QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

RUDYARD KIPLING: IL LIBRO DELLA GIUNGLA

L'AUTORE
Figlio di inglesi, Rudyard Kipling nacque in India, a Bombay, nel 1865. Andò per la prima volta in Inghilterra a 6 anni, per studiare, e vi restò fino a 17; tornato in India cominciò a pubblicare racconti e poesie. La celebrità arrivò di colpo, fra il 1894 e il 1897, con Il libro della giungla, Il secondo libro della giungla e Capitani coraggiosi, libri che divennero famosi fra i ragazzi di tutto il mondo. Il capolavoro di Kipling è Kim, del 1901. E' la storia di un ragazzetto inglese, orfano di un soldato, che cerca i compagni del padre e gira l'India come discepolo di un "santo", un lama tibetano. Si dice che Kipling fu un autore "imperiale": in molte sue opere è presente il concetto della potenza inglese. Oltre a diversi volumi di versi, Kipling per il pubblico infantile scrisse Storie proprio così, Puck delle colline e Premi e fate. Nel 1906 ebbe la medaglia d'oro come miglior scrittore inglese e nel 1907 ricevette il premio Nobel per la letteratura.

LA TRAMA
Akela, capo dei lupi della giungla indiana, trova fra i cespugli un cucciolo d'uomo: un bambino nudo e bruno, che gli sorride quando lo vede. La legge della giungla impedisce alle belve di cacciare l'uomo, che è troppo pericoloso e pronto a vendicarsi. Inoltre Mowgli, come verrà chiamato il piccolo, ha un'aria inoffensiva: nessuno può avere paura di lui. Solo Shere Khan, la grande tigre, vorrebbe ucciderlo per divorarlo. La pantera Bagheera e l'orso Baloo glielo impediscono: Mowgli potrà vivere e crescere in libertà. Diventa amico di tutti gli animali: Kaa il pitone e Tabaqui lo sciacallo, Mang il pipistrello, Rikki-Tikki-Tavi la mangusta, che riesce a uccidere il cobra Nag, velenoso e tanto più forte. Solo Shere Khan resta nemica: ma sarà Mowgli con la sua intelligenza a vincere.

IL PROTAGONISTA
Mowgli è come un altro grande personaggio della giungla, Tarzan. Anzichè le scimmie, sciocche e chiacchierone, lo allevano i lupi. Akela gli spiega il significato di ogni rumore, dallo scricchiolio che fa il pipistrello grattando un ramo al tonfo dei pesci nell'acqua degli stagni. L'orso Baloo gli passa miele e noci, buoni da mangiare come la carne. Ma la sua maggiore amica è Bagheera, la pantera che sembra tutta nera ma, sotto i raggi del sole, mostra macchie trapuntate su una pelle di seta. Più tardi Mowgli vedrà anche i suoi simili, gli uomini: bambini che hanno paura di lui, pastori di bufali, cacciatori. Impara le loro abitudini e, diventato grande, tornerà a vivere con loro. Ma questa, conclude Rudyard Kipling, è una storia per gli adulti.

MOWGLI E LA TIGRE
Shere Khan disprezza Mowgli, lo chiama "ranocchio". Una tigre lunga più di tre metri, potente, terrore della giungla, non può temere un ragazzo. Voleva sbranarlo quand'era piccolo ma ha pazienza: verrà il momento in cui il cucciolo d'uomo finirà tra le sue zampe.
La legge della giungla ha insegnato a Mowgli che ci si deve controllare. Il nutrimento e la vita dipendono dal dominio di se stessi. Sfidare faccia a faccia la tigre significherebbe morire; bisogna saper fare dei piani. Entrando in un villaggio dopo gli anni passati con i lupi, Mowgli ha conosciuto Buldeo, un cacciatore che possiede un vecchio moschetto. Il governo indiano, viene a sapere, ha posto una taglia su Shere Khan: cento rupie a chi porterà la sua pelle. Buldeo prende in giro il ragazzo: "Perchè non ci provi tu?".

