QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

SEGNI DELLO ZODIACO: VERGINE

I nati nella Vergine, dal 23 agosto al 22 settembre, sono, secondo gli astrologi, dotati di una certa modestia. In questo mese si ha, di fatto, l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Leone, quindi i “vergini” diventano “leoni” che sono, così si dice, fieri e orgogliosi.

Secondo alcune leggende mitologiche, la Vergine è la figlia di Aurora che, come tutti sanno, è la bellissima dea che precede il Sole il quale viaggia sul suo maestoso e splendente cocchio dorato. Il poeta greco Esiodo che, per motivi personali, aveva avuto qualche screzio coi giudici del tempo, dice che la Vergine rappresenta Dike Astrea, la dea della giustizia che si era ritirata in cielo, dato che in terra non c’era più posto per lei. Per altri la Vergine è Demetra, la dea dell’agricoltura (chiamata Cerere dai Romani), in quanto la stella più splendente è Spiga, cioè la spiga di grano. Ma la storia più commovente è quella in cui la Vergine è Erigone, la figlia di Icario. Icario era un semplice e mite contadino al quale Dioniso (Bacco), in segno di gratitudine per la sua ospitalità, aveva regalato del vino, allora sconosciuto, e aveva insegnato l’arte della viticoltura. Icario, tutto contento del dono ricevuto, invitò gli altri contadini ad assaggiare la nuova bevanda. Per farla breve, questi si ubriacarono e uccisero il povero Icario, credendo che questi li avesse avvelenati.

Erigone, la figlia di Icario, che stava custodendo gli armenti in un pascolo piuttosto lontano, ebbe la notizia del fatto direttamente dal fantasma del padre, che, supplicandola, le chiese di cercare la sua sepoltura. Seguita dalla sua fedele cagna Maira, Erigone cercò e cercò con la più profonda disperazione le spoglie del padre. Quando le trovò, sopraffatta dal dolore, si impiccò a un albero. Attirati dai lamentosi latrati della cagna, alcuni viandanti scorsero Erigone appesa all’albero e, misericordiosamente, la seppellirono.
Nemmeno a dirlo, la povera cagna morì di crepacuore sulla tomba della padrona. A questa tragedia si commosse persino Giove, che trasferì gli sfortunati protagonisti direttamente nel firmamento, trasformando Icario nella Costellazione di Boote (il guardiano dei buoi), Erigone in quella della Vergine e la cagna Maira nella stella Sirio, che splende nella Costellazione del Cane maggiore.

La Vergine è una costellazione primaverile. Possiamo osservarla, sui nostri cieli, per tutto il periodo che va dalla fine di marzo alla fine di luglio.

La stella più importante della Costellazione della Vergine è “alfa Virginis”, che si chiama Spica o Spiga, con chiaro riferimento alle origini agricole di questo segno zodiacale. Spiga è più di mille volte più luminosa del nostro Sole e, per fortuna, si trova alla ragguardevole distanza di 220 anni luce.

“Beta Virginis”, o Alaraph, è soltanto due volte più luminosa del Sole.
”Gamma Virginis” è una delle stelle doppie più famose fra gli astronomi. E’ infatti composta da due stelle di pari luminosità, lontane dalla Terra 35 anni luce.
Un’altra stella che non scherza in quanto a luminosità è “delta Virginis” o Minelauva, che equivale a 400 dei nostri Soli.
”Epsilon Virginis”, o Almuredin o anche Vindemiatrix, è così chiamata poichè un tempo, con il suo sorgere eliaco (poco prima del Sole), annunciava l’epoca del raccolto dell’uva. Anch’essa ha una luminosità che è almeno quaranta volte più intensa di quella del nostro Sole.
”Zeta Virginis”, conosciuta anche con il nome di Heze, è, al pari della compagne nominate, molto ben visibile a occhio nudo.

Nella Costellazione della Vergine si trovano moltissime nebulose, sia sotto forma di ammassi, sia come strutture singole. Ce ne sono di tutti i tipi, tutte ai limiti della visibilità dell’occhio umano.
Una di queste, la M87, possiede un “jet”, o protuberanza, osservabile soltanto con strumenti adeguati. La nebulosa a spirale M104 è chiamata, per la sua forma caratteristica, “Nebulosa a sombrero”.

