutti organici in cui il tipo di strumenti poteva variare con estrema libertà.
Abbiamo visto che in sostanza gli strumenti più usati sono gli archi: non bisogna però dimenticare che esistono anche composizioni da camera per soli fiati.

 

LA GENETTA

Genetta genetta
Famiglia: Viverridi

Caratteristiche: Lunghezza senza coda 40-55 cm, lunghezza coda 38-48 cm, peso 1-2,3 kg. Grande quanto un gatto domestico, corpo allungato, slanciato con arti brevi; pelo da giallastro a grigio-bruno con file di macchie nere nel senso della lunghezza; coda lunga e folta con 8-10 anelli neri; sotto gli occhi e vicino alla punta del naso macchie bianche.

Diffusione: penisola iberica, Francia meridionale, Baleari; Africa.

Habitat: savana arida, foresta tropicale aperta, pendii rocciosi fino a 2500 m di altezza.

Abitudini: notturna; solitaria, tranne nel periodo dell’accoppiamento; si arrampica bene, scendendo velocemente anche a testa in giù; si muove di soppiatto senza far rumore quando va a caccia; si pulisce spesso e abbondantemente leccandosi.

Alimentazione: piccoli animali, prevalentemente topi a altri Roditori.

Riproduzione: periodo di accoppiamento II-III e VII-VIII; gestazione 10-11 settimane; 2-4 piccoli inetti, ma già coperti di pelo; le orecchie si aprono a 5 giorni e gli occhi a 8; vengono allattati per 6 mesi e rimangono 1 anno con la madre.

La genetta non è un gatto, ma appartiene, come la mangusta, alla famiglia dei Viverridi, un gruppo di Mammiferi filogeneticamente molto antico. Essendo un tipico animale notturno, ha occhi particolarmente grandi, con i quali riesce a percepire i movimenti della preda anche con una luce molto fioca. Nella completa oscurità, però, neanche la genetta vede più nulla e inoltre, come molti animali notturni, è daltonica. Questo animale grazioso ed elegante sa muoversi perfettamente di soppiatto: rannicchiata su se stessa, scivola silenziosa sui sentieri di caccia nella macchia, agile e sicura si arrampica sugli alberi, scendendo anche a testa in giù. Agguanta la preda – per lo più topi e altri Roditori – con un balzo preciso e la trattiene poi con le zampe anteriori come fanno i nostri gatti domestici. Come i gatti può ritrarre profondamente le unghie e tiene accuratamente pulito il pelo leccandolo abbondantemente.
Nell’Europa meridionale l’uomo ha tenuto a lungo in casa genette addomesticate perché catturassero topi e ratti, prima che nel corso del Medioevo fossero soppiantate dai “moderni” gatti domestici.
La maggior parte dei Viverridi emette, da ghiandole odorifere vicine all’ano, una secrezione che ha forte odore di muschio. Questa sostanza era un tempo apprezzata e pagata a caro prezzo in Europa come componente di medicinali e soprattutto come materia prima per la produzione di profumi. Diversamente da quanto accade in Oriente, la sostanza odorosa della genetta da noi non ha più alcuna importanza economica.

 

L’ALLUVIONE DI FIRENZE

Dopo 3 giorni consecutivi di pioggia intensa una terribile alluvione si abbatté sull’Italia il 4 novembre 1966.
Tra i centri più colpiti vi erano le principali città d’arte, Venezia, Firenze, Siena, intere regioni, come le Tre Venezie, nelle quali perì un centinaio di persone, l’Emilia Romagna e la Toscana. Danni ingenti si verificarono anche in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, in Lazio e in Sardegna.
Venezia fu coperta per ventitrè ore dalle acque, e il suo patrimonio artistico subì danni enormi. Firenze fu sommersa da tre metri d’acqua dell’Arno e rimase isolata dal resto del paese. Le acque avevano inondato negozi e magazzini, rendendo assai difficile la fornitura dei beni di prima necessità. Furono sfollate 12.000 persone, mentre una settantina persero la vita. Si temette per la sorte di Ponte Vecchio. Chiese, palazzi, musei, biblioteche erano gravemente danneggiati. Opere di straordinario valore rischiarono di andare perdute per sempre: il Crocifisso di Cimabue, la Maddalena di Donatello e molte altre. Il paese manifestò grande solidarietà: non solo furono raccolti da più parti fondi per gli aiuti immediati, ma centinaia di giovani si precipitarono a Firenze per cooperare alla salvezza dei beni conservati nei musei della città e delle migliaia di volumi della Biblioteca nazionale danneggiati dalle acque. Il governo assunse immediatamente misure di emergenza: la benzina fu aumentata di 10 lire e fu imposta un’addizionale del 10% sulle imposte dirette. Ma, come scriveva il “Corriere della sera”, sarebbero stati necessari interventi preventivi a difesa del territorio per poter evitare una situazione così drammatica: ancora una volta, l’Italia era stata colta “impreparata a difendersi dalle alluvioni”.

 

I SETTE FRATELLI CERVI

I Cervi, una famiglia contadina di Campegine, in provincia di Reggio Emilia, da sempre antifascisti, dopo l’8 settembre 1943 ospitarono nella loro cascina soldati sbandati e prigionieri stranieri in fuga: li accoglievano, li nutrivano, li curavano, trovavano i collegamenti perché raggiungessero i partigiani. Il 26 novembre 1943 la milizia repubblichina circondò la cascina sparando: i sette fratelli e il padre risposero con le bombe a mano e con un fucile mitragliatore. Allora i fascisti incendiarono stalla e abitazione; perché le mogli e i figli si salvassero, i Cervi si arresero. Vennero imprigionati a Reggio, ma quando (il 27 dicembre) il segretario del fascio di un paese vicino venne giustiziato in un’azione partigiana, i sette fratelli Cervi furono fucilati.

Dieci anni dopo, Italo Calvino ne scrisse questo ricordo.
”Qui, da questo filare comincia la terra dei sette fratelli. Questa piana, sono state le braccia dei sette fratelli a lavorarla; questi canali, questa vigna, ogni cosa qui intorno, l’hanno fatta i sette fratelli; e questa è la loro fattoria, quella è la loro stalla, la famosa stalla razionale, orgoglio dei sette fratelli, e le bestie famose per il latte e per il peso; ed ecco l’ala della casa che fu incendiata quella notte, ecco le finestre da cui i fratelli risposero al fuoco dei fascisti, ecco il muro contro il quale furono messi in fila a mani alzate, dopo che Gelindo aveva salutato le donne e detto che resistere non si poteva più e che conveniva arrendersi per poi cercare di scappare, e Aldo aveva detto che stessero tutti tranquilli, che avrebbe preso lui la responsabilità di tutto e così anche se lo fucilavano restavano sei di loro a far andare avanti la campagna: la storia dei sette fratelli Cervi si è svolta tutta qui.
Era una famiglia numerosa, come quelle che voleva il duce; ma nelle intenzioni di Mussolini le famiglie numerose dovevano essere allevamenti di disperati, di bestie da macello; questa invece era una delle ultime famiglie patriarcali.
Che i Cervi fossero contro il fascio, il duce, l’impero e tutto il resto non era un mistero, perché non lasciavano passare occasione per dirlo e predicarlo ai quattro venti; ma erano anche quelli che la sapevano lunga su tutti gli avvenimenti nazionali e internazionali, passati e presenti e anche futuri.
Le idee politiche non se le erano trovate già in testa nascendo, i sette Cervi; ci erano arrivati ragionando e discutendo e leggendo, a poco a poco.
Dopo l’8 settembre quell’avamposto di una società futura che era stata la famiglia Cervi ora assume un altro significato, ideale: diventa un avamposto di fratellanza internazionale nel cuore della guerra più crudele. Un centinaio di stranieri si fermarono alla fattoria dei Cervi nei mesi dal settembre al novembre 1943: inglesi, sovietici, un aviatore americano ferito, un tedesco disertore.
I Cervi furono tra i primi ideatori e sperimentatori delle nuove forme di lotta, particolarmente per quel che riguarda le azioni di squadra in pianura, di cui allora non si supponevano i grandi sviluppi futuri. Come prima erano i pionieri di nuove tecniche agricole, così ora sperimentarono i metodi di guerriglia, misurandosi nelle più varie esperienze di lotta partigiana, dalle azioni di sabotaggio all’attività clandestina nei centri abitati.
Tutto quello che il popolo italiano espresse di meglio nella Resistenza: lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra, tutto questo fu nei Cervi. Perciò in questi sette veri volti di intelligenti contadini emiliani riconosciamo l’immagine della nostra faticosa, dolorosa rinascita”.
(da Italo Calvino, I sette fratelli, in “Patria indipendente”, n.24 del 20 dicembre 1953)

TEODORICO

Teodorico fu un grande re che coltivò tenacemente la speranza di edificare un regno potente e pacifico.
A differenza di altri barbari, come i Vandali che avevano cercato di imporre la propria fede, cioè l’arianesimo (E’ una teoria relativa alla natura di Cristo enunciata all’inizio del IV secolo dal prete Ario: premessa fondamentale è l’assoluta unicità di Dio, il solo a non essere creato. Poiché Gesù è creato, non può essere Dio. L’arianesimo fu considerato un’eresia e condannato dalla Chiesa nel Concilio di Nicea del 325), Teodorico professò la tolleranza, perché voleva mantenere la pace nel suo regno. Questa imparzialità non significava indifferenza verso tutti i culti, ma rispondeva a un chiaro programma di governo: assicurare la pacifica convivenza tra vinti e vincitori e soprattutto restaurare la grande civiltà degli uni (i Romani) con la forza degli altri (i Goti): ai Romani era assicurata l’amministrazione civile, ai Goti toccava il potere militare.

Lo stesso ideale di pace e di conservazione era alla base della politica di Teodorico verso i regni germanici. Egli riuscì a esercitare il potere su un territorio ampio quanto quello degli antichi imperatori, anche se il suo era un potere di diversa natura: cercò di appianare i conflitti con tutti i sovrani dei regni romano-barbarici e strinse alleanze attraverso vincoli di parentela. Ma i conflitti non mancarono, soprattutto con Clodoveo, re dei Franchi, e poi con i Burgundi e con i Vandali, e il suo disegno di sistema internazionale fallì. Anche con i Romani il progetto fallì: agli unni dell’illusione di pace e di stabilità, vissuti quando fu accolto a Roma dal senato, dal popolo e dal papa, seguirono anni nei quali, messo in allarme dagli atteggiamenti dell’imperatore d’Oriente e circondato da una corte infida e piena di tensioni interne, Teodorico reagì condannando a morte o al carcere il filosofo Boezio, il senatore Simmaco e il papa Giovanni I.

Con il sangue di Odoacre il regno di Teodorico si era aperto (493), con il sangue dei martiri di Roma si chiuse: tragico epilogo di un sogno fallito.
Era l’anno 526 quando egli morì. La sua speranza e la sua illusione erano durate circa trent’anni, ma il significato storico di questo dramma è che Teodorico è il vinto, mentre vincono coloro che muoiono.

 

IL PARTIGIANO

Partigiano italiano, maquisard francese, gueux olandese, andarte greco, partizan iugoslavo… Chi combatte contro i nazisti è in tutta Europa lo stesso: un uomo o una donna che, seguendo la voce della coscienza e del dovere, prende le armi per liberare il suo Paese dagli invasori.

La Resistenza è ovunque una lotta clandestina, ovunque si realizza con i metodi della guerriglia. Il suo scopo è innanzitutto quello di ostacolare i movimenti del nemico e provocare il maggior danno possibile alle sue strutture militari. Occorre perciò spezzare i collegamenti tra i reparti tedeschi, mirando in particolare a impedirne i rifornimenti: far saltare i binari, far crollare ponti e gallerie, minare tratti di strada, distruggere locomotive e automezzi, porre fuori uso impianti di trasmissione e centrali idroelettriche.
Altro obiettivo della guerra partigiana è l’eliminazione fisica dei nemici più pericolosi: i capi militari dell’esercito avversario, i collaborazionisti, i torturatori; oppure far fuori interi posti di blocco.
I partigiani hanno bisogno di rifornimenti: cibo, benzina, armi. Per procurarseli assaltano i depositi alimentari dei Tedeschi, scaricano il bestiame dai treni, prelevano il carburante dai piccoli aeroporti, sottraggono mitragliatrici e munizioni dagli arsenali delle caserme. Quando è inevitabile, ricorrono alle requisizioni, ma per lo più la popolazione civile li aiuta con altruismo, privandosi di quel poco che possiede per contribuire alla lotta comune.