Quando il capo del villaggio gli offre di portare al pascolo le mandrie, Mowgli accetta. E' un lavoro poco divertente, perchè i bufali stanno immobili a pascolare, e se per caso fanno due passi si fermano subito. In aria volano nibbi famelici, pronti a buttarsi su un animale piccolo o, se sta morendo, anche su una belva. Mowgli si fa scortare dai suoi amici, i lupi: se Shere Khan si avvicina lo avvertiranno. Fratello Bigio, il figlio del capo Akela, viene a sapere dallo sciacallo Tabaqui che la tigre ha divorato un cinghiale e si è nascosta a dormire in un burrone asciutto, sovrastato da alti dirupi. E' il momento buono per agire.

Akela e Fratello Bigio dividono la mandria: da un lato tori e bufali, dall'altro vacche e vitelli. I due gruppi, spaventati, irrompono nel burrone. Shere Khan si sveglia di colpo. Le pareti rocciose scendono a picco, impossibile scalarle. Il terreno trema sotto il fragore degli zoccoli. La tigre sa che non può resistere a una carica di bufali e si prepara a combattere per la vita. Ma non ha più scampo. La mandria la schiaccia. Mowgli estrae il suo coltello e scuoia da solo la belva. Ha avuto la sua vendetta.

FRYDERYK CHOPIN

"Giù il cappello, signori: un genio". E' così che all'inizio dell'Ottocento i salotti musicali europei erano soliti accogliere il compositore polacco Fryderyk Chopin. Era l'epoca del Romanticismo: gli artisti si abbandonavano a slanci eroici, si lasciavano guidare dal sentimento e dalla nostalgia. La musica di Chopin racconta tutto questo: malinconie, passioni e il grido di libertà per un popolo oppresso.
Fryderyk nacque il 22 febbraio 1810 a Zelazowa Wola, un villaggio a dieci chilometri da Varsavia. Il padre Nicola, nato in Francia, si era trasferito in Polonia a 16 anni. Dopo aver fatto il contabile, era diventato insegnante di francese, lingua molto diffusa durante l'epoca napoleonica. A Zelazowa Chopin padre aveva trovato lavoro come istitutore in una famiglia nobile e si era sposato con Justine, governante del conte Skarbek.
Fryderyk ricevette le prime lezioni di pianoforte dalla madre. Poi studiò con Gregor Zywny, allievo di un allievo di Bach. Da bambino trascorse le vacanze a Szafarnia, nella pianura di Danzica. La vita dei contadini e il fascino dei suonatori di violino lasciarono nella sua memoria il ricordo indelebile delle tradizioni popolari e del folclore polacco.
Chopin diventò presto un brillante virtuoso. Sfoggiava una tecnica prodigiosa, una straordinaria agilità delle mani e delle dita. A sedici anni aveva già un aspetto signorile.
I contatti con la nobiltà polacca lo fecero conoscere al grande pubblico. A 19 anni s'innamorò della cantante Costanza Gladkowska, alla quale dedicò l'adagio di un concerto. Le scrisse in una lettera: "Racconto al pianoforte ciò che potrei confidare a te solo". Una frase che contiene l'essenza del musicista romantico: affidare alle note i propri sentimenti.