PERCHE’ L’AGNELLO E LA COLOMBA SONO SIMBOLI DELLA PASQUA

L’agnello si ricollega all’episodio biblico della liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana. Prima di mettersi in viaggio verso la Terra Promessa, gli israeliti ricevettero l’ordine di sacrificare in ogni famiglia un agnello e di segnare con il suo sangue le imposte delle loro case. Nella notte l’angelo del Signore imperversò sui sudditi del faraone facendo morire tutti i primogeniti degli uomini e degli animali, ma risparmiò le case degli ebrei segnate con il sangue dell’agnello. Per i cristiani questo animale mite e innocente divenne il simbolo di Gesù: l’Agnello di Dio che con il suo sacrificio ha liberato gli uomini dalla schiavitù del peccato.

La colomba ricorda invece il racconto biblico del diluvio universale: cessata la pioggia, Noè fece uscire per tre volte dall’arca una colomba. Quando questa tornò portando un ramoscello d’olivo. Noè capì che le acqua si erano abbassate, segno che l’ira divina era ormai placata e la terra era di nuovo abitabile. Per i cristiani la candida colomba (come pure l’olivo) simboleggia la pace tornata tra cielo e terra, la riconciliazione dell’uomo con Dio operata da Gesù con la sua morte e risurrezione. Alla festa di Pasqua è legata anche la tradizione delle uova colorate o di cioccolata. L’uovo dà origine a un nuovo essere. E’ considerato perciò un simbolo della vita, in particolare della nuova vita predicata da Gesù e “provata” dalla sua risurrezione.

 

PERCHE’ SI DICE “SEMBRA UNA SFINGE”

E’ un modo di dire per indicare qualcuno che non lascia capire quello che pensa, oppure perchè è per natura enigmatico e strano.
La Sfinge è una figura mitologica presente nelle antiche civiltà del Mediterraneo, in particolare in Grecia e in Egitto.

Nella mitologia greca la Sfinge è raffigurata come un mostro con il volto di donna, il corpo, le zampe e la coda di leone, le ali di uccello rapace. Secondo la leggenda, la Sfinge si trovava su un’alta rupe lungo la strada di Tebe, in Beozia, e proponeva a tutti i passanti un difficile enigma: “Qual è quell’animale che all’aurora cammina con quattro zampe, al meriggio con due e alla sera con tre?”. Poichè nessuno sapeva rispondere, il mostro uccideva e divorava tutti i viandanti. Ma un giorno passò di lì Edipo, il quale sciolse l’enigma (“L’uomo”, fu la risposta, “che quando è bambino cammina a quattro zampe; quando è grande con due e quando è anziano si aiuta con il bastone”). La Sfinge per la disperazione si buttò giù dal precipizio e non si fece più vedere.

Diversa è la raffigurazione della Sfinge nell’arte egiziana. Qui appare come una figura con il corpo di leone e la testa di uomo (generalmente il faraone). Al posto della criniera c’è il copricapo reale con due appendici che scendono sul petto. Solo raramente la Sfingi egiziane hanno le sembianze femminili: in tal caso raffigurano una regina o una dea.

La Sfinge più famosa è quella colossale che si trova presso le piramidi di Giza. E’ stata scolpita su un grande nucleo roccioso naturale ed ha il volto del faraone Chefren: è lunga 57 metri e alta 20.

LA PERLA DELLA LIGURIA: PORTOFINO

Il mare profondo della Liguria batte contro coste alte e rocciose: è la principale attrazione del turismo italiano e internazionale. Ma questo mare non è soltanto bellissimo, esso rappresenta anche la fonte primaria del commercio e dell’industria liguri, la via insostituibile per i traffici di questa regione stretta fra acqua e montagne, priva di pianure per respirare.

Se si percorre tutto l’arco della costa ligure su un atlante, si notano due escrescenze più grandi: il promontorio che chiude a ovest il Golfo di La Spezia e quello che sporge tra Rapallo e Camogli e comprende la Punta di Portofino.

Il fatto di trovarsi un pò distanti dalle strade che percorrono la costa ha fatto sì che questi due luoghi si salvassero dalla valanga di case che, su quasi tutto il resto del litorale, ha invaso il paesaggio. Infatti, se in automobile si viaggia da Ventimiglia alle Cinque Terre (vicino a La Spezia) ci si accorge come le uniche zone verdi della Liguria siano queste.

Delle due zone sfuggite al cemento, Portofino è certo la più importante e fantastica: veramente un luogo unico in cui si può ancora osservare quale fosse la natura di questa riviera prima dei guasti compiuti dall’uomo. Il quale uomo sembra che non si rassegni di essersi lasciato sfuggire la preda: e ogni anno tenta, soprattutto con gli incendi, di porre anche su questo piccolo paradiso il suo marchio.