Talvolta la guerriglia, si trasforma in battaglia vera e propria: allora la furia tedesca si scatena in saccheggi, incendi e violenze, le cui conseguenze ricadono sui civili inermi, così come i rastrellamenti (cioè la caccia operata palmo a palmo dai nazifascisti alla ricerca di partigiani o di renitenti alla leva o di chi li appoggia). I rastrellamenti si concludono con la cattura dei ricercati o, in assenza di questi, di un certo numero di civili che saranno fucilati per vendetta. L’effetto dei rastrellamenti è quello di terrorizzare la popolazione: i Tedeschi sfruttano questo atteggiamento psicologico per creare una frattura tra i partigiani e i civili, molti dei quali non sono più disposti ad appoggiare concretamente il movimento di liberazione. Feroci manifesti minacciano ferro e fuoco a chi, in qualunque modo, protegga i “banditi”.

Ciò semina sconforto e disorientamento tra i partigiani, che si sentono responsabili delle orribili rappresaglie nemiche: ma “guerra è guerra” e si va avanti sostenuti dalla volontà di vincere.
Per quanto riguarda l’Italia, i partigiani sono militanti antifascisti (passati dopo l’8 settembre all’opposizione concreta), ex-militari, contadini, valligiani, cittadini (soprattutto operai e professionisti), animati da un acceso spirito di ribellione e dalla febbrile volontà di combattere. Inizialmente essi si dedicano soltanto a opere di sabotaggio e a brillanti colpi di mano, ma ben presto si rendono conto della necessità di un’organizzazione rigida: le bande si trasformano in unità organiche, con una ferma disciplina, una gerarchia precisa, un inquadramento regolare. Ogni banda si articola in distaccamenti, che a loro volta si suddividono in squadre. A capo di ogni banda c’è un comandante che destina i servizi (vedetta, staffetta) e la specializzazione (squadra d’assalto, squadra logistica, cioè di trasporto viveri e materiale, ecc.), con turni e ispezioni. Ciascun partigiano risponde in prima persona delle armi e del materiale di cui dispone: eventuali gesti di indisciplina o di scorrettezza vengono puniti con sanzioni che vanno dalla limitazione delle sigarette al raddoppio dei turni di guardia, all’espulsione, sino alla fucilazione.

Le bande ricevono periodicamente la visita dei commissari politici, partigiani con l’incarico di promuovere tra i compagni un processo di educazione e maturazione politica. Essi spiegano che l’Esercito di Liberazione Nazionale è un esercito nuovo e rivoluzionario che non ha nulla da spartire con quello sabaudo: che il CLN (Comitato Liberazione Nazionale) è l’unico organo che, dopo la fuga del re, operi la Resistenza attiva contro i nazifascisti; che compito dei partigiani non è solo cacciare i Tedeschi, ma anche porre le basi per un processo democratico che investa tutta la struttura sociale e politica del Paese.

Resistere non è facile: il freddo, la fame, la diffidenza delle popolazioni, l’incertezza del domani, la ferocia sempre maggiore dei nemici rischiano di indebolire gli animi. Ma questi ostacoli sono compensati dallo slancio di tanti generosi: donne che portano da mangiare, montanari che fanno da guida sui valichi, sacerdoti che colgono le motivazioni sociali di questa guerra popolare. E aiuti vengono anche dagli Alleati che, sia pur in misura inferiore rispetto alla necessità, per mezzo di lanci dagli aerei (preannunciati da messaggi in codice trasmessi via radio e attuati là dove brillano i fuochi di segnalazione), forniscono armi e viveri.
Venti mesi di fatiche, rinunce, pericoli, sofferenze: ma alla fine, la libertà.

I MEGALITI

Nell’Europa occidentale e settentrionale, circa 6500 anni fa, mentre si affermavano le prime forme di agricoltura e di allevamento, vennero costruiti giganteschi monumenti di pietra detti megaliti (dal greco mega = grande e lithos = pietra, grandi pietre).

Sul significato e sulle precise funzioni dei megaliti sono state formulate molte ipotesi, ma sembra che la loro destinazione fosse soprattutto religiosa.
I megaliti sono stati suddivisi dagli studiosi in due categorie: i menhir e i dolmen, a seconda della struttura architettonica e delle funzioni che probabilmente dovevano svolgere.

I menhir sono blocchi di pietra a volte piuttosto grandi, fissati verticalmente nel terreno, isolati o a gruppi: essi sono sistemati o su lunghe file parallele (se ne trovano esempi a Carnac, in Francia) oppure in grandi cerchi concentrici come a Stonehenge, in Inghilterra. Quanto ai dolmen, essi svolgevano la funzione di tomba collettiva: sono formati da tre o quattro pietre che, disposte in verticale, ne sostengono un’altra posta in orizzontale, che funge da copertura.

Sembra più difficile capire quale fosse la funzione dei menhir: anch’essi sono legati allo svolgimento di pratiche religiose, ma la loro disposizione è adatta pure all’osservazione dei movimenti del Sole e della Luna per determinare i cicli stagionali e, forse, i movimenti delle maree.

Un altro mistero riguarda la costruzione di monumenti così grandisoi in un tempo in cui gli uomini disponevano di tecniche ancora molto rudimentali. Forse le pietre venivano trascinate su legni fino a una buca che aveva una parete diritta e una inclinata: si facevano scivolare lungo la parete inclinata, poi si alzavano con l’aiuto di corde e si fissavano riempiendo la buca con materiale solido.

LE ORCHESTRE

Orchestra, in greco antico, indicava lo spazio del teatro destinato ai movimenti degli attori durante la rappresentazione delle tragedie; il termine fu poi ripreso agli inizi del Seicento con la nascita del melodramma per designare lo spazio in cui trovavano posto gli strumentisti più tardi fu adoperato per indicare l’insieme degli strumenti.
L’orchestra incominciò ad avere una formazione stabile a partire dalla fine del Seicento con la nascita del Concerto grosso che utilizzava essenzialmente gli archi e il clavicembalo.

Con il passare del tempo l’organico dell’orchestra si ingrandì grazie all’aggiunta di nuovi strumenti (di tutte le categorie), ma fu H.Berlioz, nell’Ottocento, a comprendere la necessità di indicare con precisione il numero degli orchestrali, dosando con attenzione la quantità dei diversi strumenti in modo che alcuni non prevalessero sugli altri, determinò anche la disposizione degli strumenti sul palco, tenendo conto della loro potenza sonora, per evitare che quelli dal suono più tenue venissero coperti da altri più potenti.
Ecco quali furono nel tempo, le diverse composizioni dell’orchestra.

Nel primo Settecento
(Bach, Haendel, Vivaldi). Circa 17 elementi (violini, viole, violoncelli, oboi, trombe, fagotti, clavicembalo e violone per il “basso continuo”).

Nel secondo Settecento
(Haydn, Mozart). Circa 30 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, timpani).

Nel primo Ottocento
(Beethoven). Circa 60 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, timpani, triangolo). L’orchestra incomincia a essere “sinfonica”.

Nel secondo Ottocento
(Ciaikovsky). Circa 80 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, arpa, flauti, ottavino, oboi, corno inglese, clarinetti, fagotti, corni, tromboni, basso tuba, timpani, triangolo).

Nel primo Novecento
(Strawinsky, Respighi). Circa 100 elementi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi, flauti, ottavino, oboi, corno inglese, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, grancassa).

Il culmine di questo continuo ampliarsi dell’organico orchestrale venne raggiunto con i lavori di Gustav Mahler e di Richard Strauss, che inserirono in alcune composizione anche strumenti decisamente insoliti come i “campanacci da mucche” e la “macchina del vento”.
In reazione a questo continuo ingigantimento dell’organico orchestrale, incominciò a formarsi l’idea dell’orchestra da camera, con un numero assai limitato di esecutori (circa 15-20). Con l’avvento della musica jazz e leggera, l’orchestra ha acquistato caratteristiche particolari, grazie anche all’aggiunta di strumenti abitualmente non usati nell’orchestra sinfonica (come i saxofoni, la batteria e la chitarra).

 

FRANZ LISZT

1811
nasce in Ungheria da madre tedesca.

1822
studia pianoforte e composizione a Vienna; si sposta quindi a Parigi, ma non può iscriversi al Conservatorio in quanto straniero: non svolge pertanto studi regolari.

1824-25
inizia la carriera di pianista virtuoso e compie le prime tournées in Gran Bretagna e in Francia. Compone i suoi primi pezzi, tra i quali sette Variazioni brillanti su un tema di Rossini e un Allegro di bravura. Si accosta anche all’opera, con Don Sancho ovvero Il castello dell’amore, ma senza successo.

1826-34
stabilitosi a Parigi, vive di lezioni private; conosce Paganini, Rossini ed anche vari scrittori, pittori e filosofi dell’epoca: la musica infatti sarà per lui sempre coinvolta con le altre forme d’espressione artistica. Studia ancora assiduamente il pianoforte, dà concerti e crea i suoi primi significativi lavori pianistici, come le Armonie poetiche e religiose.

1835-37
si stabilisce a Ginevra con Marie d’Agoult, dalla quale ha una figlia, Blandine; scrive il primo ciclo di Anni di pellegrinaggio per pianoforte, dedicato alla Svizzera. Intraprende un’intensa attività concertistica: scende anche in Italia, dove gli nasce la secondogenita Cosima. Inizia a comporre il secondo ciclo pianistico degli Anni di pellegrinaggio, dedicato all’Italia.

1838-42
scrive per pianoforte gli Studi di esecuzione trascendentale da Paganini. Ha un terzo figlio, Daniel. Continua a dare concerti non solo in Germania, ma anche in Russia, Belgio, Olanda, Portogallo, Turchia (dove suona nell’harem del sultano); si separa da Marie d’Agoult.

1847-48
considera conclusa la sua attività di concertista virtuoso e si stabilisce a Weimar come direttore dell’orchestra del Teatro di Corte. Qui entra in relazione con una principessa russa che lo spinge a comporre quelli che egli chiama poemi sinfonici: Tasso, lamento e trionfo, I preludi, Prometeo, Mazeppa, Amleto, ecc.  In tutto ne scrive 12.

1849-50
A Weimar offre ospitalità a Wagner che da dovuto fuggire da Dresda; si interessa alle sue opere facendo rappresentare in prima assoluta il Lohengrin.

1852-57
scrive la Sonata in si minore per pianoforte. Organizza una serie di concerti in onore di Berlioz. Presenta i suoi due Concerti per pianoforte e orchestra.

1861-65
Lascia Weimar e si trasferisce a Roma, ove si fa abata e si dedica prevalentemente alla composizione di brani religiosi come gli oratori La leggenda di Santa Elisabetta e Christus.

1869-75
si assenta talvolta da Roma per tenere corsi di pianoforte a Weimar. La figlia Cosima sposa in seconde nozze Richard Wagner, che diviene così genero di Liszt. E’ nominato consigliere reale e poi presidente dell’Accademia Statale di Musica di Budapest, dove insegna pianoforte.

1886
viene solennemente festeggiato in molte città d’Europa per i suoi 75 anni, ma proprio in quel periodo, mentre si trova a Bayreuth per assistere ad alcune rappresentazioni delle opere di Wagner, muore di polmonite, lasciando come unico patrimonio la sua tonaca e pochi capi di biancheria.

LENIN

Vladimir Il’ic Ul’janov (Lenin era uno pseudonimo) nacque nel 1870 in una famiglia piccolo-borghese di tendenze progressiste. Suo fratello Alessandro fu giustiziato per aver partecipato a un attentato terroristico contro lo zar: Lenin ne raccolse l’eredità dedicandosi all’attività rivoluzionaria quando ancora era studente (frequentava la facoltà di Legge).

Tuttavia egli era persuaso che populismo e terrorismo fossero fasi superate, e che fosse giunto il momento di mettere in pratica le teorie di Mar, di cui era profondo studioso: infatti partecipò alla fondazione del Partito operaio socialdemocratico russo (1898). Ben presto però le sue posizioni si discostarono da quelle della socialdemocrazia perché egli riteneva che la classe operaia fosse in grado soltanto di lottare per essere meno sfruttata, mentre al Partito spettava il compito di educare le masse e guidarle alla presa del potere. Per questo il Partito doveva essere dotato di una forte organizzazione fatta di “rivoluzionari di professione”, e di una rigida disciplina.

