QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

I SEGNI DELLO ZODIACO: IL CANCRO

Appartengono al Cancro, o Granchio, i nati dal 22 giugno al 22 luglio che, a detta degli astrologi, sono tipi alquanto calmi. In questo periodo si ha l’allineamento astronomico Terra-Sole-Costellazione dei Gemelli, quindi i “cancri” diventano “gemelli” che, come sembra, sono piuttosto vivaci.

La Costellazione del Cancro prende il suo nome da un voluminoso crostaceo che tenne a bada una Ninfa, fino al sopraggiungere di Giove che, come al solito, non aveva alcun rispetto per la fedeltà coniugale, ma ne inventava di tutti i colori pur di corteggiare questa o quella. Per il servizietto, non certo edificante, prestato al suo signore, il granchio venne elevato al rango di costellazione.

Nel Cancro non ci sono stelle né di prima grandezza né di seconda grandezza; quindi non immediatamente osservabili come Castore e Polluce, ma abbastanza visibili. Prolungando la retta che passa per Castore e Polluce, a una distanza quasi doppia di quella esistente tra “alfa” e “beta” dei Gemelli, incontriamo la “zeta Cancri”. Questa è una stella tripla visibile solo con uno strumento abbastanza potente. La stella più brillante del Cancro è la “alfa Cancri”, in arabo, Acubeus. Le stelle “gamma”, “delta”, “eta” e “teta” formano una specie di quadrilatero al cui interno troviamo una formazione molto interessante. Si tratta di un ammasso che Plinio il Vecchio descrive in questo modo: “Nel segno del Cancro sono due piccole stelle chiamate Asinelli, separate da un piccolo spazio, nel quale si scorge una nubecola (nebulosa) chiamata Praesepe”. Il Praesepe, o Meleph, è l’ammasso aperto M44, distante dalla Terra 515 anni luce, che contiene circa 500 stelle.

La Costellazione del Cancro comincia ad apparire, a oriente, molto alta nel cielo, verso la metà di dicembre, alle ore 21. Sempre alla stessa ora la vediamo percorrere tutto l’arco del cielo, da oriente a occidente, fino alla fine di maggio. Il giorno più adatto per osservarla nel punto più alto sull’orizzonte è il 15 marzo alle ore 21.

Il Cancro è una piccola costellazione che possiamo osservare sia seguendo l’allineamento Castore Polluce, sia individuando, alla sua sinistra, la Costellazione del Leone con la brillante Regolo. Anche la posizione del Piccolo Carro e della Polare ci può indicare al sua esatta posizione.

La stella più luminosa  è Sirio che si trova nella Costellazione del Cane maggiore ed è la stella più brillante del firmamento. La vediamo molto bassa sull’orizzonte in direzione sud-ovest. Altre stelle molto luminose sono Betelgeuse, della Costellazione di Orione e, ancora più a ovest, Aldebaran e le Pleiadi, della Costellazione del Toro. Verso oriente, molto alta nel cielo, a sinistra del Grande Carro, brilla Arturo, della Costellazione di Boote (il mandriano dei buoi).

L’ABRUZZO: I VIMINI

Isolato per secoli dalle altre regioni a causa delle difficoltà di transito create dalla catena dell’Appennino che qui ha le sue vette più elevate, l’Abruzzo ha avuto uno sviluppo economico difficile. Soltanto con la realizzazione di strade e autostrade la regione è riuscita a rompere l’isolamento e a recuperare in gran parte il ritardo accumulato ad aggravato dalla massiccia emigrazione dei suoi abitanti in cerca di lavoro. La pastorizia e l’agricoltura sono le attività tradizionali, affiancate ora dall’industria. Il folclore, le tradizioni e l’artigianato conservano integre le loro più autentiche caratteristiche, forse proprio grazie alle scarse comunicazioni con il resto della penisola.

Tra i lavori artigianali più originali vi sono quelli con i vimini. Con questo termine si indicano i giovani rami di salice molto flessibili. Quando il salice viene destinato a fornire i suoi rami per questo uso, viene sottoposto in inverno ad una drastica potatura, affinchè in primavera abbia una straordinaria gettata di rami nuovi e lunghi. Nel fondovalle del fiume Liri si raccolgono i rami giovani dei salici che crescono in terreni argillosi e che poi sono resi flessibili e privati della corteccia con un complicato procedimento, di cui gli artigiani locali conservano gelosamente i segreti tramandati di generazione in generazione. Successivamente i rami vengono tagliati a metà o in strisce di vario spessore e a questo punto sono pronti per essere intrecciati in panieri, mobili, sedie e molti altri oggetti.

I vimini non vengono lavorati soltanto in Abruzzo, ma anche in Brianza e nelle province di Treviso, Asti, Firenze. Qui però, la tradizione ha radici più profonde. Secondo alcune testimonianze, quest’arte sarebbe un’eredità lasciata da Greci e Romani, sviluppatasi poi nel Medioevo, quando nacque la corporazione degli artigiani intrecciatori, e portata al massimo splendore nel Settecendo. I “panierai” di questo secolo divennero famosi in tutta Europa per il buon gusto delle loro creazioni.