Il Monte di Portofino non è grande: appena 1500 ettari. Ma in questi pochi chilometri quadrati c’è davvero tutto.
Arrivando al Monte dall’entroterra ci troviamo avvolti in un ambiente prealpino: un folto bosco di castagni e carpini, fresco e umido, che giunge fin quasi sulla vetta. Nell’ombra verde fioriscono piante tipiche delle montagne: centauree montane, crochi violacei, scille, genziane di bosco, mentre frassini e querce spuntano tra i castagni.

Qui, dove la vegetazione è più folta, vivono scoiattoli e ghiri, insidiati dalle volpi piuttosto numerose; d’estate vi nidificano i rigogoli e in autunno vi sostano molti migratori che calano dal Nord per andare a trascorrere i mesi freddi in Africa: tra questi la timida beccaccia, i veloci tordi, i potenti colombacci, tutte prede ambite dai cacciatori che qui, per fortuna, non possono entrare. Quando, giunti presso la vetta, attraversiamo il passo delle Pietre Strette e ci affacciamo sul mare, il paesaggio muta improvvisamente e radicalmente: l’ombrosa foresta lascia il posto alla macchia mediterranea.

Qui c’è il trionfo delle forme, dei colori e dei profumi che la brezza salmastra che sale dal mare esalta e moltiplica: ecco il lentisco dalle foglie piccole e lustre e dall’odore pungente; ecco il corbezzolo le cui bacche rosso fuoco e arancione spiccano sulle fronde verdissime; ecco il mirto delicato e profumato sia nelle foglie, sia nei fiori candidi, sia nelle bacche; ecco i ginepri compatti, le ginestre fiorite, i ruvidi cisti dalle foglie raspose e dai fiori di cartavelina rosata. Anche qui gli incendi hanno provocato ferite, che lentamente vengono coperte dai pini marittimi e dai pini d’Aleppo. Qui cantano i classici uccellini della macchia: la capinera, l’occhiocotto, la sterpazzolina. C’è qualcuno che crede che nei valloni più impervi viva ancora la bella lucertola ocellata, un sauro lungo fino a 80 cm con bellissime macchie sui fianchi. Sulle rupi a picco sostano i grandi gabbiani reali ed è possibile, ogni tanto, scorgere la sagoma del gheppio.

Ma la sorpresa più felice la troviamo sulla costa di Portofino. Le rocce tra cui sorge, nascosta, la meravigliosa abbazia di San Fruttuoso, sono sotto il pelo dell’acqua un vero campionario di organismi marini: alghe calcaree e alghe verdi, alghe brune e alghe rosse, gorgonie gialle e aranciate, spirografie flessuose inalberanti il ciuffo leggero dei tentacoli, spugne di ogni colore, anemoni di mare, attinie rosse. Più in basso, ove giungono solo i subacquei con gli apparecchi di respirazione, i mirabili coralli vermigli. Pesci, a causa di una pesca eccessiva, ce ne sono pochi.

Tutto il Monte di Portofino è oggi protetto per legge.

 

SEGNI DELLO ZODIACO: LEONE

In astrologia al “segno” del Leone appartengono i nati dal 23 luglio al 22 agosto. In realtà, in questo periodo, si verifica l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Cancro quindi i “leoni” dovrebbero appartenere al Cancro (o Granchio).

Il Leone che splende in cielo in primavera è Nemeo, l’immane fiera generata da Tifone e da Echidna, i due mostri che personificavano l’uragano e le nubi.
Nemeo venne affrontato da Ercole nella prima delle sue famosissime fatiche e, dopo un terribile corpo a corpo, fu ucciso e scuoiato. Con la pelle e il cranio della belva, Ercole si fece quel caratteristico mantello con copricapo che lo accompagnò per tutta la vita.

Quasi tutte le stelle di questa costellazione sono visibili a occhio nudo. Nel Leone brilla Regolo o “alfa Leonis”, chiamata dagli arabi “Al-Meliki”, “la Reale”, e detta dai greci “Piccolo Re”.
Regolo è una bellissima stella doppia che , osservata con un discreto cannocchiale, mostra il suo piccolo satellite. Regolo dista dalla Terra 85 anni luce.

La “beta Leonis” o Denebola, dall’arabo “deneb-al-Asad”, “la coda del Leone”, è anch’essa doppia come “gamma Leonis” o Algieba (“stella del leone”) che mostra, anche a occhio nudo, la bellezza e lo splendore delle due componenti.
”Beta Leonis” e “gamma Leonis” distano della Terra rispettivamente 42 e 130 anni luce.