Arrestato più volte, Lenin trascorse gli anni tra il 1895 e il 1914 tra il carcere, la deportazione in Siberia e il confino.
Allo scoppio della guerra per evitare un nuovo arresto fuggì in Svizzera: qui il suo stile di vita austero costituì un esempio per gli emigrati e divenne poi un modello.
La sua capacità di comunicare agli altri le proprie convinzioni era eccezionale, e se ne ebbe una prova nel 1917 quando, scoppiata la rivoluzione a Pietrogrado, il governo tedesco lo fece rientrare in patria. Infatti era noto che Lenin voleva la pace immediata e i Tedeschi speravano che la sua presenza avrebbe spronato i Russi a chiedere l’armistizio, liberando gli Imperi centrali da un pericoloso nemico.

Il viaggio in treno da Zurigo a Pietrogrado attraverso l’Europa in guerra fu drammaticamente avventuroso: chiuso con la moglie e pochi compagni in un vagone piombato, Lenin era scortato da decine di soldati tedeschi, che egli riuscì a convincere, una volta arrivati in Russia, a partecipare alla Rivoluzione.
Il Partito bolscevico sosteneva la necessità di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria: per affermare la dittatura del proletariato Lenin spese ogni energia. Lucido e determinato, seppe affrontare anche con durezza ostacoli e responsabilità di ogni genere, sino alla vittoria completa della sua linea politica.
Colpito da un primo ictus cerebrale nel 1922, morì nel 1924.

 

LUIGI XIV

Luigi XIV, detto “il Grande”, nacque nel 1638 dal matrimonio del re Luigi XIII con Anna d’Austria, figlia del re di Spagna. I genitori si erano sposati adolescenti, secondo l’abitudine delle famiglie regnanti; il padre morì a poco più di 40 anni, lasciando erede il piccolo Luigi, che non ne aveva ancora compiuti 5. Di carattere capriccioso e al tempo stesso autoritario, poco incline allo studio sistematico, il giovane principe durante la reggenza della madre fu educato dal cardinale Mazarino, che gli insegnò l’arte del governo come egli stesso la praticava: trarre vantaggio dalle rivalità degli altri, creare divisioni fra gli avversari, circondarsi di persone fidate ma prendere ogni decisione nella massima segretezza, preferire i colpi di scena sia in politica estera sia in politica interna.

Luigi XIV incarnò la figura del sovrano assoluto: la sua affermazione “Lo Stato sono io”, che identifica la nazione con la persona del re, ne rivelava la volontà di governo personale, accentratore e tirannico.
Dopo aver trasferita la corte da Parigi a Versailles (1682), egli la lasciò soltanto per partecipare alle campagne militari, preferendo trascorrere la sua giornata in modo sempre uguale: il mattino, sveglia alle 8; riunioni con i ministri dalle 10 alle 12; messa alle 12,30; pranzo, il pomeriggio, passeggiata o caccia; quindi cena e poi conversazione, o gioco (roulette, carte), oppure ballo, o teatro.

A poco più di vent’anni, Luigi sposò Maria Teresa di Spagna da cui ebbe sei figli: ciò non gli impedì di avere ben quattro “favorite”, cioè amanti ufficiali, che complessivamente gli diedero sedici figli illegittimi. La marchesa di Montespan, seconda in ordine di tempo tra le favorite, madre di otto dei suoi figli naturali, scelse quale governante del primogenito maschio madame de Maintenon, donna religiosissima, severa e rigorosa: fu costei la seconda moglie legittima di Luigi XIV, sul quale aveva un ascendente straordinario. Negli ultimi anni, ormai malato, il re, terrorizzato dall’idea di morire, dedicava gran parte del suo tempo alle pratiche religiose: messa, rosario, vespro, confessione, comunione, digiuno, quaresima.

Quando morì (1715), non solo non fu rimpianto, ma anzi centinaia di canzoni, barzellette, giochi di parole furono creati per salutarne la fine: nelle piazze di Parigi come nei villaggi si ballò sino a notte avanzata.
La salma fu trasportata da Versailles all’abbazia parigina di Saint Denis: lungo il percorso il corteo funebre, costituito da un piccolo gruppo di cortigiani, fu accolto con bestemmie dal popolo che lanciava sassi e manciate di fango contro il feretro.

Quattro anni prima era morto il Delfino, e poco dopo il figlio del Delfino: la corona toccò dunque al bisnipote del Re Sole, il futuro Luigi XV.

 

1942 – LA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN

Al momento dell’attacco inglese sul fronte che da El Alamein, sulla costa mediterranea dell’Egitto, si protendeva verso la depressione di El Qattara, in pieno deserto del Sahara, i rapporti tra le forze alleate e le forze dell’Asse erano enormemente favorevoli alle prime.
Lungo i 65 km di fronte erano schierati 230.000 britannici contro gli 80.000 italo-tedeschi. Gli Alleati allineavano 900 cannoni e 1350 carri armati contro i 500 pezzi d’artiglieria e altrettanti carri degli avversari; 1200 aerei contro 400 garantivano ai piloti della RAF (Royal Air Force) il dominio dell’aria. I febbrili preparativi che il comandante dell’VIII armata britannica Bernard Law Montgomery era andato approntando dal momento del suo insediamento, avvenuto il 13 agosto, erano passati completamente inosservati.
Quando, alle 21.40 del 23 ottobre 1942 le artiglierie inglesi si misero a sparare tutte insieme per preparare il terreno all’attacco delle fanterie e dei carri, l’effetto sorpresa fu totale. Il generale Erwin Rommel era assente per una licenza, e il generale von Stumme, che lo sostituiva, morì nelle prime ore dell’offensiva in seguito a un attacco cardiaco. Rommel arrivò il 26 ottobre, quando la situazione era ormai irreparabilmente compromessa. Ad aggravarla giunse l’ordine di Hitler di mantenere la posizione a ogni costo, mentre sarebbe stato saggio procedere a una rapida ritirata per tentare di salvare il più possibile di uomini e di mezzi. I tentativi di contrattacco e di resistenza degli italo-tedeschi furono tutti respinti e portarono alla progressiva decimazione dei reparti gettati negli scontri. Le divisioni del XX corpo d’armata italiano, Folgore, Ariete, Littorio, Trento, Trieste, Pavia, Bologna e Brescia, furono annientate.
Gli inglesi catturarono 30.000 uomini. Il 4 novembre venne finalmente dato l’ordine di ripiegamento generale: aveva inizio l’inarrestabile marcia degli Alleati verso Tunisi, conclusasi con la cacciata degli italo-tedeschi dall’Africa.

 

LA MEGATTERA

Megaptera novaeangliae
Famiglia: Balenotteridi

Caratteristiche: Lunghezza senza coda 12-18 m, peso 25-33 t. La femmina è un po’ più grande del maschio. Colorazione nera nella parte superiore, da grigio maculata a bianca in quella inferiore; pinne pettorali strette e molto lunghe; capo e margine delle pinne pettorali con numerose protuberanze; pinna caudale irregolarmente dentellata sul margine posteriore; 15-40 solchi golari; fanoni neri; soffio molto ampio, alto solo 2 m.

Diffusione: in tutto il mondo nei grandi oceani.

Habitat: acque costiere ricche di cibo.

Abitudini: vive in gruppi familiari composti da 3 a 20 individui al massimo; nuota molto lentamente; a volte salta fuori dall’acqua con tutto il corpo; migrazioni stagionali regolari tra zone polari ricche di cibo e zone tropicali e sub-tropicali in cui sverna; emette vari suoni sott’acqua.

Alimentazione: piccoli gamberi del plancton, anche piccoli pesci di branco.

Riproduzione: periodo di accoppiamento (nell’emisfero settentrionale) IV; gestazione 10 mesi; ogni 2 anni 1 piccolo (rari i gemelli), che viene allattato per almeno 6 mesi.

A confronto con gli altri Balenotteridi, la megattera appare tozza e pesante. La sua velocità, di soli 3-8 km/h, è una delle più basse tra i Cetacei e poiché staziona in prevalenza vicino alla costa è sempre stata una preda particolarmente facile per i balenieri. Un tempo era tra le specie animali maggiormente minacciate di estinzione.
Nelle loro migrazioni da Nord a Sud le megattere si mantengono “tradizionalmente” su percorsi fissi. Le megattere dell’Atlantico settentrionale migrano in primavera nel Mar Glaciale Artico passando tra la Groenlandia e l’Islanda e aggirando le Spritzbergen, e in autunno si spostano nuovamente verso Sud lungo le coste norvegesi oltrepassando le isole britanniche per arrivare al largo della costa occidentale spagnola. I grandi Misticeti non dispongono di un sistema di ecolocalizzazione come gli Odontoceti, tuttavia non sono muti. Nelle zone in cui si riproducono le megattere “cantano” sott’acqua lunghe canzoni che, registrate con microfoni subacquei, sono perfino entrate in commercio su disco. Assomigliano a musica elettronica mista ad un russare, a grida di gabbiani e rumore di porte che scricchiolano. I Cetacei non riproducono sempre meglio una stessa melodia appresa una volta per tutte, come fanno gli uccelli canori, ma “compongono” ogni anno nuove canzoni. Probabilmente questi canti servono a stabilire contatti tra conspecifici o per la ricerca del partner. Di solito i Cetacei non cantano tutti contemporaneamente, ma lasciano, come cortesi interlocutori, che ciascuno abbia terminato.

 

Il quercino

Eliomys quercinus
Famiglia: Gliridi

Caratteristiche: Lunghezza senza cosa 11-17 cm, lunghezza coda 9-13 cm, peso 50-120 gr, in autunno fino a 180 gr. Parte superiore bruno-rossiccia, parte inferiore bianca, disegno nero sul muso, coda con ciuffi di setole bianco-nere; orecchie grandi, membranose.

Diffusione: Europa meridionale e centrale, zone dell’Europa orientale; Asia Minore.

Habitat: boschi di latifoglie, di conifere e misti, boscaglia, vigneti, in montagna fino a 220 m.

Abitudini: notturno; corre agilmente tra i rami, spesso anche a terra; costruisce il nido nelle cavità dei tronchi, in anfratti delle rocce o in nidi artificiali; di solito si nasconde sotto terra per il letargo.

Alimentazione: prevalentemente animali (farfalle, bruchi, Coleotteri, cavallette, ragni, lumache, piccoli uccelli, uova, nidiacei, topi giovani); in autunno soprattutto frutti, semi, bacche.

Riproduzione: periodo di accoppiamento IV-IX; gestazione 23 giorni; 3-7 piccoli nudi e ciechi, che a 18 giorni aprono gli occhi, vengono allattati per 4 settimane e abbandonano il nido per la prima volta a 30 giorni.

Il quercino costruisce il nido estivo sia sugli alberi sia a terra e non lo imbottisce di foglie, come il ghiro, ma di erba e muschio. A volte più quercini si riuniscono in comunità che tuttavia hanno scarsa coesione, perché di solito ognuno mantiene il proprio nido. La femmina in attesa dei piccoli impregna del proprio odore il suo nido e lo difende accanitamente. I piccoli, partoriti dopo una breve gestazione, sono ancora molto immaturi, come nella maggior parte dei Roditori. Solo dopo 18 giorni aprono gli occhi ed acquistano la capacità uditiva. Leccano avidamente dalla bocca della madre la saliva, che contiene probabilmente, come il latte materno, sostanze importanti per lo sviluppo. Crescono poi in fretta e presto abbandonano il nido. A volte la femmina guida i piccoli in un modo simile a quello dei toporagni: i piccoli formano una catena attaccandosi uno all’altro come gli elefanti al circo e la madre sta in testa alla carovana. A 4-6 settimane i piccoli sono indipendenti. Devono, a quel punto, badare ad accumulare grasso sufficiente per l’inverno, per superare bene il loro primo letargo, poiché come tutti i Gliridi anche i quercini non approntano provviste per l’inverno.
Mentre in estate si nutrono prevalentemente di piccoli animali e di frutti succosi maturi, in autunno passano a un’alimentazione ad alto contenuto calorico costituita da noci, ghiande, faggiole o castagne. All’arrivo del gelo di solito più animali occupano un nido invernale comune, preparato in spaccature del terreno o in cunicoli di altri Roditori.

 

ARCHIMEDE

Archimede, nato a Siracusa, dopo aver trascorso alcuni anni al Museo di Alessandria (dove fu allievo dei maggiori scienziati del tempo), ritornò in patria per dedicarsi a ricerche di fisica, geometria e matematica.