Per vedere all’opera gli artigiani che, con rapidissimi gesti delle mani e con grande pazienza, intrecciano i lunghi rami dei vimini, bisogna andare nei paesi dell’interno, dove anche l’atmosfera sembra essere rimasta inalterata nel tempo. La tradizione convive con il moderno: infatti sparsi per la regione, vi sono centrali di energia elettrica e termoelettrica, che sfruttano le risorse idriche delle montagne e i notevoli giacimenti di metano nei pressi di Vasto.

LA STORIA PRIMA DI CRISTO – PARTE 5

264 – Inizia il conflitto tra Roma e Cartagine. I Romani devono combattere tre guerre dette “puniche”, che durano per più di un secolo. In qualche occasione i Romani si trovano in difficoltà seria. Per 14 anni, Annibale scorrazza in lungo e in largo per l’Italia dopo aver attraversato i Pirenei e le Alpi con i suoi elefanti. I Romani, però, trasferiscono la guerra in Africa e attaccano Cartagine. Annibale, tornato in patria, viene sconfitto a Zama nel 202 dal generale romano Scipione l’Africano.

201 – Dopo due guerre contro i Cartaginesi, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e la Spagna meridionale vengono assorbite nell’Impero romano.

168 – I Romani sconfiggono i Macedoni, un popolo che godeva di un prestigio immenso nel mondo antico dopo le conquiste di Alessandro Magno.

146 – Cartagine, che costituisce un pericolo costante per Roma, viene rasa al suolo. Il terreno su cui sorge viene sconvolto dagli aratri e nei solchi viene sparso il sale a significare che quella terra è destinata a restare sterile per sempre. Ci penserà un secolo più tardi (44) Cesare a fondarvi la colonia Iulia Concordia Carthago.

136 – I Romani assoggettano il Portogallo, che diventa la provincia Lusitania.

111-101 – Il romano Caio Mario vince la guerra contro Giugurta, re di Numidia; batte Teutoni e Cimbri.

91-81 – Guerra civile a Roma fra Mario e Silla. Dopo la morte di Mario, Silla instaura una dittatura militare.

73-71 – Rivolta degli schiavi guidati da Spartaco. Fu domata, dopo sanguinose battaglie, da Licinio Crasso.

58-51 – Giulio Cesare conquista la Gallia, si spinge in Britannia, popolata da tribù di stirpe celtica, conquista il territorio del’attuale Belgio.

49 – Giulio Cesare marcia contro Pompeo che si trova a Roma. Nell’attraversare il Rubicone, che segna il confine con le Gallie, infrange la legge che proibisce a un governatore romano di entrare armato nel territorio romano. Scoppia la guerra civile che viene combattuta senza quartiere su un campo di battaglia che va dalla Spagna all’Asia Minore. La prima fase della guerra termina nel 48 con la sconfitta di Pompeo a Farsalo (Grecia).

44 -  Giulio Cesare, che aveva instaurato una dittatura, viene assassinato da Bruto e altri congiurati. A loro volta, gli assassini vengono eliminati da Marco Antonio, che ha preso il potere dopo la morte di Cesare.

31 – In piena guerra civile Ottaviano, nipote di Cesare, nella battaglia navale di Anzio (Grecia) sconfigge la flotta di Antonio che si era stabilito ad Alessandria d’Egitto dove governava con Cleopatra. Ottaviano diventa il primo imperatore romano con il nome di Augusto.

Pompeo, il grande condottiero
Ricco, ambizioso ma onesto, Pompeo Magno vive in un periodo di grandi personaggi: Cesare, Cicerone, Spartaco, Catone, Catilina, tutti suoi contemporanei. A 17 anni comincia la sua carriera militare al seguito del padre. Silla ha appena sconfitto Mario. Egli sottomette la Sicilia, poi la Spagna. Trionfa in Africa, sconfigge i resti dell’esercito di Spartaco. Potrebbe essere il primo cittadino di Roma, ma scioglie l’esercito: a differenza di Cesare, osserva le leggi del Senato. Ritorna in campo contro i pirati (57 a.C.) e in 49 giorni distrugge 846 navi nemiche. Poi mette fine alla guerra contro Mitridate, occupa la Palestina e allarga i confini dello Stato romano come nessun altro aveva fatto dopo la caduta di Cartagine. In quarte nozze sposa Giulia, figlia di Cesare. Ma il conflitto con il suocero, che non si preoccupa affatto della costituzione, è inevitabile. La guerra civile comincia con il celebre passaggio del Rubicone da parte di Cesare (49 a.C.). A Farsalo, in Tessaglia, Pompeo è sconfitto e cerca rifugio in Egitto. Ma i Tolomei (Cleopatra è in lotta con il fratello), temendo di inimicarsi Cesare, lo uccidono a tradimento (48 a.C.). Aveva 58 anni.