Altre stelle sono “delta Leonis” o Durth, (“dorso del leone”), distante dalla Terra 68 anni luce; “epsilon Leonis” o “Ras Elased australis” (“la metà inferiore della testa del Leone”), che dista da noi 325 anni luce, e “my Leonis” o “Ras Elased borealis” (“la metà superiore della testa del leone”).

Nel Leone si possono osservare, già con piccoli strumenti, moltissime galassie. Le galassie sono corpi celesti molto distanti da noi, che hanno la stessa struttura della galassia dove si trovano il Sole e la Terra.
Esistono, nel firmamento, moltissimi tipi di galassie, che differiscono fra loro per la forma e per la presenza di spirali più o meno lunghe. Proprio in base a queste caratteristiche, gli astronomi hanno suddiviso questi oggetti stellari nei vari tipi, che vengono poi riportati sui cataloghi stellari.

Le galassie possono essere ellittiche (tipo E da 0 a 7); lo zero indica una forma quasi sferica, le cifre da uno a sette indicano l’aumentare dello schiacciamento.
Altre galassie sono quelle a spirale (tipo S); Sa, Sb, Sc rappresentano l’aumentare della lunghezza delle spire. Infine le spirali barrate (tipo SB) che, a loro volta, indicano la lunghezza delle spire con a, b,c.
M65 e M66 sono galassie a forma di spirale con spire di lunghezza media (tipo Sb); M96, invece, ha una forma di spirale con spire molto corte (tipo Sa).
NGC2903 è una nebulosa a forma di spirale con spire molto lunghe (tipo Sc).
NGC3379 ha una forma ellittica un poco schiacciata (tipo E1), mentre M95 è una nebulosa a forma di spirale barrata con spire di lunghezza media (tipo SBb).

PERCHE’ SI CHIAMA ITALIA

Sull’origine del nome Italia ci sono diverse teorie e leggende. C’è chi sostiene che deriverebbe dal nome di un certo principe Italo che anticamente avrebbe compiuto delle imprese epiche nella parte meridionale della nostra penisola. Altri si ricollegano al mito di Ercole che, attraversando l’Italia per condurre in Grecia il gregge di Gerione, avrebbe perso un capo di bestiame e, avendo saputo che secondo l’dioma locale quella bestia si chiamava vitulus, avrebbe denominato Vitalia tutta la regione.

Anche molti scrittori latini mettono in connessione il termine vitulus (vitello) con il nome Italia. La nostra penisola avrebbe cioè assunto questa denominazione in quanto “terra dei vitelli”. Gli studiosi moderni hanno accettato, per lo più, questa teoria, correggendola però parzialmente: Italia significherebbe non tanto “terra dei vitelli”, quanto piuttosto “terra degli Itali”, un’antica popolazione che avrebbe avuto per totem un vitello dal quale avrebbe preso il proprio nome.

Qualunque sia la tesi più attendibile, è certo però che originariamente il nome Italia si riferiva soltanto all’estremità meridionale della nostra penisola, cioè a una parte dell’odierna Calabria. Più tardi si estese anche alla Campania e, quando Roma assoggettò al suo dominio tutti i popoli compresi fra l’Arno e lo stretto di Messina, esso passò a indicare tutto questo territorio. Sotto l’imperatore Ottaviano (63 a.C. – 14 d.C.) il nome fu esteso ufficialmente all’intera penisola, fino all’arco alpino, e con Diocleziano (245-313 d.C.) furono amministrativamente riunite sotto lo stesso nome anche le isole.

UMBRIA: I TARTUFI

Qualcuno lo chiama “frutto del diavolo” perchè è misterioso e difficile da trovare: si tratta del tartufo, tubero prezioso e delizia dei buongustai. Secondo la leggenda, lo conoscevano già i Babilonesi che ne apprezzavano moltissimo il sapore. I Romani lo consideravano un cibo eccezionale. Nelle corti rinascimentali veniva servito durante i banchetti importanti. Oggi viene venduto fresco, in autunno, a prezzi astronomici, a seconda dell’annata più o meno generosa di frutti. Piemonte e Umbria si contendono il primato della qualità: i tartufi bianchi di Alba contro i tartufi bianchi e neri di Norcia.