Le sue scoperte furono molte, e tutte fondamentali per il successivo sviluppo della scienza: in particolare il famoso “principio di Archimede” che spiega il galleggiamento dei corpi nell’acqua (“Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido spostato”).

Archimede individuò anche le regole per calcolare le aree delle superfici e dei volumi nelle figure solide; la legge di equilibrio della leva; il valore del Pi greco (cioè il rapporto tra il raggio e la circonferenza di un cerchio); il metodo per risolvere le equazioni cubiche e le radici quadrate.

Benché non desse nessuna importanza all’applicazione pratica della sue teorie (tanto che non volle mai metterle per scritto), Archimede fu uno straordinario ingegnere, come dimostrò, per esempio, con l’invenzione della “vite senza fine”, che serviva a sollevare l’acqua semplificandone il trasporto nelle opere di irrigazione.

Molte sono le leggende nate intorno alla sua persona e alla sua attività; si diceva che fosse terribilmente distratto, e che avesse un carattere entusiasta e vivace (probabilmente inventata è la tradizione secondo cui, dopo ogni scoperta, esclamava “Eureka!”, che in greco significa “Ho trovato!”).

Si raccontò che quando Siracusa fu aggredita dai Romani (214 a.C.), egli contribuì alla lotta contro gli assedianti inventando alcune macchine da guerra che ritardarono di due anni la presa della città.
Tuttavia i Romani riuscirono a impadronirsi di Siracusa: il loro comandante aveva vietato che Archimede, la cui fama era nota a tutti, venisse ucciso, ma quando un soldato entrò in casa sua e lo scienziato lo squadrò sprezzante ordinandogli di non disturbare i suoi calcoli, il soldato furibondo lo uccise.

Sulla tomba di Archimede fu scolpito un cilindro circoscritto da una sfera per ricordare una delle sue maggiori intuizioni, secondo cui la superficie della sfera è uguale a quella del cilindro circoscritto.

 

Il procione

Procyon lotor
Famiglia: Procionidi

Caratteristiche: Lunghezza senza coda 50-70 cm, lunghezza coda 20-30 cm, peso 5-10 kg. Grande quanto una volpe, ma più tarchiato: pelliccia bruno-grigia, muso con maschera bianco-nera, coda folta con 4-5 anelli scuri.

Diffusione: America settentrionale e centrale; in Germania e in Unione Sovietica deliberatamente messo in libertà o fuggito da allevamenti di animali da pelliccia, oggi diffuso fino alla Francia nord-occidentale e all’Olanda.

Habitat: boschi di latifoglie e misti, parchi, vicino all’acqua.

Abitudini: notturno; solitario; si arrampica e nuota bene; dimora diurna e allevamento dei piccoli in cavità dei tronchi, spesso a 10-12 m di altezza; tasta e ispeziona il cibo con le zampe anteriori; riposo invernale in regioni fredde.

Alimentazione: piccoli animali acquatici, insetti, lombrichi, uova di uccelli e nidiacei; in autunno prevalentemente bacche, frutti e prodotti agricoli.

Riproduzione: periodo di accoppiamento I-III; gestazione 63 giorni; 2-5 piccoli ciechi e sordi con il pelo rado; le orecchie si aprono il 13° giorno e gli occhi il 22°; a 6 mesi sono indipendenti.

Nella ricerca del cibo i procioni usano le zampe come mani e nelle acque poco profonde cercano le loro prede sotto i sassi o nel fango, spesso con lo sguardo perso nel vuoto. Questo comportamento è per loro istintivo e gli animali tenuti in cattività lo manifestano gettando in acqua i pezzi di pane loro lanciati per ripescarli subito. Questi “gesti sostitutivi” hanno portato all’opinione, scorretta, che i procioni “lavassero” il cibo per pulirlo prima di mangiare e per questo sono noti anche come orsetti lavatori. In primavera e in estate il procione si nutre principalmente di lombrichi, lumache e altri invertebrati e animali acquatici. Di solito non riesce a catturare animali veloci e non rappresenta perciò un grosso pericolo per la selvaggina minuta di un terreno di caccia; il danno causato dall’occasionale saccheggio di qualche nido è di solito sopravvalutato. Questi simpatici animali, che furono portati in Europa circa 50 anni fa per la loro pelliccia, si sono nel frattempo moltiplicati nei nostri boschi fino ad arrivare approssimativamente a qualche decina di migliaia. Per contenerne la diffusione, la caccia al procione è permessa senza eccezioni ma i suoi esiti sono irrilevanti a causa delle abitudini notturne e molto furtive di questo animale.
Mangiando ghiande, prodotti agricoli e tutto ciò che trovano, i procioni accumulano in autunno uno strato di grasso il più spesso possibile, per poter sopravvivere nei magri mesi invernali. In caso di gelo prolungato osservano, come gli orsi bruni, un periodo di riposo invernale.

 

I LEGIONARI

Venticinque anni al servizio dello Stato, una vita intera dedicata a Roma: questo il merito del legionario che, arruolato giovanissimo nelle file dell’esercito, nel corso della carriera ne assolve tutti i compiti.
La sua figura è sicuramente quella di un protagonista della storia di Roma, dagli albori fino alla decadenza: indispensabile prima per la conquista, poi per la difesa, è al centro dell’attenzione politica (si pensi per esempio alla questione della distribuzione della terra) e sociale (la divisione in classi).
Infatti, anche se la sua principale funzione è quella di combattente, i mestieri cui il soldato romano deve adattarsi sono molti, primo fra tutti quello del costruttore: in qualità di muratore, carpentiere, fabbro, gli tocca costruire le strade su cui le truppe coprono le distanze tra Roma e i lontani (a volte lontanissimi) campi di battaglia. Non raramente la strada deve superare un fiume, e allora bisogna anche innalzare un ponte.
Una volta giunti a destinazione, prima di tutto i soldati preparano una linea di fortificazione, all’esterno della quale vengono predisposti dei sistemi di difesa semplici ma efficaci: file di rami appuntiti, buche in cui sono infissi pali che terminano con ferri uncinati.
Se è prevista una lunga permanenza nello stesso territorio, ai legionari si richiede di costruire un accampamento in muratura, il castrum. Si tratta di un quadrilatero il cui perimetro è segnato da un muro di cinta e da un doppio fossato. All’interno è attraversato da due strade perpendicolari (il cardo da Nord a Sud e il decumanus da Est a Ovest) che si concludono con quattro porte, mentre nel punto d’incontro sorgono uno spiazzo coperto dove si fa l’appello, e l’arsenale, un vasto edificio in cui sono conservate le armi. A fianco dell’arsenale sorge un tempietto con le immagini degli dei, le insegne della legione e il ritratto dell’imperatore.
Il castrum era così completo che costituì la base su cui vennero poi edificate molte città dell’Impero, da Torino a Brescia, da Coblenza a Strasburgo a Timgad (Algeria).
La maggioranza dei castra fu costruita sul limes, il confine fortificato che difendeva l’impero dai suoi nemici: infatti i legionari di stanza sul limes ben raramente venivano impegnati in combattimenti e, dovendo rimanere nello stesso luogo magari per anni, avevano bisogno di una sede sufficientemente stabile. Intorno a essa sorgevano della cabanae, cioè un insieme di baracche, osterie e botteghe dove i soldati ingannavano il tempo insieme con gli abitanti del luogo bevendo e giocando a dadi o alla mora. Non di rado accadeva che i legionari sposassero ragazze del posto e che, una volta terminato il servizio militare, anch’essi vi si stabilissero definitivamente. Il congedo veniva concesso solo dopo 25 anni, insieme con una somma di denaro che spesso era sufficiente per acquistare un piccolo podere. Il legionario riceveva anche un premio di fedeltà se il suo rapporto con il comandante era stato leale. Non si contano i generali che poterono contare sull’appoggio delle truppe per raggiungere i propri scopi, non sempre onesti: Mario, Pompeo, Cesare, sino a quelli che si fecero nominare imperatori.

 

IL ROMANZO PSICOLOGICO

Il romanzo psicologico è caratterizzato da una sottile, continua e minuziosa analisi interiore dei personaggi. Il tema dominante è l’esplorazione dell’inconscio, ossia della parte più profonda della psiche umana che spesso condiziona e determina le nostre azioni, i nostri comportamenti, le nostre scelte di vita. Di qui il romanzo psicologico, più che alla descrizione di fatti e ambienti, dà un grande valore allo studio dei personaggi, all’analisi delle loro emozioni, dei loro stati d’animo, dei loro travagli interiori.

Nato tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, questo tipo di romanzo presenta una struttura completamente diversa rispetto a quella del romanzo tradizionale: la narrazione, infatti, anziché seguire un ordine cronologico dei fatti, segue il corso dei pensieri, delle emozioni, dei ricordi dei personaggi che di frequente ripercorrono il passato per prenderne coscienza e analizzarlo. In tal modo i fatti narrati si intersecano liberamente tra loro attraverso una continua alternanza di piani temporali (presente e passato).

Anche sul piano stilistico-espressivo il romanzo psicologico introduce delle novità: quali la tecnica del monologo interiore  e del flusso di coscienza.

Tra i più autorevoli rappresentanti del romanzo psicologico ricordiamo Italo Svevo, Luigi Pirandello, James Joyce.

 

MARTIN LUTHER KING

Nato nel 1929 ad Atlanta, in Georgia, uno Stato ex schiavista del Sud, Martin Luther King aveva sperimentato quanto fosse radicata fra i Bianchi americani la convinzione della loro superiorità e quanto fossero state tradite le aspirazioni dei Neri a una reale parità dei diritti.

Contro le leggi di molti Stati del Sud, che imponevano la discriminazione dei Neri nella scuola, nei trasporti pubblici, nel mondo del lavoro, King, ispirandosi al pensiero e all’azione di Gandhi, organizzò una serie di campagne non violente per ottenere che alla gente di colore fossero riconosciuti i diritti civili.

L’inizio della lotta risale a un episodio accaduto nella città di Montgomery (nell’Alabama), dove King era pastore della Chiesa battista. La sera del 1° dicembre 1955 una donna di colore fu arrestata dalla polizia per essersi seduta sull’autobus nella parte riservata ai Bianchi e per essersi rifiutata di lasciare il posto. King organizzò un boicottaggio dei mezzi pubblici che, appoggiato da quasi tutta la comunità nera, durò 381 giorni, finché la Corte suprema non dichiarò illegale la separazione razziale nei trasporti pubblici.

Successivamente, King organizzò una campagna contro la discriminazione razziale nei locali pubblici per mezzo di sit-in (letteralmente: sedersi dentro): i Neri occupavano gli spazi riservati ai Bianchi negli uffici, nei bar, negli alberghi, nelle piscine e sulle spiagge, e li abbandonavano solo se costretti dalla polizia.

Con questi metodi pacifici, King riuscì a coinvolgere l’opinione pubblica americana e a portare in Parlamento la questione della parità dei diritti civili fra Bianchi e Neri. La sua azione culminò nel 1963 con una marcia a Washington con la partecipazione di 250.000 persone di colore, durante la quale egli pronunciò il suo discorso più famoso:
”Io ho un sogno: che Bianchi e Neri possano vivere con gli stessi diritti e doveri […]”
Poco tempo dopo, King fu ricevuto da Kennedy, che gli assicurò il suo impegno a favore della popolazione nera.
Convinto pacifista, King si batté anche contro la guerra del Vietnam: nel 1964 gli fu assegnato il premio Nobel per la pace.
Nel 1968 fu assassinato da razzisti bianchi: a quel punto, per placare le manifestazioni di protesta scoppiate in tutto il Paese, il Parlamento americano approvò gran parte delle riforme da lui richieste.

LA CORAZZATA POTEMKIN

Uno degli episodi più noti della Rivoluzione russa del 1905 è l’ammutinamento della corazzata (nave da battaglia fornita di artiglieria pesante) Potemkin, alla fonda nel porto di Odessa sul Mar Nero con altre navi militari.

In giugno i marinai a bordo della Potemkin si ribellano alla prepotenza del comandante e si rifiutano di mangiare la carne avariata: immediatamente vengono condannati a morte, ma il plotone di esecuzione si rifiuta di eseguire la sentenza. E’ il segnale dell’ammutinamento: l’equipaggio sa di essere compatto e prende le armi. Nello scontro il capo della rivolta viene ucciso: la sua salma, trasportata a Odessa, viene onorata da migliaia di cittadini che poi si riuniscono per manifestare la loro solidarietà ai marinai. Contro di loro i cosacchi dello zar ricevono l’ordine di sparare senza pietà: molti cadono uccisi, mentre dalla Potemkin i marinai rispondono con l’artiglieria.