Lo schiavo che si ribellò a Roma
Soldato trace, dopo aver militato nelle truppe ausiliarie romane, Spartaco viene fatto schiavo dai pirati e venduto a Roma. Per la forza e il coraggio, è scelto come gladiatore. Nel 73 a.C. si trova in una scuola di gladiatori a Capua. E qui si ribella, fugge con pochi compagni ai quali in seguito si aggiungono altri schiavi. Dall’estate all’autunno del 73, Spartaco sconfigge e sbaraglia tre legioni romane e al principio del 72 comanda 70 mila uomini. A questo punto i ribelli si dividono in due gruppi: Spartaco va al Nord, mentre il suo luogotenente Crisso si reca in Apulia, dov’è sconfitto e ucciso dal console Publicola. La guerra dei gladiatori dura ancora un anno. Spartaco arriva a Modena poi torna al Sud: le legioni di Crasso lo sconfiggono definitivamente presso l’alto corso del Sele: 60 mila schiavi ribelli muoiono sul campo, 6 mila prigionieri vengono crocifissi sulla via Appia.

La Grecia diventa “romana”
Nel 146 avanti Cristo tutta la Grecia, eccetto Atene e Sparta, bandì una guerra santa contro Roma. Il Senato romano affidò la repressione a un soldataccio di vecchio stile, che verso la civiltà greca non covava alcun complesso. Mummio conquistò Corinto, capitale della rivolta, e la trattò come Alessandro aveva trattato Tebe, cioè la rase al suolo. Tutto ciò che vi era di trasportabile fu mandato a Roma. La Grecia e la Macedonia furono unite in provincia sotto un governatore romano. Solo ad Atene e a Sparta fu consentito di seguitare a governarsi con le loro leggi.

LE CIVILTA' BARBARE: I GALLI

I Romani li chiamavano Galli, i greci Galati. Erano i Celti, rossi di capelli, svelti di mano, irascibili, passionali, fieri e crudeli, ma anche con l'arte nel sangue. S'affacciano alla storia nel primo millennio prima di Cristo. Da un nucleo di residenza originaria, tra la Boemia e la Germania meridionale, si diffondono a ovest: in Francia, nelle isole britanniche, in Spagna, in Italia, in Grecia, in Asia minore dove una regione, la Galazia, prende da loro il nome.

Ha scritto Diodoro Siculo: "Il loro aspetto era terribile. Sono alti di statura con muscolatura guizzante sotto la pelle chiara..Taluni ostentano baffi che coprono l'intera bocca e fanno da setaccio pe cui vi restano attaccati pezzi di cibo". E un altro storico latino, Strabone, ha aggiunto: "Tutta la razza gallica ha la passione della guerra: è irascibile, pronta alla battaglia, per il resto semplice e senza malizia..".

La storia la scrivono sempre i vincitori, ma non sempre sono attendibili. Con il saccheggio di Roma e quello di Delfi, agli occhi dei contemporanei i Galli sono diventati il simbolo della barbarie contro la perfezione del mondo della civiltà mediterranea. Purtroppo loro non hanno lasciato tracce letterarie (scrivere era vietato dai druidi per motivi religiosi), così non resta che affidarci alle fonti greche e romane. E alle ricerche archeologiche che hanno riabilitato i Celti.

I druidi erano i "filosofi morali", coloro che fissavano usi e costumi, vegliavano sull'osservanza dei riti religiosi, sull'amministrazione della giustizia, tenevano il catasto ma erano esenti dal servizio militare e dal pagamento dei tributi, come scriveva Cesare. La classe media era formata dai mercanti, da artigiani e anche da soldati professionisti. Gli schiavi venivano venduti o immolati nei sacrifici. I Galli credevano nell'immortalità dell'anima e in almeno 300 divinità diverse.

Vercingetorige ucciso in carcere
Quando Cesare conquistò la Gallia, questa arcaica società era al tramonto. La popolazione viveva in oppida, si era inurbata, ma i suoi capi erano sempre uomini potenti: come Vercingetorige che nel 52 a.C. mette assieme un esercito confederato e con la tecnica della "terra bruciata" dà scacco alle regioni romane. Alla fine, però, le forze in campo sono impari: Vercingetorige si chiude nella roccaforte di Alesia, ma Cesare espugna la città e cattura il nemico. Il giorno del trionfo di Cesare, il principe gallo viene fatto sfilare in catene per le strade di Roma, poi è assassinato nel Carcere Mamertino.