Il tartufo si trova, spesso, a mezzo metro sotto terra, ai piedi di una quercia o di un faggio, a volte in luoghi impervi. A trovarlo è il “trifolaro”, ma non senza l’aiuto di un cane di ottimo fiuto e intelligente. La “caccia” si svolge nei boschi, in terreni umidi, sulle verdi colline umbre, in un paesaggio incantevole: il cane viene mandato avanti e si scatena tra i profumi del sottobosco. Poi, ad un certo punto, si ferma, comincia ad annusare freneticamente vicino ad un cespuglio o ad un albero, comincia a scavare. Allora interviene il trifolaro, lo ferma per non lasciargli rovinare la “preda”, ma lo premia con un buon boccone per averla individuata. Con una piccolissima vanga continua lentamente a scavare dove il cane ha iniziato, annusa anche lui il terreno, finchè gli giunge alle narici l’inconfondibile profumo del tartufo. Termina lo scavo e lo estrae dalla terra come se fosse una reliquia.

In realtà, il tartufo è piuttosto brutto a vedersi, spesso bitorzoluto, di dimensioni variabili, coperto di terra e simile, a prima vista, a una patata. Dopo ogni ritrovamento il buon trifolaro, che ha enorme rispetto in questo modo il tartufo potrebbe rinascere nello stesso luogo in un’altra stagione. Quella del trifolaro è un’attività redditizia.

Questo raro e prezioso prodotto della terra è di solito ricercato per il suo particolarissimo profumo che si accompagna in modo delizioso a cibi crudi e cotti, ma bisogna dire che ha anche un elevato potere nutritivo. Infatti, è ricco di proteine e di sali minerali che lo rendono un alimento completo e facilmente digeribile.

ODINO

Capo supremo del Walhalla è un dio generoso e forte, ma terribile nelle sue ire e temuto e rispettato dall’intera corte celeste. Si chiama Odino: è un vecchio dalla gran barba, senza un occhio. Lo ha donato alla guardiana della fontana di Mimir in cambio di un sorso dell’acqua miracolosa che concede la sapienza assoluta. Veste con un vecchio mantello azzurro e ha il capo coperto da un cappello a larghe falde. Gira armato di una lancia e porta nella mano destra un anello d’oro dal quale ogni nove notti se ne genera un altro di eguale bellezza. Sua moglie si chiama Frigg ed è il simbolo della fecondità e della fedeltà coniugale. Per i popoli del Nord è, a un tempo, il dio dei poeti, dei saggi, dei contemplativi, ma anche dei guerrieri. In battaglia è spietato, scaltro e cinico, sa rendere cieco l’avversario e lo paralizza di paura. Ama i guerrieri intrepidi, disprezza la sofferenza, adora il potere. Pretende sacrifici umani, meglio se sono re. Odino ha ai suoi ordini degli “agenti speciali”, che gli riferiscono tutto ciò che accade nel mondo. Sono due corvi che sono sempre in volo alla ricerca di notizie e per osservare e ascoltare cosa fanno e dicono gli uomini. Poi ogni tanto ritornano alla reggia e fanno un dettagliato rapporto a Odino. Nella corte ci sono anche le Valchirie. Sono gli angeli dei combattimenti, messaggere di Odino, con il quale scelgono sui campi di battaglia i guerrieri più eroici, destinati a una morte onorevole. Sono una quarantina e alcune di loro sono anche dee del destino. Hanno una corazza e sono armate con una lunga lancia e portano in testa un elmo d’oro.
Odino non è però immortale, come non sono immortali gli altri dèi della mitologia nordica. E in questo è la vera e unica differenza sostanziale di questi miti in confronto a quelli greco-romani: là gli dèi sono immortali e il loro regno e il loro potere sugli uomini è eterno.

Il Walhalla, il paradiso degli eroi

I Vichinghi e gli altri popoli nordici dividono i morti in due categorie: quelli che muoiono di morte naturale e finiscono agli inferi, oscuro dominio della dea Hel; i guerrieri valorosi che cadono in combattimento e che, scelti dalle Valchirie, hanno invece diritto ad entrare nel Walhalla, una specie di paradiso, dimora di Odino, un palazzo con 640 porte con lance al posto delle travi e scudi al posto delle tegole. Qui vivranno in continua allegria, in attesa di partecipare, a fianco degli dèi, alla grande battaglia della fine del mondo.

Il martello di Thor

Thor, figlio di Odino, è un dio di età matura, con la barba, spalle molto larghe e muscoli vigorosi. E’ amico degli uomini, che difende dalle angherie dei Giganti anche grazie ad un prodigioso martello, mjollnir, che una volta lanciato e colpito l’obiettivo torna nelle mani del padrone. Ai fianchi porta una cintura magica che raddoppia la forza di chi la veste. E’ il grande difensore della sovranità degli dèi. E’ il preferito tra i Vichinghi che gli attribuiscono tutte le loro doti e i loro difetti: generoso, coraggioso, allegro, ma anche volgare e avido di bottini.