La corazzata viene isolata: le altre navi della flotta ricevono l’ordine di puntare i cannoni contro la ribelle, ma neppure un colpo parte e i marinai possono prendere il largo, salvi.

L’URBANISTICA MEDIEVALE

Nei primi tempi le dimensioni delle città europee erano modeste: spesso avevano meno di 5000 abitanti. Generalmente erano circondate da alte mura e da profondi fossati, e munite di torri e porte massicce: artigiani e mercanti componevano l’esercito cittadino che prestava un servizio di guardia.
Con l’aumento della popolazione sorsero, intorno alle mura cittadine, piccoli villaggi che poi a loro volta vennero inclusi in un nuovo anello di mura e di fortificazioni. Ma ancora nel XIII secolo, quando alcune grandi città (Milano, Venezia, Firenze, Genova, Palermo, Napoli, Parigi) superavano ormai i 100.000 abitanti, altri centri, come Londra, Barcellona, Siviglia, Amsterdam e Colonia non raggiungevano i 20.000.
La città medievale aveva un aspetto molto diverso da quello delle città moderne, e non conservava nessuna traccia degli edifici caratteristici della città antica (il foro, le terme, il circo).

Il monumento urbano per eccellenza era la cattedrale, sede del vescovo e centro del potere religioso e civile. Tuttavia la distribuzione degli spazi era del tutto irregolare: cappelle e chiese sorgevano a caso, le vie erano sinuose, le case sparse.
Le chiese presentavano la grande innovazione di campanili altissimi che dominavano il profilo della città e che, con il richiamo delle campane, ricordavano ai cittadini i loro doveri di Cristiani e scandivano i diversi momenti della giornata.
Con l’aumento degli aspetti produttivi e mercantili della città, si realizzò una nuova suddivisione dello spazio urbano fra i diversi quartieri di lavoro, i mercati, i grandi palazzi. Gli artigiani di una stessa “arte” lavoravano e abitavano nella stessa strada, così che si avevano le vie dei fabbri, degli armaioli, dei falegnami, dei tessitori ecc.

Le case erano strettamente addossate l’una all’altra; mancava l’illuminazione pubblica e non c’erano fognature, sostituite da rigagnoli che scorrevano in mezzo alle strade.
Quasi tutte le città medievali erano costruite sulla stessa pianta: mentre la città romana era a scacchiera, con le strade che si tagliavano ad angolo retto, quella medievale aveva forma a raggiera, con le strade che si irradiavano dalla piazza centrale verso la campagna.
Intorno, sorgevano i palazzi delle famiglie più ricche, spesso affiancate da torri che potevano avere funzioni di difesa, ma soprattutto stavano a dimostrare la potenza della città.

 

GIULIO CESARE

Gaio Giulio Cesare, nato nel 100 a.C., apparteneva a una famiglia della più antica nobiltà romana, seguace del partito popolare, cui anch’egli era fedele: ciò gli valse la persecuzione di Silla, che al di là della rivalità politica aveva individuato in quel giovane ambizioso una possibile minaccia per il proprio potere.
Dopo un’esperienza inconsueta (fu catturato dai pirati e tenuto in ostaggio 40 giorni), morto Silla, Cesare si lanciò nella vita politica, sorretto da un’intelligenza eccezionale, da una volontà energica e da un patrimonio immenso. Quest’ultimo si rivelò presto insufficiente, in quanto Cesare, per far fronte agli obblighi che le sue cariche comportavano, spendeva anche il suo denaro personale in enormi quantità: per la manutenzione della via Appia (di cui fu incaricato come edile nel 65 a.C.), per gli spettacoli (a cui la plebe era invitata ad assistere gratuitamente), per la distribuzione di cibo ai nullatenenti.

Al favore della plebe, che l’accompagnerà tutta la vita, si aggiunge ben presto quello dell’esercito. Prima come propretore in Spagna, poi, dal 59 a.C., come preconsole nelle Gallie, Cesare si rivela non solo audace stratega, ma anche ottimo comandante: i soldati lo amano perché egli divide con loro le fatiche e i pericoli della guerra, ma anche i bottini.

Nel corso di dieci anni, Cesare conduce una serie di campagne vittoriose contro gli Elvezi, i Germani, i Belgi, i Sigambri. Organizza due spedizioni in Britannia; combatte contro gli Svevi e doma l’insurrezione degli Arverni, capeggiata dal valoroso Vercingetorige.
La sua vita personale s’intreccia con i grandi eventi di Roma: il primo matrimonio, con la figlia di un nemico di Silla; la relazione con la regina d’Egitto Cleopatra, che conduce con sé a Roma destando uno scandalo inaudito; l’ultimo matrimonio con Calpurnia.
Cesare ha una sola figlia legittima, Giulia, che sposerà Pompeo, e un numero imprecisato di figli illegittimi, tra cui Cesarione, nato da Cleopatra, e Bruto, che egli adotterà.
Quando, sconfitto Pompeo, diviene padrone di Roma, Cesare dà prova della sua capacità politica sommando nella sua persona tutte le cariche dello Stato ma mantenendo, almeno esteriormente, il rispetto della legalità: tribuno della plebe, comandante in capo dell’esercito in pace e in guerra, censore, pontefice massimo, “padre della patria”, egli è in sostanza un sovrano assoluto, anche se governa con equità.
Ma il suo piano di costruzione di un impero universale, erede di quello di Alessandro Magno, mirante ad assicurare l’uguaglianza di tutti i sudditi e l’unificazione dei territori conquistati in nome di Roma, viene troncato dai congiurati alle Idi di marzo, cioè il 15 marzo del 44 a.C.
Cesare fu anche ottimo scrittore, dotato di capacità rare di sintesi e di efficacia, che rivelò in due opere: La guerra di Gallia e La guerra civile.

 

ROBESPIERRE

Eletto deputato agli Stati Generali per la provincia di Arras dove è nato nel 1758, Maximilian Robespierre emerge subito per la sua eccezionale capacità oratoria e per l’intransigenza con cui persegue i fini della rivoluzione: non per nulla sarà soprannominato l’incorruttibile, anche grazie al rigore della sua severa vita privata.
Nel 1790 diviene il capo dei Giacobini: richiamandosi al pensiero di Rousseau, egli sostiene l’urgenza della sovranità popolare e dà inizio a una accesa campagna d’opinione a favore degli Ebrei, dei Protestanti e degli schiavi.
Con l’evolvere della situazione (lo scoppio della guerra e i moti controrivoluzionari), Robespierre si convince che i valori e le conquiste della Rivoluzione vanno difesi anche a costo di una dittatura, sia pure a sfondo sociale. Soprattutto alla sua volontà si deve il Terrore che egli giustifica affermando che la rivoluzione esige “terrore e virtù”.
Per imporre la virtù repubblicana, Robespierre introduce il culto dell’Essere Supremo, che si ispira agli ideali illuministici. Ma questa iniziativa contribuisce a farlo apparire come un dittatore. All’interno della Convenzione la sua popolarità diminuisce tanto quanto cresce l’insofferenza nei confronti del Terrore.
Arrestato con i suoi fedelissimi (tra cui il fratello Augustin), viene consegnato alla prigione del Lussemburgo, ma il custode si rifiuta di rinchiuderlo: a questo punto Robespierre e i suoi si rifugiano all’interno del Municipio per organizzare un’insurrezione, ma vengono arrestati e feriti. Il giorno dopo anche la testa di Robespierre cade sotto la lama della ghigliottina.

DANTON

Avvocato di provincia (era nato nella Champagne nel 1759), Danton è uno dei più infervorati montagnardi già dai primi giorni della Rivoluzione francese. Abilissimo oratore, egli infiamma i suoi ascoltatori esortandoli a prendere le armi e ad abbattere la monarchia.
Dopo la fuga del re a Varennes, Danton si batte per l’instaurazione della Repubblica; quando viene dichiarata la guerra egli chiede la leva di massa contro i nemici esterni ed i nemici interni della Rivoluzione. Eletto deputato alla Convenzione nazionale, quando la Francia rischia di essere invasa Danton propone l’istituzione del Tribunale Rivoluzionario e del Comitato di Salute Pubblica, contribuendo a porre le basi del Terrore.
Ma presto si rende conto dei pericoli che queste iniziative portano con sé e assume una posizione più moderata: odiato da Robespierre e dai rivoluzionari radicali, viene accusato di cospirazione e di corruzione. Durante il processo Danton difende se stesso e i suoi compagni con appassionata energia ma, benché senza prove, il Tribunale lo condanna a morte (5 aprile 1794). Prima di salire sulla ghigliottina, chiede al boia: “Mostra la mia testa al popolo, ne vale la pena!”.

MAURICE RAVEL

1875 – Nasce in una cittadina dei Pirenei francesi.

1905 – Scrive due significativi lavori per pianoforte: una Sonatina ed un ciclo di cinque pezzi dal titolo Miroirs (specchi).

1906 – Le sue Storie naturali per  canto e pianoforte suscitano un particolare scandalo per le forti novità espressive inserite.

1908 – Scrive la suite per pianoforte a 4 mani Mia mamma oca, ispirata al mondo delle fiabe.

1909 – Fonda, assieme ad alcuni amici, la Società Musicale Indipendente con lo scopo di diffondere la produzione di quei compositori giudicati troppo moderni e per questo rifiutati dagli ambienti concertistici tradizionali.

1914 – Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruola come autista: viene anche mandato in prima linea a Verdun ma, a causa della sua debole costituzione, viene presto congedato.

1917 – Termina un altro importante lavoro per pianoforte, Le Tombeau de Couperin (Omaggio funebre a Couperin), ispirato al musicista francese del primo Settecento.

1920 – Compone La valse (il valzer) per orchestra.

1922 – Orchestra i Quadri di una esposizione di Mussorgsky.

1923-28 – Intraprende con successo vari giri concertistici, come pianista e come direttore di propri lavori, in Europa, in Canada e negli Stati Uniti, dove incontra Gershwin. Compone l’operina Il bambino e i sortilegi e il Bolero.

1929-31 – Scrive due concerti per pianoforte e orchestra, uno dei quali per sola mano sinistra, come richiestogli da un pianista austriaco che aveva perso in guerra il braccio destro.

1932 – Incomincia a soffrire di gravi disturbi al cervello che progressivamente gli impediscono di leggere e di scrivere, poi anche di parlare.

1937 – Dopo un’inutile operazione muore a Parigi.

 

LA CANZONE DI ORLANDO

La “Canzone di Orlando” (Chanson de Roland) è un poema epico di 4000 versi in francese antico, probabilmente composto nel secolo XI, forse da un monaco di nome Turoldo.
E’ la più antica e più bella tra le chansons de geste (cronache in versi di grandi imprese) dedicate alla lotta tra la Francia cristiana e la “Paganìa”, cioè il mondo musulmano rappresentato come politeistico, idolatra, malvagio e nemico di Cristo.
La Chanson de Roland narra la lotta di Carlo Magno contro i Saraceni, e in particolare l’eroica battaglia di Roncisvalle, divenuta nel Medioevo un simbolo immortale.
Dopo aver conquistato tutta la Spagna salvo Saragozza, Carlo Magno accetta l’offerta di tregua di Marsilio, re dei Saraceni, e invia suo nipote, il coraggioso paladino Orlando, a trattare la pace. Al ritorno, Orlando guida la retroguardia che, per il tradimento di Gano di Maganza, viene assalita dai nemici, molto più numerosi: sconfitto, muore, non prima di aver spezzato la propria spada perché non cada in mano ai Mori.
Alla sua morte, Turpino, vescovo-cavaliere, suona l’olifante (grande corno ricavato da una zanna di elefante) perché Carlo Magno giunga a vendicare la morte dei suoi paladini. L’imperatore accorre, sia pur troppo tardi, e sconfigge i Saraceni: il traditore Gano viene impiccato e squartato.