Abili scultori e padroni del sale
I Galli hanno lasciato capolavori straordinari che testimoniano la loro abilità nella lavorazione dei metalli. Ferro, bronzo, oro diventano armi, monili, gioielli. Erano lavorati a sbalzo, a martellatura, a fusione con stampi e poi cesellati, incisi a bulino. Famosa era la "torquis", collana in oro decorata con piccoli fiori stilizzati e linguette.
I Galli possedevano anche grandi quantità di sale che estraevano con perizia. Con il sale davano sapore ai cibi, lavoravano il cuoio e soprattutto conservavano gli alimenti. E proprio il fatto di avere sempre a disposizione delle razioni di cibo da portare nei loro spostamenti, spiega la loro grande mobilità.

Attratti dal vino
Si dice che a chiamare i Galli in Italia sia stato Arrunte di Chiusi per vendicarsi di un torto ricevuto. Per convincerli, Arrunte fece balenare ai loro occhi una ricchezza che i Galli apprezzavano molto: il vino. Così almeno racconta lo storico Tito Livio. Allo stesso storico romano dobbiamo un'articolazione dei Celti i nvari gruppi etnici, dai Cenomani ai Boi, dagli Insubri ai Senoni.

Sono proprio i Senoni di Brenno, nel 390 avanti Cristo, a saccheggiare Roma. Da quella  incursione deriva una serie di racconti che sono stati definiti l'ultimo grande nucleo di tradizioni storiche e mitiche della città di Roma. Ecco dunque, tra realtà e leggenda, il plebeo Lucio Albinio che accoglie sul suo carro, dopo averne fatto scendere moglie e figli, le vergini Vestali che lasciavano Roma con un pesante fardello di oggetti sacri. Ecco i senatori che attendono la morte nelle loro case aperte, immobili al punto che i Galli li prendono per statue: ma quando tirano la barba a uno di loro, ed egli reagisce con un colpo di scettro, ne fanno una strage. Ecco le oche del Campidoglio che schiamazzando rivelano ai difensori l'assalto condotto furtivamente al colle..Sono racconti che s'apprendono sui banchi di scuola e tra essi spicca quello di Brenno che, di fronte alle proteste romane perchè usa una bilancia alterata per misurare il tributo, getta la spada sul piatto e grida: "Vae victis", "Guai ai vinti". Ma poi arriva il dittatore Marco Furio Camillo che mette in fuga gli invasori.

LE CIVILTA’ BARBARE: GLI OSTROGOTI

Abitavano a oriente del fiume Dnestr, pressappoco l’odierna Ucraina, e per questo li chiamavano “Goti dell’Est”. Erano più organizzati dei Visigoti e avevano un re, sia pure eletto dal’esercito. Attorno al 370, però, furono sconfitti e assogettati dagli Unni. Soltanto dopo la morte di Attila (453), gli Ostrogoti riconquistarono la loro indipendenza e con Teodorico giunsero al culmine della potenza.

Teodorico, per i servizi resi all’impero bizantino, ottiene dall’imperatore Zenone la concessione dell’Italia, allora in mano a Odoacre (il re degli Eruli che aveva fissato la sua capitale a Ravenna), e nella primavera del 489 varca le Alpi Giulie con 100.000 soldati. Dopo epiche battaglie sull’Isonzo e a Verona, Odoacre viene ucciso, Teodorico entra in Ravenna, è proclamato re e Bisanzio riconosce ufficialmente il titolo.

Lo stanziamento ostrogoto in Italia è a maglie molto larghe, essendo pochi gli invasori. La maggior densità è nella pianura padana, altri gruppi s’insediano in Dalmazia e in Campania. Il centro più importante resta Ravenna, già sede degli ultimi imperatori d’Occidente.

Teodorico favorisce i buoni rapporti fra la sua gente e gli italici-romani, ma mantiene ben distinte le funzioni: agli Ostrogoti quelle militari, ai Romani quelle amministrative. Vieta i matrimoni fra le due stirpi e conserva la diversità di culto, dato che gli Ostrogoti professano l’arianesimo.

Forse è proprio la mancata fusione fra i due popoli la causa principale del crollo del regno. La disgregazione comincia subito dopo la morte di Teodorico, avvenuta nel 526. Nove anni dopo, quando le armate di Giustiniano sbarcano in Italia per restituirla al diretto controllo dell’impero, gli Ostrogoti non possono contare sull’aiuto delle popolazioni italiche. Combattono per vent’anni con grande valore, ma alla fine devono soccombere. E scompaiono dalla storia italiana quasi senza lasciare traccia.

La crudeltà di Teodorico
Teodorico (454-526) è stato il re più abile degli Ostrogoti, ma forse anche il più crudele. Apparteneva al nobile casato degli Amali e aveva trascorso gli anni giovanili a Costantinopoli come ostaggio, in garanzia di un trattato federativo stretto tra Ostrogoti e Impero. Più tardi, per l’aiuto prestato all’imperatore Zenone contro il rivale Basilisco, ottiene il permesso di stanziarsi in Italia con il suo popolo. Ed è proprio in Italia, con l’assassinio di Odoacre, che Teodorico si rivela barbaro di efferata crudeltà: dopo un assedio pluriennale di Ravenna, promette di lasciar salva la vita al rivale e invece lo uccide e stermina tutta la sua famiglia. Trent’anni più tardi, quando l’imperatore Giustino mette al bando l’eresia ariana, Teodorico fa uccidere alcuni esponenti del Senato (fra i quali Boezio) e costringe il papa Giovanni I a recarsi a Costantinopoli per chiedere la riammissione degli ariani, poi al suo ritorno lo fa incarcerare sino alla morte.