Thor è disordinato, e un giorno Thrym gli ruba il martello e lo nasconde “otto miglia sotto terra”. Per restituirlo vuole avere in moglie la dea Freyia, la più bella di tutte, che viaggia su un carro tirato da gatti. Freyia è sposata con il dio Odhr (il fuoco sacro), che ogni tanto sparisce per lunghi periodi, lasciando la moglie a piangere lacrime di oro rosso. Freyia non vuole tradire suo marito, allora Thor decide di travestirsi da donna e di andare da Thrym spacciandosi per la dea. Questi la accoglie con tutti gli onori, ma incomincia a insospettirsi quando la vede divorare un bue, otto salmoni e tre misure di idromele. Poi s’impaurisce per la fiamma che scorge nei suoi occhi. Interviene il dio Loki a calmarlo: “Non devi stupirti: da otto giorni non mangia e non dorme per l’emozione”. Thrym cade nel tranello e al momento dello scambio dei doni porge a quella che crede Freyia il martello rubato. Afferrata l’arma, Thor si rivela e uccide il ladro, la sua famiglia e tutto il seguito.

Loki il malvagio

Figlio di una coppia di Giganti, Loki è il dio del male e del disordine. Non ha morale, ama gli scherzi feroci e impedisce al mondo terreno di essere felice. Ha il potere di trasformarsi: diventa un falcone per rapire la dea Indunn, una mosca per rubare la collana di Freyia, una vecchia strega per impedire a Balder di uscire dagli inferi. Dopo molte cattiverie, Loki viene inseguito e catturato dagli altri dèi. Per nascondersi era diventato un gigantesco salmone. Lo legano e gli versano veleno sulla testa. Loki si dimena spaventosamente: tutte le volte che ha un guizzo furioso nel mondo esplode un terremoto.

Balder il più bello

Balder, al contrario di tutti gli altri dèi, è dolce e amabile. Egli, secondo il mito, “è così bello e così brillante che emana luce, è il più saggio e il più abile a parlare”. La madre Frigg, una delle mogli di Odino, lo ha reso invulnerabile facendo giurare tutte le piante della terra che mai un’arma fatta con il loro legno avrebbe potuto ucciderlo. Ma si è dimenticata del vischio. Il dio Loki, cattivo e geloso, durante un gioco riesce a far colpire Balder da un ramo di vischio. Questi, trafitto, finisce nell’orribile regno di Hel, la dea degli inferi, che per liberarlo pone una condizione: tutti gli uomini dovranno piangerlo. Il mondo intero accetta, ma proprio quando Balder sembra salvo, la vecchia e brutta Thokk, in realtà Loki travestito, si mette a ridere. Balder, costretto a restare negli Inferi, tornerà solo alla fine del mondo per la grande battaglia tra gli dèi e le forze del male.

L’idromele, una bevanda portentosa

Kvasir, essere di straordinaria sapienza, è nato dallo sputo degli dèi. Un giorno incontra i nani Fjalar e Galar che lo uccidono e fanno colare il suo sangue in un recipiente, dove lo mescolano con del miele. Nasce l’idromele, una bevanda magica che dà a chi la beve il talento del poeta e del sapiente. La bevanda finisce nelle mani del gigante Suttung e di sua figlia Gunnlod. Odino vuole impossessarsene. Uccide nove servi di Suttung, poi penetra nella sua reggia sotto le sembianze di un serpente, seduce Gunnlod e in tre sorsate finisce tutto l’idromele. Si trasforma in aquila e vola via per riportare tutta la saggezza e la sapienza agli dèi.

 

I SEGNI DELLO ZODIACO: LA BILANCIA

Secondo gli astrologi, i nati col Sole nella Bilanica, dal 23 settembre al 22 ottobre, sono tipi, ovviamente, equilibrati. Nella reale disposizione degli astri, in questo periodo, si verifica l’allineamento Terra-Sole-Costellazione della Vergine. Quindi i nati nella Bilancia appartengono, di fatto, alla Vergine.

La Bilancia o Libra, che presso i Greci rappresentava il simbolo della giustizia, è la costellazione zodiacale di origine più recente. Questa infatti, anticamente, faceva parte dello Scorpione. Le sue stelle più brillanti hanno un nome arabo che ne ricorda l’origine. “Alfa Librae” si chiama infatti Zuben Elgenubi (“Chela meridionale” dello scorpione) e “beta Librae”, Zuben Elschemali (“Chela settentrionale”).