Questo il racconto della Chanson de Roland, ma la realtà storica è ben diversa: nel 778 Carlo Magno, avendo ricevuto offerte di pace da alcuni sovrani arabi in disaccordo con i loro alleati, guidò due grandi eserciti contro Saragozza. Il piano fallì e Carlo Magno, riattraversando i Pirenei, cadde nell’imboscata tesa da una popolazione basca che, dopo avergli inflitto gravi perdite, si ritirò con una rapida fuga prima che le forze imperiali potessero organizzare una reazione efficace.
La Chanson de Roland fu scritta non per essere letta, ma per essere declamata sulle piazze, nei mercati e lungo le strade dei pellegrinaggi, davanti a folle che potessero inserire il nuovo racconto nel patrimonio delle loro conoscenze e inquadrarlo nella loro fede e nelle loro superstizioni.
La Chanson si serve di mezzi estremamente semplici: i suoi sono personaggi tutti d’un pezzo, di cui non per nulla si è impadronito il teatro siciliano dei “pupi”. Qui l’imperatore è il capo della cristianità, ma è anche il buon vecchio dai caldi sentimenti familiari che sviene davanti al cadavere del nipote.
In questo poema animato dall’ideale cristiano-imperiale, vi sono alti momenti di poesia e splendide immagini fiabesche, come la bella Durlindana, la magica spada di Orlando che sfavilla al sole, o il miracoloso olifante, il corno che strappa tristi echi alle orride gole dei Pirenei.
L’epopea di Roncisvalle, con la sua elementare e forte tragicità, ebbe un peso rilevante nel momento in cui la dinastia carolingia si sfasciava e la Francia viveva nuovamente sotto l’incubo dei barbari.

JEAN-PAUL MARAT

Jean-Paul Marat, nato nel 1743, scienziato e medico, allo scoppio della Rivoluzione francese abbandona la professione per votarsi completamente alla politica. Nei suoi lunghi soggiorni in Inghilterra ha capito quale arma formidabile possa essere la stampa: perciò nel settembre del 1789 dà inizio alla pubblicazione di un quotidiano. Lo intitola L’Ami du peuple (L’amico del popolo): questo diventerà anche il suo soprannome, in quanto nessuno come lui incarnerà gli ideali rivoluzionari popolari. Denunciati i complotti aristocratici, egli assume posizioni sempre più radicali, sino a proporre una dittatura del popolo che porti all’eliminazione, anche fisica, di tutti i nemici della Rivoluzione.
Con uno stile appassionato e drammatico, dalle colonne del suo giornale Marat eccita le folle, che lo adorano. Eletto deputato alla Convenzione, attacca i Girondini e contribuisce, con la sua violenta polemica, alla loro caduta. Nel luglio del 1793 mentre, come ogni giorno, riceve i suoi concittadini nel bagno (una malattia della pelle lo costringe a vivere immerso in una vasca), viene assassinato da una Girondina, Charlotte Corday, che sarà arrestata e ghigliottinata.
Subito nasce il mito di Marat, martire e simbolo della Rivoluzione: il suo cuore viene sepolto tra le lacrime, mentre le Cittadine Repubblicane Rivoluzionarie ne espongono la camicia insanguinata.

GUERRA E PACE – LEONE TOLSTOJ

Leone Tolstoj, uno dei maggiori romanzieri russi dell’Ottocento, scrisse un libro bellissimo e molto famoso, Guerra e pace, ambientato nell’età napoleonica.

Il libro narra la storia di tre famiglie aristocratiche, i Rostov, i Bolkonskij, i Bezuchov, legate fra loro da parentele e amicizie, la cui storia si intreccia con quella di altri personaggi sullo sfondo della Russia di inizio secolo.
Nel 1805 il principe Andreij Bolkonskij, bello, intelligente, orgoglioso, viene ferito nella battaglia di Austerlitz: la sua avversione nei confronti di Napoleone è attenuata da una sorta di ammirazione per l’eroe vittorioso. Ritornato a Mosca, conosce a un ballo la giovanissima e affascinante Natascia Rostova, che si innamora perdutamente di lui. Attratto dalla freschezza e dall’ingenuità della ragazza, Andreij si fidanza con lei, poco prima di partire per la guerra: Napoleone sta per invadere la Russia e il generale Kutuzov chiama intorno a sé i migliori ufficiali.

Natascia, benché protetta dalla famiglia, si sente sperduta e accetta la corte di Anatol, un cinico dongiovanni che la convince a fuggire con lui. Il progetto non si realizza, ma la notizia si diffonde e Natascia, nella sua lealtà, rompe il fidanzamento con Andreij. Ha inizio la penetrazione in Russia delle truppe napoleoniche: la difesa del Paese richiede uno sforzo gigantesco cui concorre tutta la popolazione. I contadini abbandonano i villaggi dopo averli incendiati e si dirigono verso l’interno, ma i nemici incalzano e la fuga si trasforma in esodo. Anche Natascia e la sua famiglia lasciano Mosca con una folla di feriti: riconosciuto Andreij in uno di questi, ella si dedica in modo esclusivo a curare l’antico innamorato che però muore dopo una lunga agonia.

Napoleone arriva a Mosca: nella città che brucia, una amara riflessione lo persuade della necessità di ritirarsi. Spinto da un vago progetto di uccidere l’imperatore francese, Pierre Bezuchov, un amico di Andreij, da sempre segretamente innamorato di Natascia, mentre vaga nel caos della capitale in fiamme viene arrestato dai francesi e incolonnato con gli altri prigionieri russi sulla strada della ritirata. Qui Pierre viene in contatto con un’umanità prima sconosciuta: quella dei contadini poveri e rassegnati, le vere vittime della guerra.

Per una serie di casi imprevisti, Pierre riesce a far ritorno a Mosca. Ormai il pericolo è lontano, Napoleone sconfitto, la Russia salva. Con il matrimonio di Pierre e Natascia si conclude il romanzo (denso di personaggi e storie collaterali) in cui Tolstoj riesce stupendamente a esprimere e a comunicare tutta la pietà che la guerra gli ispira, tutta la speranza che la pace gli infonde.

ANTOINE-LAURENT LAVOISIER

Nato nel 1743 da una ricca famiglia francese, Antoine-Laurent Lavoisier seguì gli studi giuridici e si laureò in legge, pur essendo particolarmente interessato ai problemi scientifici.

Per liberarsi delle preoccupazioni economiche, decise di investire il patrimonio familiare in un consorzio per l’esazione dei dazi e dei tributi e il successo dell’operazione gli consentì di dedicarsi interamente alle sue ricerche.

Tali ricerche riguardavano la natura dei gas, con particolare attenzione per l’aria, di cui nel 1776 riuscì a riconoscere i due componenti essenziali: l’ossigeno (“aria respirabile”) e l’azoto.

L’uso di misurazioni accurate nella sperimentazione gli consentì di individuare le similitudini tra la combustione e la respirazione animale: entrambi questi fenomeni comportano un consumo di ossigeno. Realizzò un’apparecchiatura, per quei tempi molto complessa, per separare i componenti dell’acqua (idrogeno e ossigeno) e successivamente di ricombinarli per ottenere di nuovo acqua.

Nel 1787 pubblicò il Metodo di nomenclatura chimica, e nel 1780 il Trattato elementare di chimica, in cui si trova espressa la legge della conservazione della massa. Dopo la proclamazione della repubblica nel 1792, divenne tesoriere dell’Académie des Sciences. I suoi meriti scientifici non valsero a salvargli la vita quando nel 1794, in pieno periodo del Terrore, giudicato colpevole di essere un esponente del passato regime, fu arrestato e condannato a morte, mediante ghigliottina.

 

MATTEO MARIA BOIARDO

(Scandiano 1141 ca – Reggio Emilia )
Poeta vissuto alla corte degli Estensi di Ferrara, che gli affidarono i governatorati di Modena (1480-83) e di Reggio Emilia (1487-94). Compose versi latini, un canzoniere in italiano per Antonia Caprara (Amorum libri tres, 1487-76), e il celebre poema cavalleresco in ottave Orlando innamorato, iniziato nel 1476 e rimasto interrotto al canto IX del libro III (i libri I e II sono di 29 e 31 canti). Tema centrale è l’amore di Orlando per Angelica principessa del Catai, amata anche dal saraceno Agricane e dal paladino Rinaldo, e che Carlo Magno promette in sposa a chi meglio combatterà contro gli infedeli: da questo punto il racconto sarà ripreso da Ariosto. Il poema fonde motivi guerreschi del ciclo carolingio e motivi avventurosi e fantastici del ciclo bretone, con un sentimento nostalgico degli ideali cavallereschi. Segnato da forti accenti emiliani, fu “tradotto” in toscano da Berni (1524-32).

 

CAFIERO E L’ANARCHISMO

Nato a Barletta nel 1846 da una nobile famiglia di latifondisti, Carlo Cafiero abbandonò ben presto la carriera diplomatica, cui l’aveva condotto la laurea in giurisprudenza, per abbracciare la lotta rivoluzionaria.
Durante i numerosi viaggi in Europa, intrapresi a partire dal 1867, egli strinse saldi rapporti con Karl Marx e con Friedrich Engels, a Londra, e, in Svizzera, con l’anarchico russo Michail Bakunin, dal quale fu orientato verso l’anarchismo.
Tornato in Italia, Cafiero ebbe un ruolo di primo piano nel diffondere l’attività della prima Associazione internazionale dei lavoratori, nata a Londra il 28 settembre 1864 dall’incontro tra tendenze politiche socialiste e anarchiche. Nel 1871 Cafiero riorganizzò la sezione napoletana dell’Internazionale; l’anno seguente collaborò ai nove numeri del settimanale di ispirazione bakuniana “La Campana”. Accanto a Bakunin, in Italia tra il 1864 e il 1868, Cafiero condusse una vasta opera di propaganza anarchica, che ebbe il suo centro nelle zone più arretrate dal punto di vista economico e in particolare nell’Italia meridionale, dove si riteneva che le masse popolari fossero più disponibili a recepire l’idea anarchica di insurrezione.
Dopo il fallimento nel tentativo insurrezionale dell’Italia centrale e meridionale del 1874, Cafiero guidò, con Errico Malatesta, la fallita rivolta di Benevento del 1877, cui partecipò la sezione internazionalista Banda del Matese. Durante i diciassette mesi di carcere inflittigli in seguito a tale vicenda Cafiero scrisse il suo Compendio del Capitale di Marx, pubblicato nel 1879 da Enrico Bignami.
Colpito da infermità mentale agli inizi degli anni Ottanta, Cafiero morì nel 1892 nel manicomio campano di Nocera Inferiore.

GEORGE GORDON BYRON

(Londra 1788 – Missolungi 1824) poeta inglese.

Tra i maggiori esponenti del romanticismo inglese, è anche celebre come figura di esule e patriota; partecipò alle lotte per l’indipendenza dell’Italia e della Grecia, dove morì. La sua copiosa produzione è segnata dall’esuberanza del sentimento e dalla meditata elaborazione dello stile. Dopo la raccolta di versi Ore d’ozio (1807), compose soprattutto poemi, che sono racconti in versi di tono eloquente, con cadenze melodrammatiche (più raramente burlesche o satiriche) e accesi colori esotici: Bardi inglesi e critici scozzesi (1809), Il pellegrinaggio del giovane Aroldo (4 libri, 1812-18), Il giaurro (1813), Il corsaro (1814), Parisina (1816), Beppo (1818), Don Giovanni (1819-24), La visione del giudizio (1822). Tra i drammi, sono noti Manfred (1816-17), ispirato al Faust goethiano e Caino (1821). L’opera di Byron, vista come perfetta incarnazione del titanismo, fu ampiamente tradotta e imitata dai romantici italiani (S. Pellico, F.D. Guerrazzi, C. Cantù, G. Nicolini ecc.).

 

CARTESIO

Nome latinizzato di René Descartes (La Haye 1596 – Stoccolma 1650), filosofo e matematico francese.

Iniziatore del razionalismo moderno, fondò un metodo filosofico e scientifico sul modello di quello matematico, con lo stesso rigore formale. Pone come principio supremo del sapere il cogito ergo sum, cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza, e in base a esso giunge a giustificare l’essere del mondo, attraverso il riconoscimento dell’esistenza di Dio mediante la prova ontologica; ne ricava altresì il suo criterio di verità (l’evidenza delle idee chiare e distinte) e l’innatismo delle idee. Pone un netto dualismo tra pensiero (sostanza pensante) e materia (sostanza estesa). In campo scientifico, oltre a fondare la geometria analitica, diede importanti contributi all’ottica. Discorso sul metodo (1637); Meditationes de prima philosophia (‘41); Principia philosophiae (‘44); Le passioni dell’anima (‘49).

CHARLES DICKENS

(1812-70) scrittore inglese.

Dotato di straordinaria inventività linguistica e narrativa, fin dai suoi esordi conquistò al romanzo una vitalità popolaresca quasi senza paragone, e a se stesso un vastissimo pubblico (Il circolo Pickwick 1836-37; Oliver Twist 1837-38; Nicholas Nickleby 1838-39).