Totila, l’immortale che occupò Roma
Il suo vero nome era Baduila, ma lo chiamavano Totila, e cioè l'immortale. Era nato a Gualdo Tadino nel 552, un ostrogoto dell’ultima generazione dunque. Totila sale al trono nel momento più grave della guerra contro i bizantini. Uomo di notevoli capacità politiche e militari, riesce a recuperare agli Ostrogoti gran parte dei territori italiani perduti. Sa ottenere l’appoggio delle popolazioni locali con un atteggiamento conciliante del tutto nuovo. Rafforza l’esercito arruolando uomini poveri, affamati da una guerra ormai decennale, e nel 546 occupa Roma. Fallite le trattative di pace intavolate con Giustiniano, Totila nel 547 abbandona la capitale a Belisario, generale dell’esercito bizantino. Ma subito dopo, allestita una squadra navale, occupa la Sicilia, la Corsica e la Sardegna, compie incursioni contro la Dalmazia e le isole greche. Nel 552 si scatena la controffensiva bizantina guidata da Narsete. Totila è affrontato e sconfitto sull’Appennino umbro. Cade in battaglia, è la fine del regno ostrogoto.

LEGGENDE DEGLI INDIANI D’AMERICA

I nativi dell’America settentrionale, chiamati genericamente Pellerossa, venerano numerosi spiriti in cui sono impersonati anche i principali fenomeni celesti (lampo, tuono, pioggia, grandine), gli astri, gli animali e le piante.

Uno dei miti più famosi è quello ricordato dalla tribù dei "Piedi Neri”, che ha come protagonisti il figlio del Sole, Apisirahts, e la bella Soatsaki. Apisirahts, chiamato anche “Stella del mattino”, rapì un giorno Soatsaki, o “Donna piuma”, e la condusse con sè in cielo dove le concesse di mangiare qualsiasi radice per nutrirsi, tranne quella di una pianta particolare. Ma, incuriosita, “Donna piuma” disobbedì al divieto e mangiò la radice proibita. Il dio allora la scacciò dal suo regno e la rimandò sulla terra. Qui morì di crepacuore, lasciando però un figlioletto, Poia. Questi sposò la figlia del capo tribù, e così potè ritornare con lei nel celeste mondo paterno, da dove protegge ancora oggi la tribù dei Piedi Neri.

Il calumet
Fumare il calumet, la “pipa sacra”, era un’usanza dei Pellerossa della prateria e del Mississippi. Il gesto aveva un profondo significato, o religioso o politico: si rendeva omaggio agli dèi, si stipulavano trattati di pace, si stringevano amicizie. In particolare, il calumet della pace era una pipa di grandi dimensioni, in origine di pietra, con un lungo bocchino decorato.

Il totem
Ogni tribù aveva il suo totem, una specie di statua, più o meno grande, spesso raffigurata in sembianza animali. Totem deriva dalla parola algonchina, ototeman, che significa “appartenente al mio clan”. Attorno al totem si svolgevano spesso cerimonie religiose e danze propiziatorie.

Il grande spirito Manitù
Le varie tribù di Pellerossa, gli abitanti dell’America del Nord prima dell’arrivo degli Europei, così chiamati perchè si tingevano il corpo con una pittura ramata, credevano soprattutto nel Grande Spirito, una sorta di potenza creatrice che indicavano con nomi diversi:
Manitù – Spirito – per gli Algonchini
Waconda – Forza vitale – per i Sioux
Oki – Forza vitale – per gli Huroni
Orenda – Forza vitale – per gli indiani Irochesi
Yastasinane – Capitano del Cielo – per gli Apaches
Yakista – Cielo, luce – per gli indiani Athapaski
Giselemukaong – Essere supremo – per i Delaware.

Manitù poteva essere o la divinità suprema, che riuniva in sè il bene e il male, o una forza che si manifestava sotto varie forme: un animale, una pianta, un oggetto, un fenomeno naturale. I giovani pellerossa si isolavano e si sottoponevano a sforzi e digiuni estenuanti per permettere al proprio manitù di manifestarsi. A chi appariva il lupo era riservato il destino di cacciatore; a chi il serpente quello di medico e stregone; a chi il fulmine d’invincibile guerriero. I Pellerossa portavano appeso al collo un sacchetto che conteneva una piccola parte del corpo del loro manitù o un oggetto che ricordava il fenomeno naturale di cui avevano avuto la visione, amuleti che dovevano garantire la protezione divina.