Anche nella bilancia ci sono delle stelle doppie. L’alfa, per esempio, è una “doppia ottica” risolubile già con un buon binocolo. Si chiamano ottiche quelle stelle doppie le cui componenti si trovano a distanze anche molto diverse rispetto alla Terra. Poi ci sono le “doppie fisiche”, come “my Librae” che costituiscono un vero e proprio sistema orbitale in cui le due stelle ruotano l’una intorno all’altra.

“Delta Librae”, chiamata anche Zuben Elakribi, è una “variabile a eclisse” in cui le due componenti, nel corso della loro rivoluzione, passano una davanti all’altra, rispetto al nostro punto di vista. Cosa questa che causa una periodica variazione della loro luminosità.

Nel caso delle stelle doppie fisiche, si possono fare delle osservazioni scientifiche veramente interessanti. Conoscendo infatti la distanza di una stella doppia, il periodo di rivoluzione e la lunghezza dell’orbita, è possibile, con una semplice equazione da scuola media, conoscere la massa delle stelle stesse, cioè il loro peso. Quello di riuscire a pesare le stelle è un risultato stupendo, possibile soltanto nel caso delle stelle doppie. Non esiste infatti nessun altro metodo per ricavare il peso di una stella. Le stelle più pesanti arrivano a circa 38 volte la massa del Sole. Le più leggere hanno un peso equivalente a quattro centesimi di quello del Sole.

La Costellazione della Bilancia la possiamo osservare dalla metà di aprile alla metà di agosto circa, sempre piuttosto bassa sull’orizzonte. Il suo punto di massima elevazione, quando si trova sul nostro meridiano, in direzione sud, alla massima distanza dall’orizzonte, si ha il 20 giugno alle ore 21.

Se percorriamo idealmente la retta che unisce la Stella polare con l’ultima ruota destra del Piccolo carro e proseguiamo verso sud, incontriamo il timone del Grande carro, leggermente a destra e poco più a nord del nostro zenit. Dallo zenit in poi ci voltiamo verso sud e, proseguendo per la stessa retta (che è poi il nostro meridiano), incontriamo la stella “alfa” della Bilancia. Nel cielo della Bilancia appaiono anche alcune delle stelle più luminose del firmamento. Quasi a mezza strada fra l’alfa della Bilancia e il nostro zenit, poco a destra, brilla Arturo della Costellazione di Boote. Ancora più a destra vediamo Spiga della Vergine e, verso l’orizzonte occidentale, Regolo del Leone. Sull’orizzonte nord-ovest si scorgono Castore e Polluce dei Gemelli e Capellai dell’Auriga. A sinistra dello zenit, verso est, si scorgono Vegai della Lira e Altair dell’Aquila.

DEI DELLA MESOPOTAMIA

In Mesopotamia (Terra tra i fiumi, il Tigri e l’Eufrate) si stanziarono varie popolazioni: la prima di cui si hanno notizie certe è quella dei Sumeri, che diedero vita alla civiltà più antica del mondo, almeno di quelle finora conosciute, e inventarono intorno al 3200 a.C., due secoli prima degli Egizi, la scrittura.

Ai Sumeri succedettero gli Accadi, i Babilonesi e gli Assiri, popoli che assimilarono e arricchirono la civiltà sumerica. Ognuna delle popolazioni che dominava sul territorio impose propri dèi: tra quelli dei Sumeri (un centinaio), uno dei più amati era Enki, il signore della Terra, protettore di Eridu, probabilmente la città più antica della Mesopotamia. Con la madre Nammu, decise un giorno di creare con l’argilla l’uomo. La dea Ninmah, invidiosa, cercò di imitarlo, ma creò soltanto esseri brutti, deformi e, talvolta, anche malvagi. Enki vi pose rimedio trovando anche per loro uno spazio nel mondo (per esempio, stabilì che i deboli nel fisico facessero i funzionari del re, che i ciechi diventassero poeti, ecc.). Il bene e il male, secondo i Sumeri, venivano dunque dagli dèi e il destino di ognuno era deciso da Enki, dio buono e civilizzatore, che partecipava alle gioie degli uomini, proteggendo anche la loro vita.

Tra gli altri dèi, nella città di Uruk, si venerava Inanna, dea del cielo; a Ur la divinità lunare Nanna; a Lagash il dio della fertilità Ningirsu.