Nel 1830 Chopin partì per un lungo viaggio. Fu una decisione sofferta, perchè a Varsavia c'era molta tensione. I polacchi insorsero contro re Costantino, fratello dello zar di Russia. Non era il clima ideale per un artista. Chopin era diviso tra l'amore per il suo popolo e il desiderio di fuggire. Alla fine gli amici lo convinsero: lasciò Varsavia il 2 novembre 1830. Si portò dietro una grande tristezza e una manciata di terra polacca.
Dopo una tappa a Dresda, Chopin si fermò otto mesi a Vienna. La lontananza gli procurava un'intensa malinconia. Un giorno di primavera, dopo una passeggiata al Prater (il grande parco sulla sponda destra del Danubio), annotò sul suo diario: "Neppure la musica oggi mi consola. Non so che cosa mi manca, e ho più di vent'anni". Le notizie dalla Polonia erano frammentarie. L'esercito si era ribellato al re Costantino, il Paese rimase isolato. Si scatenò la repressione russa. Nel settembre 1831 la lotta del popolo polacco si concluse con l'occupazione di Varsavia. Chopin era disperato, ma riuscì a comporre un capolavoro, La caduta di Varsavia, un canto d'amore per la patria.
Il 18 settembre 1831 Chopin era a Parigi, dove incontrò i musicisti Rossini, Berlioz e Liszt. Nei primi mesi visse di stenti. Poi arrivò il colpo di fortuna: un nobile lo presentò al barone Rotschild. In breve Fryderyk divenne celebre. Suonava nei migliori salotti e insegnava pianoforte ai rampolli della nobiltà. Ormai era ricco: vestiva con raffinatezza, si permetteva un maggiordomo e una carrozza.
Nel dicembre 1836 incontrò la scrittrice francese George Sand, della quale s'innamorò. Intanto si faceva strada la malattia: tubercolosi polmonare. I medici gli consigliarono di passare l'inverno in una località di mare. La coppia partì per l'isola spagnola di Maiorca, ma la tosse si faceva sempre più acuta e insistente, Chopin, tuttavia, trovò le energie per comporre la Polacca op.40 numero 1. Lo zar di russia, intuendone la forza rivoluzionaria, vietò di suonarla.
Nell'aprile 1848 il compositore era in Inghilterra e in Scozia. Risale a questo periodo l'unica fotografia di Chopin: si vede un musicista invecchiato, scavato dalla malattia. Al ritorno da Londra si trasferì in un alloggio in Place Verdome, forse la più bella piazza di Parigi. Morì il 17 ottobre 1849, all'età di 39 anni.

1858: LA MORTE DI RADETZKY

Radetzky, il boia. A generazioni intere di studenti italiani questo nome ricorda le sconfitte di Custoza e Novare, le durissime repressioni in Veneto e Lombardia, le forche austriache contro i nostri patrioti. Come si può dire per molti personaggi storici, è tutto vero: però non è tutto. Effettivamente questo soldato boemo dalla lunghissima vita, nato un quarto di secolo prima della Rivoluzione francese e morto a 92 anni nel 1858, fu il maggiore avversario dell'unità d'Italia. Visto invece con occhi viennesi fu un eroe nazionale, tanto da meritare alla sua scomparsa un onore mai reso nè prima nè dopo a un cittadino d'Austria: l'imperatore Francesco Giuseppe che, sciabola alla mano, si poneva alla testa del corteo funebre.

Johann-Joseph-Franz-Karl Radetzky, conte di Radetz, aveva 18 ani quando si trovò a combattere contro i turchi. Già promosso ad alti gradi nelle battaglie napoleoniche, fece tesoro delle sconfitte inizialmente subìte mettendo a punto una strategia che doveva invertire le sorti della guerra. Chi si fosse opposto frontalmente a un genio militare come Napoleone era destinato a perdere: meglio logorarlo, magari ritirandosi nel momento giusto per poi vibrare il colpo finale. Era la medesima tecnica adottata in Russia dal generale Kutuzov e descritta alla perfezione in "Guerra e pace". Solo che a Radetzky mancò un romanziere come Lev Tolstoj, capace di esaltarne i meriti.

Così pochi seppero che la vittoria di Lipsia contro Napoleone, preludio dello scontro decisivo a Waterloo fu dovuta proprio ai piani predisposti da Radetzky. Ugualmente si tende a ignorare che, nella veste di governatore per l'Alta Italia, il generale non solo aveva previsto le lotte del Risorgimento ma vedeva assai più lontano: un futuro dominio del mondo da parte dei russi e degli americani, al quale doveva opporsi un'unione europea. Inutile dire che, per Radetzky, alla base di ogni intesa doveva restare l'impero austro-ungarico: concetto che, ponendosi dal suo punto di vista, non può certo essergli rimproverato.

Comunque, Radetzky si considerava già un pensionato allorchè la situazione italiana impose il suo richiamo nel servizio attivo. Aveva 65 anni quando lo nominarono governatore militare, ben 82 quando sconfisse i piemontesi di Carlo Alberto e riconquistò Venezia dopo uno spietato assedio. Durezze d'animo che confermò nei processi di Mantova contro i patrioti, conclusi con una serie di impiccagioni.