Legato allo scenario del primo industrialismo e ai suo problemi sociali, ai gusti melodrammatici e ai pregiudizi moralistici della borghesia urbana. Dickens, trascese tuttavia i limiti del suo stesso convenzionalismo mediante un vivo senso di humour, una felice caratterizzazione di personaggi e ambienti, una peculiare mistura di tragico e comico, di grottesco e quotidiano.

Dopo il celebre David Copperfield (1850), “tour de force” autobiografico e psicologico, i romanzi di Dickens acquistano un tono più pessimistico e una struttura più compatta e incisiva (Casa desolata 1852; Tempi difficili 1854). L’ultima fase, la maggiore, è caratterizzata dall’esuberanza barocca e dal cupo espressionismo di tre grandi romanzi: La piccola Dorrit (1855-57); Grandi speranza (1860-61); Il nostro comune amico (1864-65).

 

IL BRIGANTAGGIO

La grande insorgenza sociale che ebbe luogo fra il 1861 e il 1865, comunemente nota con la definizione di brigantaggio, affondava le sue radici in territori dove il banditismo individuale e la formazione di bande brigantesche avevano un carattere endemico. L’esistenza di un esercito di braccianti senza terra e l’esosità dei patti agrari portavano nei periodi di crisi economicia e politica alla recrudescenza del fenomeno. La leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali aggravarono dopo il 1861 la crisi del Meridione, provocando una disperata guerriglia dei contadini contro il governo e i proprietari terrieri. Il dissolvimento dell’esercito borbonico (almeno 10.000 renitenti alla leva si dettero alla macchia) e il tentativo di Francesco II di Borbone di sfruttare il malcontento per orientarlo verso un progetto di restaurazione del Regno delle Due Sicilie, contribuirono nel 1861 a trasformare il brigantaggio in una vera guerra civile.

La prima grande rivolta armata scoppiò in Basilicata nell’aprile del 1861 e si estese nell’estate all’Irpinia, al Sannio, al Molise, all’Abruzzo, alla Puglia e alla Capitanata. La repressione condotta dal generale Cialdini nell’estate del 1861 riuscì in parte a domare la rivolta, ma nell’autunno l’insorgenza si estese a quasi tutto il Meridione continentale. Centinaia di bande, condotte per lo più da ex soldati borbonici, terrorizzarono per alcuni anni con saccheggi e omicidi intere province. Ogni giorno pervenivano al comando militare di Napoli da 60 a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Lo Stato intervenne in forma puramente repressiva: nel 1861 i soldati impiegati al Sud salirono da 15.000 a 50.000; nel febbraio 1864 erano addirittura 116.000. Nella sola Basilicata dal 1861 al 1863 vi furono 1038 fucilati, 2413 uccisi negli scontri e 2768 arrestati. Una vasta ed efficace offensiva venne condotta fra il 1863 e il 1864, quando dopo l’approvazione delle leggi speciali contro il brigantaggio si celebrarono 3600 processi, con oltre 10.000 imputati. Secondo le autorità militari, fra il 1861 e il 1865 furono uccisi in combattimento o fucilati 5212 briganti, oltre 5000 furono arrestati e circa 3600 si costituirono.

IL SILLABO

1864. Con la pubblicazione del Sillabo Pio IX, il papa che aveva inizialmente suscitato tante speranze fra i liberali, assunse la difesa intransigente dei valori tradizionali della Chiesa e condannò in ottanta proposizioni tutti i “funestissimi errori” della civilità moderna. Dopo aver proclamato il dogma dell’immacolata concezione, Pio IX con l’enciclica Quanta cura volle coronare un intenso lavoro dottrinale e disciplinare mirante a riaffermare la somma autorità della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea. In appendice all’enciclica, il Sillabo degli errori del nostro tempo condannava il razionalismo in quanto tendenza dello spirito umano a sottrarsi all’autorità della rivelazione e al magistero della Chiesa, il laicismo in quanto rifiuto dell’influenza della Chiesa nella vita della società, l’indifferenza morale e religiosa in quanto conseguenza del primato del diritto dell’individuo su quello della verità.
Secondo il Sillabo le idee socialiste sovvertivano il diritto naturale alla proprietà; il principio democratico della “volontà del popolo” violava i diritti divini di sovranità delle monarchie; allo Stato spettava non solo di governare il mondo, ma anche di vegliare sui diritti della Chiesa. La condanna si estendeva a libertà di coscienza, tolleranza religiosa, laicità della scuola, progresso scientifico, libertà di pensiero, di stampa, di ricerca. L’ultimo articolo respingeva in blocco il cattolicesimo liberale, che auspicava una riconciliazione della Chiesa di Roma con il liberalismo e con la civiltà moderna. Accolto con entusiasmo dai cattolici più conservatori, il Sillabo accentuò l’anticlericalismo degli ambienti liberali e democratici.

1926: LE SPEDIZIONI POLARI

La spedizione del dirigibile Norge nacque da una iniziativa dell’Esploratore norvegese Roald Amundsen, che per compiere una spedizione al Polo Nord si rivolse al colonnello Umberto Nobile dell’Aviazione italiana. Nobile progettò allora un aeromobile a  struttura semirigida, lungo 105 metri, dotato di tre motori di 260 cavalli e caricato con idrogeno puro. L’equipaggio del dirigibile si componeva di 16 persone: Nobile, nella vesta di comandante, cinque meccanici e tecnici italiani, Amundsen, Lincoln Ellsworth, il finanziatore americano dell’impresa, il tenente Rijser Larsen e sette marinai norvegesi. Il viaggio di avvicinamento si sviluppò attraverso una serie di tappe, che portarono il dirigibile a toccare varie località in Inghilterra, Norvegia, Russia, Lapponia. Il giorno 11 maggio 1926, il Norge partiva dalla Baia del Re, nelle isole Svalbard, per fare rotta sul Polo. Alle ore 1.30 del 12 maggio la spedizione annunciava via radio di aver toccato il Polo Nord, sul quale erano state lanciate le tre bandiere italiana, norvegese e americana. Il giorno 15 il Norge atterrava in Alaska. Il rientro di Nobile in Italia, in agosto, venne salutato con grandi celebrazioni e festeggiamenti per il prestigio dell’impresa, che aveva per la prima volta visto un dirigibile sorvolare il Polo. Nella primavera del 1928, Nobile organizzò una nuova spedizione, con il dirigibile Italia.. Ma, questa volta, mentre era sulla via del ritorno, l’aerostato precipitò. Fu immediatamente avviata una vasta operazione di salvataggio. Nobile venne salvato da un aeroplano svedese. Sette componenti dell’equipaggio furono raccolti da due rompighiaccio sovietici. I restanti otto membri della spedizione (rimasti nella celebre “tenda rossa” sui ghiacci) e sei uomini impegnati nelle ricerche dei dispersi, tra cui lo stesso Amundsen, trovarono la morte. Una commissione di inchiesta istituita dal governo riconobbe Nobile responsabile del disastro e soprattutto dell’abbandono dei compagni. Il 7 marzo 1929 Nobile lasciò il grado e l’impiego. Nel 1930 pubblicò sulla vicenda il libro L’Italia al Polo Nord.

 

BENEDETTO CROCE

Filosofo, storico, critico letterario, uomo pubblico. Croce fu uno dei principali protagonisti della vita culturale italiana della prima metà del Novecento.

Nato a Pescasseroli nel 1866, si formò alla scuola dello zio Silvio Spaventa e di Antonio Labriola; aderì per un breve periodo al marxismo, presto ridotto a canone di interpretazione storica nei saggi raccolti il Materialismo storico ed economia marxistica del 1900. I suoi contatti con Giovanni Gentile, che con Croce guidò la reazione contro il dominante positivismo, risalivano al 1896 e furono assai intensi fino al 1925, quando si interruppero bruscamente per il diverso atteggiamento assunto dai due pensatori di fronte al fascismo. L’attività intellettuale di Croce trovò uno strumento privilegiato nella rivista “La Critica”, da lui fondata nel 1903. Nel primo decennio del secolo completò la sua elaborazione filosofica: nel 1902 apparve l’Estetica; nel 1905, la Logica; nel 1909, la Filosofia della pratica.

Nominato senatore del regno nel 1910, Croce divenne ministro della pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti. Simpatizzò inizialmente con il fascismo, apprezzandone la dichiarata volontà di restaurazione dopo la crisi politica e sociale del primo dopoguerra. Se ne allontanò solo nel 1925: alla sua iniziativa si deve la redazione di Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti. Negli anni della dittatura Croce divenne il punto di riferimento non solo dall’antifascismo liberale, ma anche dei giovani intellettuali che avvertivano il plumbeo clima della dittatura. Alla caduta del fascismo si adoperò per la salvezza della monarchia, cercando vanamente di indurre Vittorio Emanuele III all’abdicazione e il figlio Umberto alla rinuncia al trono. Fu ministro senza portafoglio nel II ministero Badoglio e nel I governo Bonomi, presidente del Partito liberale italiano fino al 1947 e senatore di diritto nella prima legislatura.

Morì a Napoli il 20 novembre 1952.

GUGLIELMO GIANNINI E L’UOMO QUALUNQUE

Il movimento dell’Uomo qualunque si formò sull’onda del successo dell’omonimo settimanale satirico creato nel dicembre 1944 dal commediografo e regista Guglielmo Giannini, nato a Pozzuoli (NA) il 14 ottobre 1891.

Il programma era sinteticamente espresso in affermazioni del tipo “abbasso tutti!”, oppure “l’uomo qualunque è stufo di tutti, il suo solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa più le scatole”. Nella visione qualunquista, per gestire la cosa pubblica non erano necessari i “politici”, ma soltanto amministratori, dei “ragionieri”. Con toni graffianti e irriverenti, che spesso scivolavano nella volgarità, “L’uomo qualunque” indirizzò i suoi strali in particolare contro la politica di epurazione, gli ideali resistenziali e gli uomini dei CLN.

Costituitosi in partito del congresso nazionale di Roma (16-19 febbraio 1946), il Fronte dell’uomo qualunque ottenne consistenti successi nelle elezioni per la Costituente e nelle amministrative dello stesso anno. Nel corso del 1947 ebbe inizio la sua parabola discendente. Dopo alcuni tentativi di stabilire alleanze con i liberali e i cattolici, Giannini avviò a sorpresa un dialogo con Togliatti, ipotizzando un’alleanza con il PCI. Tale decisione fu accolta malissimo nella file del movimento, nel quale si levarono le voci dissenzienti di filofascisti e monarchici. Molti di questi confluirono nel Movimento sociale italiano e nel Partito monarchico. Nelle elezioni del 1948 l’Uomo qualunque  si presentò insieme con i liberali sotto l’insegna del Blocco nazionale e riuscì a fare eleggere soltanto cinque rappresentanti, tra i quali non c’era il suo fondatore. Giannini si candidò ancora come indipendente nelle liste della DC nel 1953 e nel 1958 per i monarchici, senza mai riuscire a essere eletto.

Morì a Roma il 13 ottobre 1960. Con la sua scomparsa anche il settimanale da lui fondato cessò le pubblicazioni.

LE ENCICLICHE DI PAOLO VI

Agli osservatori laici le encicliche di Paolo VI parvero contenere messaggi contrastanti. La Populorum progressio, resa pubblica il 28 marzo 1967, si inseriva nella linea giovannea. Incentrata sul tema della cooperazione tra i popoli e sul problema dei paesi in via di sviluppo, essa denunciava i “misfatti” e le “conseguenze negative” del passato colonialista e del neocolonialismo. Segnalava l’aggravamento degli squilibri tra popoli ricchi e popoli poveri, riconosceva il diritto di tutti i popoli alla libertà, alla liberazione dalla miseria, dalla fame, dalle malattie e dall’ignoranza. Proponeva a tal fine la costituzione di un fondo mondiale, da alimentare con i finanziamenti finora destinati a spese militari e con gli aiuti dei paesi industrializzati. La Populorum progressio ribadiva la condanna della violenza e delle rivoluzioni, rigettava la “collettivizzazione integrale” e la “pianificazione arbitraria” e optava per un programma di riforme, osservando che anche il liberoscambismo non era in grado di risolvere i problemi dei paesi poveri. La Sacerdotalis coelibatus, del 24 giugno 1967, e la Humanae vitae, del 25 luglio 1968, rivelavano d’altra parte l’esigenza di non recidere, nell’epoca dei rivolgimenti postconciliari, i legami con gli orientamenti tradizionali presenti nella Chiesa. La Sacerdotalis coelibatus riaffermava l’obbligo al celibato per i sacerdoti; ribadiva il valore del matrimonio, ma ammoniva che “l’uomo (…) non è soltanto carne, e l’istinto sessuale non è tutto in lui”. L’Humanae vitae, che ebbe una fredda accoglienza, sottolineava la “connessione inscindibile (…) tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”; respingeva l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo e confermava la condanna dell’aborto.