Il pozzo di Montezuma
Secondo una leggenda che ha molte versioni, la gente Apache ebbe inizio dal Pozzo di Montezuma, un lago “senza fondo, da cui l’acqua si diffonde dappertutto”. I bambini appena nati venivano bagnati con quest’acqua sacra. Molto tempo prima il lago era asciutto e la gente viveva sottoterra. Un giorno la figlia maltrattata di un capo malvagio maledisse tutta la sua gente. Il capo, sapendo che questo avrebbe comportato la sua morte e una terribile inondazione, ordinò che il suo cuore fosse seppellito sotto uno spesso strato di terra. Così fu fatto e in quel punto crebbe altissimo il grano, tanto che, quando venne l’inondazione, la gente potè salvarsi arrampicandosi sugli steli. Seguì una seconda inondazione, dalla quale si salvarono solo una bimba, che galleggiò per 40 giorni e 40 notti dentro una botte, e un picchio, che le permise di respirare bucando il legno con il becco. Quando l’acqua si ritirò, la bimba uscì portando con sè una pietra bianca sacra. Fu la prima donna della gente Apache.

CLEOPATRA D'EGITTO

Il nome di Cleopatra fu preso nell'antichità da numerose principesse e regine in Macedonia, Siria ed Egitto. Ma la più importante di tutte fu quella che ebbe rapporti stretti e controversi con Roma: Cleopatra VII Filopatore, di cui si disse che, se avesse avuto il naso più lungo, sarebbe cambiata la storia. La curiosa definizione nasce dalla straordinaria bellezza di questa donna, che fu amata prima da Giulio Cesare e quindi dal grande rivale di Ottaviano, Marco Antonio. Le monete coniate nell'epoca non rendono il fascino della grande regina, ma le testimonianze non lasciano dubbi.

Salita al trono nel 51 a.C., quando aveva appena 18 anni, Cleopatra spartì dapprima il potere con il fratello Tolomeo Dioniso, contro il quale scese però presto in lotta. Sperando nel favore di Roma, e sapendo che Pompeo Magno si era dato alla fuga dopo una battaglia perduta con Giulio Cesare, il giovane sovrano finse di dargli accoglienza e lo fece invece assassinare. Gesto vile che tuttavia non servì a nulla. Dopo avere colto in lacrime la notizia che il suo grande avversario era stato ucciso, Cesare prese le parti di Cleopatra. Tolomeo, anch'egli battuto in guerra, fu tolto di mezzo.

Con il capo romano la splendida regina ebbe un lungo rapporto, dal quale nacque un figlio, Cesarione. Cleopatra era in riva al Tevere quando, negli Idi di marzo del 44, il dittatore cadde sotto il pugnale di Bruto e degli altri congiurati. Tornata nella sua terra, liberatasi  da un altro fratello che Cesare le aveva posto accanto, trovò un secondo protettore in Antonio. Gli andò incontro dopo la battaglia di Filippi, lo fece innamorare, cominciò con lui una vita di lusso e di piaceri. Nacquero ancora 3 figli, ai quali il romano concesse titoli e territori. Ma oramai si avvicinava la rottura fra Antonio e Ottaviano. Lo scontro decisivo avvenne sul mare presso Azio, nel 31 a.C.. Visto che la sua flotta veniva sopraffatta, Cleopatra si diede alla fuga seguita da Antonio, che si tolse poco dopo la vita. La medesima sorte subì lei, non senza però aver tentato di sedurre anche Ottaviano. Sapendo che avrebbe dovuto figurare come prigioniera nel trionfo del generale romano, la regina preferì la morte. Ottaviano, implacabile, fece uccidere anche il giovane Cesarione.

Da Giulio Cesare dentro un tappeto
Si racconta che Cleopatra, per poter incontrare Cesare, si fece avvolgere da un servitore in un tappeto, srotolato in quale lo stupito romano si vide comparire, nelle proprie stanze, quella inattesa ospite. Doveva essere quindi una donna agile e leggera, come l'ha raffigurata George Bernard Shaw in una sua famosa commedia. Spiritosa e colta, padrona delle lingue mediterranee, abituata a primeggiare a Corte e in qualsiasi salotto, Cleopatra affascinava non solo con la sua bellezza ma anche con la sua straordinaria personalità. Non poteva essere altrimenti, se dopo 2000 anni il suo nome è ancora celebrato.

Fu un aspide o un pugnale?
Stando alla leggenda, la regina si fece servire un cesto di frutta dentro il quale si allungava un aspide, un serpentello dal morso mortale. Gli storici hanno però i loro dubbi, condivisi dai naturalisti. O si trattava di un cobra o, più probabilmente, Cleopatra si diede la morte - o se la fece dare - con un pugnale. Né è escluso che si sia avvelenata con una qualche pozione, senza affrontare i denti acuti del rettile. Tuttavia la versione più romanzesca è tuttora viva: e in ogni quadro la bella egiziana viene rappresentata insieme al suo serpente, pronta ad avvelenarsi.