Eppure i suoi biografi si sentono di affermare che questo soldato, promosso Feldmaresciallo già nel 1836, amava l'Italia. Soggiornava più che volentieri a Milano, dava feste grandiose, si riempiva di debiti per restare all'altezza del suo rango. Aveva avuto perfino 4 figli da un'italiana. Gli sentivano dire che a lui bastava "impiccare preti e avvocati", ossia gli esponenti di quella borghesia che lottava per la libertà mentre, a suo parere, operati e contadini volevano solamente starsene in pace.

Quale che sia in ogni modo il giudizio storico, fu Radetzky a ritardare di decenni la nostra unità nazionale. Già battuto nel 1848 a Custoza, il re Carlo Alberto tentò ancora la sorte a Novara, l'anno seguente. La sconfitta dei piemontesi fu rovinosa. Carlo Alberto abdicò a favore del figlio e, curiosamente, chiese proprio agli austriaci il lasciapassare per la fuga. In abiti borghesi, sotto il nome di conte di Barge, se ne andò in carrozza con un solo servitore. Morì pochi mesi dopo a Oporto, in Portogallo. Il suo successore, Vittorio Emanuele II, il 24 marzo 1849 concordò a Vignale (Novara) la pace con il Feldmaresciallo. I due si abbracciarono scambiandosi regali. Radetzky lasciò scritto che l'unico sistema per evitare altre guerre era quello di non infierire sul nemico vinto.

 

LE SETTE ANTICHE MERAVIGLIE DEL MONDO

Con il nome di "meraviglie del mondo" venivano designate nell'antichità 7 grandi costruzioni che suscitarono l'ammirazione universale oltre che per la loro bellezza anche per la loro grandiosità. Il primo a parlarne fu il greco Antipatro di Sidone nel secondo secolo avanti Cristo. Ed è appunto suo l'elenco di questi monumenti che gli antichi ritenevano le testimonianze più splendide dell'arte del loro tempo.
In epoca romana e cristiana si aggiunsero e si sostituirono altri monumenti come il palazzo di Ciro a Ecbatana, il Campidoglio e il Colosseo a Roma, il tempio di Adriano a Cizico, antica città dell'Asia Minore. Come ottave meraviglie sono ricordate Santa Sofia di Costantinopoli e la città di Roma.

Grande Piramide
La piramide di Cheope è l'unica delle "sette meraviglie" giunta intatta sino ai giorni nostri. Scrive Erodoto, a cui dobbiamo molte notizie sull'arte egizia, che alla costruzione di questa piramide avrebbero lavorato più di centomila uomini per vent'anni. Un lavoro immane: basta pensare che con i 2.300.000 blocchi di pietra della piramide si potrebbe fare un muro alto più di un metro e cingere con questo tutti i confini della Francia che hanno uno sviluppo di 2.384 chilometri.
Ancora oggi, in piena era tecnologica, la sua straordinaria mole, che si innalza sulla piana sabbiosa di Giza, vicino al Cairo, lascia stupefatti i visitatori che le si avvicinano, mentre gli scienziati si domandano come poterono gli antichi Egizi realizzare un'impresa che spaventerebbe il più audace e meglio organizzato dei nostri architetti. Privi di gru, senza strumenti di ferro o acciaio, gli Egizi di oltre 4.500 anni fa cavarono dai fianchi delle montagne e trasportarono sino a Giza qualcosa come 6 milioni di tonnellate di pietra, in blocchi, perfettamente tagliati e squadrati, pesanti fino a 15 tonnellate ciascuno.
La base della Grande Piramide è quadrata: ogni lato misura 230 metri e l'altezza, che in origine era di 145 metri, raggiunge i 135, poichè i blocchi del vertice non esistono più. Non a torto le è stato dato l'appellativo di "grande": ha detenuto il record di edificio più alto eretto dall'uomo fino al 1885, quando sorse il monumento a Washington (169,3 metri) nella capitale degli Stati Uniti.
La Grande Piramide era destinata a custodire la mummia e i tesori di un solo uomo, il faraone Cheope, ma nè l'una nè gli altri scamparono ai saccheggi e alle devastazioni dei ladri, che riuscirono a scoprire i passaggi interni e a raggiungere le tre piccole stanze nascoste nell'enorme massa di pietra.