Gli Accadi, che assoggettarono i Sumeri verso il 2300 a.C., adoravano Ea, dio molto potente dotato di grande intelligenza e saggezza. Ea era considerato il padre di Marduk, il dio più venerato presso i Babilonesi, che lo ritenevano giusto, sovrano e organizzatore dell’Universo. Rappresentava la vita, la civiltà e il progresso. Marduk aveva creato la volta celeste e la Terra, i fiumi Tigri ed Eufrate, sgorgati dai suoi occhi, e infine l’uomo.

Il diluvio presso i Sumeri

Mille anni prima della Bibbia, i Sumeri tramandavano già, nelle loro tavolette d’argilla, la vicenda del diluvio universale. Secondo le loro leggende era stato il dio malvagio Enlil, che aveva deciso di sterminare la razza umana. Ma il dio Enki aveva avvertito il re Ziusudra, che costruì una nave con la quale riuscì a salvarsi navigando per settimane sulle acque tempestose che avevano invaso tutta la Terra. Alla fine l’imbarcazione approdò sulla cima di una montagna e il primo essere vivente a uscirne fu, proprio come nella Bibbia, una colomba. Il diluvio, se non riuscì a sterminare l’uomo, ottenne comunque un risultato: da quel momento i re sumeri persero l’immortalità.

Atrakhasis come Noè

I Babilonesi l’episodio del diluvio universale lo raccontavano così.
I primi uomini una volta creati, generarono molti figli, ma questi facevano un tal baccano da impedire al dio della Terra di dormire. Questi progettò di mettere fine al fracasso, ma si vide ostacolato, allorchè Atrakhasis, un uomo giusto, chiese l’aiuto del dio che aveva creato l’uomo. Alla fine gli dèi decisero di scatenare un’inondazione catastrofica e giurarono di mantenere segreto il progetto. Ma anche questa volta Atrakhasis fu avvertito, il dio gli apparve in sogno e gli disse di costruire un’imbarcazione, di prendere a bordo la famiglia e alcuni animali e di spiegare alla gente che quel che stava facendo era un castigo inflitto a lui, un castigo che avrebbe procurato loro dei benefici. Poi, quando tutti furono a bordo, la tempesta si scatenò e tutta l’umanità venne spazzata via.

Persino gli dèi ne ebbero a soffrire. Con la distruzione dell’umanità essi persero il cibo e le bevande offerte nei sacrifici e se ne rimasero miseramente seduti in cielo, finchè i sette giorni di tempesta non cessarono. Quindi Atrakhasis mandò fuori degli uccelli per accertarsi che la Terra fosse di nuovo abitabile e offrì un sacrificio sulla montagna su cui la sua imbarcazione si era fermata. Attratti dal profumo delle offerte, gli dèi si radunarono avidi “come le mosche” e giurarono di non provocare più una simile distruzione. La dea madre offrì in pegno una collana di pietre blu. Ma il dio, il cui sonno era stato disturbato, non era ancora soddisfatto. Così, dopo aver discusso sull’ingiustizia di una punizione indiscriminata, si adottò un altro sistema: alcune donne sarebbero entrate in ordini religiosi e non avrebbero avuto figli, mentre altre avrebbero perso i loro piccoli in seguito a malattie, con la conseguente limitazione della popolazione.

Come Caino e Abele

Poco tempo dopo il diluvio universale, narrano i Sumeri, due fratelli vengono a lite per amore della dea Inanna. Il primo dei due fratelli si chiama Dumuzi e fa il guardiano delle greggi; il secondo, Enkimdu, è un contadino. Dumuzi è buono, Enkimdu è malvagio. La dea non solo sceglie Dumuzi, ma lo rende quasi immortale come un dio. Furente, Enkimdu cerca in tutti i modi di vendicarsi, ma alla fine è conquistato dalla bontà del fratello, si riconcilia, si pente e ne diventa inseparabile amico. La vicenda ricorda per molti aspetti il racconto biblico di Caino e Abele, anche se il finale è molto diverso.

QUANDO SONO NATI I COGNOMI

L’usanza di aggiungere al nome un “soprannome” cominciò verso la fine dell’Impero romano. Nel Medioevo quasi tutti avevano un cognome. A fianco del nome si iniziò a mettere il nome del padre, o il mestiere esercitato, o la località d’origine, o particolari caratteristiche dei parenti.

In un secondo tempo questi “soprannomi” vennero ereditati, con storpiature e modifiche varie, anche dai discendenti. L’ufficializzazione dei cognomi avvenne verso la metà del 1500 quando il Concilio di Trento stabilì che i parroci segnassero nei registri dei battesimi non solo i nomi ma anche i cognomi.