LE REPUBBLICHE MARINARE: VENEZIA

Ai ragazzi veneziani si insegna che per sfuggire ad Attila, re degli Unni, detto “flagello di Dio”, i loro antenati abbandonarono la terraferma cercando rifugio nelle isolette disabitate della laguna. Non è sicuro che Venezia sia nata così: a seminare il terrore nella campagna veneta furono piuttosto altri barbari, i Longobardi. Sta di fatto comunque che le prime comunità organizzate nella laguna erano composte da profughi, gente che voleva mantenersi libera. Si passava da un’isola all’altra su barche piatte, non molto dissimili da quelle che si vedono ancora oggi nei canali; poi si cominciarono a gettare dei ponti sull’acqua bassa. Al centro della città, come adesso, c’era l’isola di Rialto, abitata da famiglie nobili; ma avevano importanza anche i commercianti e i marinai, che cominciavano ad arricchirsi. Il potere andava al Doge, inizialmente soggetto all’influenza dell’Impero bizantino e più tardi eletto dal popolo. Il grande merito dei veneziani fu di costruire intorno alla figura del Doge un sistema politico compatto ed efficiente, capace di resistere sia ai mutamenti dei tempi sia agli attacchi dall’esterno.

Nei primi secoli, a partire dall’800, la storia di Venezia assomiglia a quella delle altre potenze marinare: ardimentosi viaggi verso l’Africa e l’Oriente, trattati con l’estero, istituzioni di basi commerciali dalle quali affluivano verso la laguna crescenti ricchezze. Contrariarmente anzitutto alle città rivali. Venezia seppe sempre contenere le inevitabili lotte tra famiglie e gruppi sociali, ciò che valse a consolidare la sua unità politica. Nel momento più pericoloso della sua storia, quando i genovesi si attestarono a Chioggia, minacciando l’invasione, Venezia si salvò proprio perchè tutti i suoi cittadini, dal primo all’ultimo, collaborarono con la propria iniziativa e i propri beni. Altro fatto importante, i veneziani fecero molte guerre sapendo però sempre quando era il momento di fermarsi. In secoli di lotte contro i turchi, per esempio, alternarono aggressività e prudenza, conquista e ritirata: nell’imminenza della sconfitta preferivano pagare un pedaggio, cercando magari di mantenere qualche base commerciale, piuttosto che rischiare la distruzione.

Esilio per i ribelli
Se c’era qualche sommossa, popolo contro nobili oppure patrizi in cerca di potere individuale, i capi evitavano rappresaglie troppo dure. Preferivano esiliari i promotori delle sommosse indicendo poi il carnevale, indipendentemente dalla stagione, in modo che la gente si divertisse e pensasse ad altro. Così si diffuse anche la fama di Venezia città gaudente e spensierata, vera solo in parte. In realtà la Repubblica si fondava su una formidabile flotta, 36 mila marinai in oltre tremila navi, 16 mila uomini occupati nell’Arsenale. Quando le forze della cristianità si scontrarono con l’Impero turco nelle acque di Lepanto, 16 settembre 1571, il contributo decisivo fu dato dalle unità veneziane. Navi con la bandiera di San Marco portavano materie prime a Costantinopoli, dove artigiani veneziani le lavoravano rivendendole con alti profitti; dall’Oriente si mandavano in Francia e in Fiandra stoffe e ornamenti; i fiorentini inviavano a Venezia stoffe di panno fine importando sete e oro, un traffico incessante, anche dopo quell’evento traumatico per Venezia che fu la scoperta dell’America. Con i loro guadagni i veneziani costruivano palazzi di incredibile bellezza affacciati sui canali, una città tutta di pietra.

Avventura in terraferma
Potenza di mare, Venezia tentò verso la metà del ‘400 l’avventura in terraferma, spingendo le sue conquiste fino in Lombardia, in Emilia e lungo la riva orientale dell’Adriatico, dalla Dalmazia alla Grecia. Ma la Repubblica, in questa fase di massima espansione, gettava anche le basi del proprio declino.
Non aveva uomini a sufficienza per fronteggiare avversari potenti, Stati interi come la Francia e l’Austria; inoltre i veneziani, per quanto in armi, restavano più dei commercianti che dei guerrieri.
Si rassegnarono al dilagare della potenza turca e al rafforzamento degli Stati nazionali europei, firmando trattati e chiudendosi sempre più nell’area veneta. Quando, alla fine del ‘700, Napoleone con le sue conquiste mise fine alla millenaria Repubblica, Venezia aveva ormai da tempo esaurito il suo compito.
Ritrovò il suo spirito nel 1848, con l’insurrezione contro gli austriaci: ma ormai nell’ambito di un’altra vicenda, l’unità d’Italia.