Statua di Giove
Era opera del grande scultore greco Fidia, il quale la modellò per il tempio di Zeus a Olimpia. La statua, gigantesca, era d'oro e avorio e sedeva su un trono aureo. Di questa statua ci resta soltanto una descrizione particolareggiata fatta dallo storico greco Pausania.

Mausoleo di Alicarnasso
Era una tomba monumentale, fatta costruire dalla regina della Caria, Artemisia, in onore del marito Mausolo, satrapo persiano.
Era alta circa 50 metri; le colonne, di stile ionico, erano 36 e sostenevano una piramide di 34 gradini, sormontata da una quadriga con le statue di Mausolo e Artemisia. Tutta la costruzione era in marmo; dovunque c'erano statue e altorilievi, opera dei maggiori artisti del tempo: Scopa, Timoteo, Briasside e Leocare. Il nome di mausoleo passò poi a indicare qualsiasi monumento sepolcrale. Alicarnasso era un'antica città dell'Asia Minore, patria dello storico Erodoto. Oggi si chiama Bodrum. Il Mausoleo nel 1400 e nel 1500 fu poco per volta demolito per ricavare materiale per altre costruzioni. Alcuni frammenti si trovano al British Museum di Londra.

Giardini pensili di Babilonia
E' difficile ricostruire questa meraviglia che sorgeva a Babilonia e di cui non restano che minimi e imprecisi avanzi. Si sa che questi giardini erano a forma di tempio-torre, con terrazze sovrapposte, cariche di alberi e fiori. Un'enorme serra fiortia fatta costruire da Nabucodonosor per la sua sposa, una principessa della Media. Lo storico Erodoto descrive la Babilonia di Nabucodonosor come la capitale "che sorpassava in splendore ogni città del mondo conosciuto".

Faro di Alessandria
Di fronte ad Alessandria d'Egitto, nell'isoletta di Faro, fu innalzato nel 285 a.C. il più grande faro conosciuto nell'antichità. L'architetto Sostrato lo rivestì di splendidi marmi e lo innalzò, si dice, fino a 122 metri sul mare. Al suo vertice, un immenso braciere diffondeva un bagliore visibile a grande distanza. Il faro resistette oltre 1500 anni: fu distrutto da un terremoto nel 1375.

Tempio di Diana
Il tempio sorgeva ad Efeso, città dell'Asia Minore: fu costruito su una altro tempio distrutto dal fuoco appiccatovi da un pazzoide, Erostrato, il giorno della nascita di Alessandro Magno.
Il nuovo tempio era lungo 129 metri e conteneva 127 colonne alte 18 metri. Gli scavi hanno portato alla luce numerosi frammenti.

Colosso di Rodi
Era una gigantesca statua dedicata al dio Sole. Fu costruita verso il 290 a.C. dallo scultore Carete di Lindo, in bronzo, con intelaiatura interna in ferro. Le fonti antiche affermano che raggiungeva i 70 cubiti o i 105 piedi romani (32 metri) di altezza. E' poco verosimile la tradizione secondo la quale il Colosso sorgeva all'ingresso del porto con le gambe divaricate, in modo che le navi vi passassero sotto. Questa statua ebbe vita breve: nel 224 a.C., una sessantina di anni dopo la sua inaugurazione, fu distrutta da un violento terremoto che devastò l'intera isola di Rodi. Il Colosso si spezzò all'altezza delle ginocchia e si abbattè al suolo finendo a pezzi. I frammenti rimasero lì per secoli, finchè nel 653 d.C. il sultano Muàwiyah li fece trasportare in Siria, dove furono in gran parte fusi e poi venduti a un ricco mercante ebreo.