 

IL CANTO GREGORIANO

Canto proprio della liturgia romana su testo tratto dalla Sacra Scrittura.
Arte musicale raffinata, non popolare, il canto gregoriano è monodico e ripudia gli strumenti. Costituisce un repertorio vasto, eterogeneo, per lo più anonimo, di circa 3000 melodie di epoche, forme, luoghi d’origine differenti. La storia del gregoriano si può dividere in vari periodi. Nei primi secoli i cristiani, provenendo da regioni culturalmente differenti, concorsero a formare riti e canti con caratteristiche diverse, e la chiesa di Roma, essendo legata alle chiese orientali, soprattutto a quelle greche, ne adottò la lingua e probabilmente anche i canti. Quando, verso la fine del sec. IV, essa si diede un rito proprio in latino, poco alla volta plasmò pure un proprio stile di canto, anche se con reminiscenze dei modelli giunti dall’Oriente. Perciò a Roma, lungo il sec. V, si andò formando un tipo di canto con forti influssi della musica ebraica, greca, bizantina. Tale canto, detto antico romano, è quello che confluirà più tardi nel canto gregoriano, ma per il sec. VII si parla ancora di canto romano. Verso il 753 gli antifonari romani (raccolte di testi letterari per i riti e i canti) passarono in Gallia, dove le melodie romane furono adattate ai gusti locali. Sarebbero queste le melodie che san Gregorio Magno, secondo una testimonianza di Giovanni Diacono (sec. IX), avrebbe fatto copiare e codificare in un antifonario archetipo, detto Antiphonarium cento. Il nome di canto gregoriano a ogni modo, fu usato per la prima volta solo alla fine del sec. VIII. Il repertorio di questo periodo primitivo è ritenuto il vero, autentito canto gregoriano e viene detto gallico-romanoi; a esso appartengono i canti del proprio della messa (Introito, Graduale, Tractus, qualche Alleluia, Offertorio, Communio) e, probabilmente, le Antifone e i Responsori dell’Ufficio.

Nel sec. IX Carlo Magno avviò un programma di espansione del canto gregoriano, che portò alla lenta eliminazione di altri riti e canti (come il gallicano e il mozarabico). In questo secondo periodo, che giunge fino al sec. XI, diversi monasteri divennero centri famosi per la diffusione del canto gregoriano (S.Gallo, Einsiedeln, Fulda, Tours, Corbie, Nonantola, Montecassino), si formarono i canti dell’ordinario della messa (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) e fiorirono i tropi e le sequenze. Alla fine del sec. IX, con la nascita della scrittura musicale neumatica, le melodie, che fino ad allora si tramandavano oralmente, poterono essere ricordate con maggiore precisione e mantenersi esenti da infiltrazioni estranee. Ma dal sec. XI il canto gregoriano non poté evitare di subire i condizionamenti recati dalla musica trovadorica e dalla nascente polifonia, nella quale venne affermandosi l’uso di impiegare le melodie gregoriane per elaborazioni contrappuntistiche.

Dal sec. XVI alla prima metà del XIX si ebbe un periodo di decadenza del canto gregoriano, con varie alterazioni e mutilazioni delle melodie originarie; ne fu un esempio l’Editio medicea (1614-15) del Graduale, il libro contenente i canti della messa per tutto l’anno ecclesiastico. In essa i neumi furono interpretati misuratamente, cioè senza la libertà ritmica originaria, e i melismi (cioè i lunghi vocalizzi) vennero abbreviati. Una riedizione dell’Editio medicea fu effettuata tra il 1871 e l’81 ed è nota come Editio Ratisbonensis. Finalmente, a metà del secolo scorso i monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes avviarono un’opera di ripristino del canto gregoriano per riportarlo all’integrità originaria. Si studiarono e si confrontarono i codici più antichi (secc. IX-X), promuovendo una più precisa interpretazione delle melodie, nonché una pratica esecutiva consona alla loro semplicità e purezza. Si avvertì inoltre l’esigenza di estendere la conoscenza dei codici a una più ampia cerchia di studiosi. Perciò, nel 1889, si cominciò a pubblicare la serie di volumi della Paléographie musicale, riproducenti in copia fotostatica gli antichi codici; mentre, a cura della Santa Sede, fu avviata nel 1905 la pubblicazione di una Editio vaticana delle melodie gregoriane ufficiali, scritte in note quadrate e senza segni d’interpretazione ritmica.

La teoria del canto gregoriano è basata su un sistema modale di otto scale, costituito da quattro modi detti autentici e quattro plagali, questi ultimi una quarta sotto gli autentici. A ogni modo autentico corrisponde un plagale, con cui ha in comune la nota ch funge da base alla melodia e da conclusione, detta finale. Si hanno così quattro finali, riferibili alle note  re, mi, fa, sol. Questa teoria fece la sua prima apparizione nei secc. VIII-IX e ricalca, in parte, il sistema teorico della musica bizantina. Circa il ritmo, poco si sa di sicuro. Tra le varie ipotesi, i benedettini di Solesmes (in particolare i gregorianisti Dom Guéranger, Dom Pothier e Dom Macquereau) adottarono la teoria del ritmo libero, proprio della declamazione, dando a ogni nota il valore di durata suggerito dalla pronuncia della sillaba. Negli ultimi decenni, gli apporti dell’etnomusicologia allo studio delle tradizioni musicali antiche hanno contribuito a un nuovo indirizzo nell’impostazione del problema, rappresentato dalla cosiddetta semiologia gregoriana, secondo la quale i neumi antichi non sono da intendersi come una forma “incompleta” e “imperfetta” di notazione, ma come la trascrizione grafica di una prassi esecutiva “orale” che investe la struttura musicale stessa nei suoi aspetti ritmico-musicali ed espressivi. Sul controverso problema del ritmo gregoriano questa nuova impostazione ha proposto soluzioni ancora diverse da quelle classiche del “ritmo oratorio” di Dom Pothier, del “ritmo libero” di Dom Macquereau, o da quella “mensurale” avanzata da altri.

1925: LA BATTAGLIA DEL GRANO

Quando venne lanciata la “battaglia del grano”, annunciata il 14 giugno 1925, le importazioni di cereali oscillavano tra i 22 e i 25.000.000 di quintali e incidevano nella misura di 4 miliardi di lire, circa la metà del deficit della bilancia commerciale italiana. L’obiettivo dell’autosufficienza granaria venne visto come fattore di prestigio e dimostrazione dell’indipendenza della nazione di fronte all’ipotesi di una crisi nei rapporti tra l’Italia e il resto del mondo, dovuta sia a motivi economici, sia a possibili cause belliche. Si avviò attorno a questo tema una vasta propaganda condotta dal governo, autorità locali, giornali, scuole, sindacati, tecnici agrari e persino parroci delle campagne. Vennero istituiti concorsi nazionali e provinciali con l’assegnazione ai migliori agricoltori di premi consegnati personalmente dalle massime autorità.
Mussolini fu spesso presente a tali manifestazioni. Il 1931 fu poi l’anno dell’annuncio della “vittoria sul grano”: con una produzione di 81.000.000 di quintali, l’Italia per la prima volta coprì quasi per intero il suo fabbisogno di cereali. Obiettivo della battaglia era stato aumentare la produzione, mantenendo identica la superficie coltivata. Tale risultato fu, in parte, conseguito al Nord attraverso la massiccia introduzione di concimi chimici e macchine agricole. Al contrario, nel Mezzogiorno l’aumento dei rendimenti avvenne attraverso l’estensione delle zone coltivate a grano, seminato anche su terreni poco adatti a riceverlo, a scapito di altre coltivazioni più redditizie. Inoltre la diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati internazionali a partire dal 1926 costrinse il governo a intervenire con successivi aumenti della tariffa doganale protezionistica. In tal modo, la “battaglia del grano” finì per introdurre nel settore agricolo gravi elementi di crisi, che comunque intaccarono solo in parte il valore propagandistico dell’iniziativa.

GIOVANNI BATTISTA ANGIOLETTI

Letterato (Milano 1896-Napoli 1961). Nel 1920 fondò la rivista letteraria “Trifalco”; fu direttore dell’”Italia Letteraria”, tornata ad essere, nel secondo dopoguerra, la “Fiera Letteraria”. Diresse i programmi culturali della RAI e fondò la Comunità europea degli scrittori. Angioletti, è uno dei principali rappresentanti del gusto letterario per l’”aura lirica” tipico della “Ronda”: nella sua prosa le immagini delle cose appaiono sospese in una evocazione poetica, impressioni e sensazioni si aprono a miti e fantasie. In uno stile pacato e misurato, volto a una nitida intelligenza della realtà, l’autore ama fondere racconto, dialogo e descrizione.
L’affettuoso sentimento della propria terra, un elegiaco senso del tempo, il gioco della memoria sono i suoi temi più intensi. Angioletti, fu anche polemista letterario, fedele a un’idea di umanesimo europeo come nobile richiamo morale, da opporre all’orrore della società contemporanea. Fra le sue opere ricordiamo le raccolte di saggi La terra e l’avvenire, Scrittori d’Europa, Ritratto del mio paese, Le carte parlanti, Un europeo d’Italia, i racconti de Il giorno del giudizio, i romanzi Donata e La memoria.

 

AFRODITE

Dea greca dell’amore, della fertilità e della bellezza, la cui nascita è attestata in due versioni mitiche.
Una, che la ricollega alla primordiale cosmogonia dalle acque, secondo l’etimologia del suo nome (dal greco afròs, schiuma, con riferimento alla schiuma del mare in cui cadde il membro virile di Urano e da cui nacque la dea, detta perciò Anadiomene). L’altra, che riduce la primordialità della dea e la subordina al cosmo retto da Zeus, facendone una sua figlia (e della dea Dione). L’origine della figura greca di Afrodite, è oggetto di controversie fra gli studiosi. La tendenza ermeneutica riconosce nella dea la sopravvivenza dell’antica dea-madre mediterranea, dall’accentuato carattere erotico, connessa con la fertilità della terra e con la vegetazione. Indubbia è anche la sua affinità con la Core micenea, cui la collega una marcata analogia: Afrodite, possiede aspetti partenici, come Core conserva aspetti afroditici ed erotici; Afrodite, proviene da divinità cretesi che possedevano, come Core, caratteri connessi con l’escatologia. Ciò consente di comprendere più a fondo la stessa natura erotica di Afrodite: la sua componente mistica pone l’unione sessuale con la dea in una prospettiva di rivelazione ultraterrena. In tale prospettiva vanno considerate le forme di prostituzione sacra collegate al culto di Afrodite: le sacerdotesse-prostitute consentivano a celebrare attraverso l’unione sessuale un rito di fertilità e di rinnovamento garante di un’illuminazione divina e della sopravvivenza oltre la morte.
La tradizione mitologica greca, a partire da Omero, mostra Afrodite come sposa di Efesto e amante di Ares. L’apparente contrasto fra la dea della bellezza e il dio storpio si spiega con l’origine stessa di Efesto, un dio iniziatico del passaggio nell’aldilà e paredro della Grande Dea da cui derivò Afrodite. Successivamente Ares fu spesso considerato lo sposo legittimo di Afrodite: da questa unione nacquero Eros e, secondo il ciclo tebano, Armonia, la sposa di Cadmo. Altri amanti di Afrodite furono Ermes (da cui generò Ermafrodito) e Bute ( da cui generò Erice). Fra gli appellativi di Afrodite, spiccano quelli di Cipria (per la priorità del culto cipriota), Citerea (dall’isola di Citera, dov’era un suo santuario), e in particolare Urania (l’Afrodite, precosmica generata da Urano) e Pandemos (l’Afrodite pubblica, cosmica, inserita nell’ordinamento urbano), entrambi usati da Platone per simboleggiare l’amore celeste e terreno. In età ellenistica Afrodite fu identificata con le egizie Hathor e Isi, mentre nell’ambiente romano fu identificata con Venere.