DIVINITA’ DEL CIELO

Elios, il dio del Sole
Elios, figlio dei titai Iperione e Tea, aveva per sorelle Selene, la luna, e Eos, l’aurora. Il suo compito era quello di portare la luce agli uomini e tutti i giorni attraversava la volta celeste con il suo cocchio trainato da quattro cavalli alati. Sua moglie era Perse, che gli diede due figli, i maghi Eeta e Circe. Un altro figlio si chiamava Fetonte, che Elios aveva avuto dalla ninfa Climene. Un giorno Fetonte convinse il padre a lasciargli guidare il suo carro d’oro, che spandeva luce e calore. Ma Fetonte, inesperto, non riuscì a governare i cavalli, che piegarono verso il basso avvicinandosi paurosamente alla terra. Successero molti guai: le montagne si incendiarono, gli abitanti dell’Africa diventarono neri, i fiumi si prosciugarono. Nell’Olimpo, Zeus vide tutta questa rovina e udì le grida degli uomini che imploravano la fine del flagello. Zeus non poteva permettere che il mondo bruciasse e scagliò una folgore. Fetonte precipitò dal carro e i cavalli di Elios, non più irritati dalla guida inesperta, riportarono il cocchio alla giusta distanza dalla terra. Fetonte scomparve nella corrente dell’Eridano, dove le sue sorelle, le dolci Eliadi, lo piansero quattro mesi di seguito. Zeus, non sopportando tanto dolore, le trasformò in pioppi. E le lacrime delle Eliadi divennero ambra.

Divinità secondarie del cielo
Elios – il Sole
Selene – la Luna
Eos – l’Aurora
Eolo – il re dei Venti
Niche – la Vittoria
Iride – l’Arcobaleno
Ebe – la Gioventù
Ganimede – il coppiere degli dèi
Eros – l’Amore
Asclepio – il dio della Salute
Nemesi – La Vendetta
Tiche – la Fortuna
Mnemosine – la Memoria

Divinità minori del cielo
Ore: figlie di Zeus e di Temi, custodi dell’Olimpo e divinità delle stagioni. Si chiamavano Tallo, Auso e Carpo.

Grazie: figlie di Zeus e di Eurinome, dee della grazia e dell’avvenenza. Dopo Omero il loro numero fu fissato a tre. Si chiamavano Aglaia, Eufrosine e Talia.

Muse: divinità ispiratrici del canto, della musica e della danza. Nell’Iliade si parla di una o più muse, mentre il numero tradizionale di nove (Clio, Euterpe, Talia, Melpomne, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania, Calliope) compare solo nell’Odissea.

Ilitie: le dee del parto, figlie di Era.

Venti: figli del Cielo e della Terra. I principali erano Borea, Euro, Noto, Zefiro, Favonio, Africo; loro re era Eolo che li teneva incatenati nelle caverne.

Parche: secondo Omero sono le dee del destino che filano agli uomini le sorti della vita. Secondo altri poeti sono tre: Cloto, la filatrice; Lachesi, la dispensiera della sorte; Atropo, l’inevitabile.

Eos, l’Aurora
Eos, l’aurora, era una dea molto bella che si alzava presto al mattino per precedere il carro del Sole. Indossava uno sfarzoso mantello d’oro, preparava i suoi cavalli, Lampo (splendore) e Faetonte (scintillio), e partiva, spargendo di profumate rose il suo cammino. Non ebbe molta fortuna con i mariti. Il primo fu il titano Astreo, dal quale ebbe quattro figli, i venti Borea, Euro, Noto e Zefiro. Quanto Astreo con altri titani fu cacciato nel Tartaro, l’inferno degli dèi, Eos sposò Orione, un cacciatore che oltre ad essere abile con l’arco era anche molto bello. Ma su Orione aveva posato gli occhi anche Dania, la quale gelosa lo uccise con le sue infallibili frecce. Allora Eos sposò Titone, re dei Troiani. Ma per evitare di rimanere nuovamente vedova, ottenne da Zeus l’immortalità per il marito. Pensava di avere così risolto per sempre i suoi problemi affettivi, ma si era dimenticata di chiedere per Titone anche l’eterna giovinezza. Per cui Titone invecchiò perdendo ogni bellezza e attrattiva: le sue membra si disseccarono e la sua voce si spense. Allora la dea lo mutò in una cicala.

Selene, l’occhio della notte
Selene, la luna, era chiamata anche l’occhio della notte. Quando il fratello Elios, il sole, aveva concluso il suo viaggio, si metteva in cammino Selene: su un cocchio tirato da due splendidi cavalli bianchi e con un diadema in testa che sprigionava raggi bianchi. Non sono molte le leggende intorno a questa divinità. Si narrava che fosse stata sedotta da Pan, il dio dei boschi, che si era camuffato con una pelle di pecora. Più fortuna ebbe la leggenda di Endimione, un giovane pastore di cui Selene si era innamorato. La dea lo fece cadere in un sonno profondo per poterlo andare a trovare in una caverna. Si raccontava anche che da Endimione e Selene nacquero cinquanta figli.