CERVANTES: DON CHISCIOTTE

L'AUTORE
E' uno dei massimi nomi della letteratura mondiale: nato presso Madrid nel 1547, morto nella capitale spagnola nel 1616, quarto dei 7 figli di un modesto chirurgo, trascorse i suoi anni giovanili in una famiglia ambigua, costretta a trasferirsi di città in città tra povertà e scandali che minacciavano di travolgerla. Aveva 20 anni, quando, partito per l'Italia, si arruolò come soldato di ventura. Nel 1571 partecipò alla grande battaglia navale di Lepanto, rimanendo con una mano storpiata.
Dopo altre guerre per la cristianità, fu catturato dai Turchi e rimase prigioniero ad Algeri per 5 anni. I suoi amici pagarono un riscatto e Cervantes tornò libero; ma per un fallimento fu incarcerato a Siviglia: qui nel 1597, cominciò a scrivere il suo immortale romanzo, il Don Quijote, in cui manifestò tutto il suo genio letterario. Lo scrittore vede il mondo come un grande affresco sul quale si intrecciano le vicende umane alla ricerca di una felicità che sfugge.
Con Don Quijote intendeva porre in ridicolo i libri di cavalleria e coloro che come lui vivevano di sogni e illusioni, ma la sua critica, per quanto pungente, non è mai una condanna in assoluto.

LA TRAMA
Lettore di romanzi di avventure, Alonzo Quijada decide di seguire le orme dei suoi eroi in terra di Spagna. Denominatosi Don Chisciotte della Mancia e recuperato un vecchio cavallo che chiama Ronzinante, assolda un povero contadino di nome Sancho Panza e lo nomica suo scudiero. Don Chisciotte incomincia le peregrinazioni "per raddrizzar torti" e per conquistarsi le simpatie di una contadinotta del vicinato, Dulcinea. Don Chisciotte e Sancho Panza vengono sistematicamente presi a bastonate. I due incontrano anche una vera duchessa che si diverte alle loro spalle. Don Chisciotte viene affrontato da un amico che, travestito da cavaliere, vuole vincerlo in duello per farlo rinsavire: viene battuto e, secondo i patti della sfida, torna al suo paese.

L'EROE
Don Chisciotte della Mancia comincia le sue avventure alla stessa età in cui Cervantes comincia a scrivere il libro: 50 anni. E' lungo, scavato, secco, ha come armatura delle corazze malandate che gli battono sulle ossa. Ronzinante, il suo cavallo, è scheletrico come lui. Ha come scudiero Sancho Panza, un povero contadino, combattuto tra l'affetto verso il suo padrone e un realistico buonsenso che lo spingerebbe ad abbandonarlo. Don Chisciotte, al contrario di quanto potrebbe apparire ad un lettura superficiale, non è personaggio comico, ma l'eroe di una tragedia: un uomo che rifiuta la realtà chen non gli piace, per rifugiarsi in un mondo di fantasia. E Sancho Panza, in fondo, capisce il suo padrone e lo aiuta perchè le cose di questo mondo non piacciono nemmeno a lui.

GLI STATI UNITI D'AMERICA

Nel corso di 100 anni, a partire dal XVI secolo, oltre 3 milioni di europei emigrarono nell'America settentrionale. I più numerosi furono i coloni inglesi, che verso la metà del XVII secolo avevano costituito lungo le coste dell'Atlantico 13 colonie con un milione e mezzo di abitanti. In quelle a Nord - Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut - erano sviluppati industria e commercio (cantieri navali, fabbriche tessili, distillerie di bevande alcoliche). Nelle quattro colonie centrali - New York, Pennsylvania, New Jersey, Delaware - chiamate "le colonie del pane" la popolazione era dedita all'agricoltura e all'allevamento. Nelle cinque colonie meridionali - Maryland, Virginia, North Carolina, South Carolina, Georgia - vi erano estese piantagioni di tabacco e cotone, con grandi fattorie. La manodopera era fornita a prezzi bassissimi dagli schiavi negri e dai contadini poveri immigrati dall'Europa che lavoravano anni per rimborsare i debiti contratti per il pagamento del viaggio.

Nel XVIII secolo le colonie americane godevano di una certa libertà politica e amministrativa, ma non avevano libertà economica, perchè la madrepatria, dove regnava l'autoritario Giorgio III (1760-1820), imponeva che i prodotti fossero esportati solo in Inghilterra e non permetteva che si avviassero attività in concorrenza con quelle delle imprese inglesi, dalle quali esclusivamente dovevano essere importati i manufatti.

LA PROTESTA DEL TE'
In seguito all'imposizione di forti tasse da parte del re senza la prevista consultazione dell'Assemblea locale delle colonie, preposta al compito, scoppiarono i primi contrasti. Nel 1770 a Boston soldati inglesi spararono sui dimostranti. Nel 1773, sempre a Boston, un gruppo di appartenenti a una società patriottica salirono su tre navi inglesi fingendosi pellirosse e scaricarono in mare 342 casse di tè. Nonostante alcuni tentativi di soluzione pacifica, operati da una delegazione inviata a Londra con a capo Beniamino Franklin e da una riunione dei rappresentanti di tutte le colonie a Filadelfia (1774), nel 1775 a Lexington e a Concord volontari americani aprirono il fuoco sulle truppe della guarnigione britannica (1775): era la guerra. Giorgio III inviò in America un esercito che si scontrò con le truppe degli insorti comandate da George Washington, alle quali si aggiunsero rinforzi francesi, spagnoli e olandesi. Dopo alcuni anni di combattimenti dall'esito incerto, le sorti volsero decisamente a favore dei ribelli. Giorgio III dovette dichiararsi vinto e firmare la pace di Versailles (1783) con la quale riconosceva la completa indipendenza delle 13 colonie americane. Solo tra gli insorti la guerra era costata 70 mila morti.

UNA STORICA COSTITUZIONE
La Costituzione degli Stati Uniti, i cui padri principali furono Washington e Franklin, venne approvata definitivamente nel 1787. Il suo valore storico è grandissimo, perchè sancì alcuni principi alla base di tutti gli Stati democratici che nei due secoli successivi si sono andati formando. Il più importante è quello della divisione dei poteri: quello legislativo affidato a un Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti); quello esecutivo a un presidente eletto ogni quattro anni; il potere giudiziario ai tribunali dei singoli Stati e a una Corte Suprema confederale.

Per i tempi la Costituzione americana fu un evento paragonabile solo alla successiva Rivoluzione francese, ma nonostante la sua forte carica democratica, all'inizio non fu uguale per tutti. Ne furono esclusi i negri e i pellirosse. I negri, benchè 5000 avessero combattuto valorosamente contro gli inglesi, continuarono a essere importati come schiavi fino al 1808 e si dovette attendere la conclusione della guerra civile tra Nordisti e Sudisti (1865) perchè ottenessero i diritti civili dei bianchi. Fino allora, nel conteggio della popolazione, 5 negri contavano come 3 bianchi ed erano i loro padroni a rappresentarli politicamente. I pellirosse furono gradualmente sterminati dai pionieri che si spingevano sempre più verso Ovest alla conquista di quelle immense terre incolte, ma fertili.

LE GRANDI CIVILTA': I PERSIANI

L'impero persiano fu il più vasto di tutti gli imperi dell'Antico Oriente. Esso si stendeva sulle terre comprese tra il Mar Egeo, il Mar Nero, il Caucaso, il Mar Caspio, l'Indo, l'Oceano Indiano, il deserto d'Arabia, l'Egitto e il Mediterraneo per un'ampiezza di 7 milioni di chilometri quadrati, con 15/20 milioni di abitanti. I re Ciro, Cambise e Dario, della dinastia degli Achemenidi, furono gli artefici di questa espansione tra il 550 e il 490 a.C. Un territorio così vasto fu conquistato grazie alla forza dell'esercito, ma soprattutto all'uso del cavallo direttamente montato dal cavaliere senza l'imgombro del carro da guerra. Era un modo di combattere sconosciuto agli altri popoli, che permetteva una maggior rapidità nei movimenti.

L'immenso impero fu governato con una certa moderazione nei confronti dei vinti, grazie alla suddivisione in province (satrapie) alle quali era concesso di mantenere la propria struttura sociale, la lingua, la religione. Un satrapo (governatore), scelto tra i nobili persiani le amministrava per conto del re e riscuoteva i tributi, mantenendo stretti contatti con il governo centrale. I tributi erano fissati in prodotti naturali o in metalli o in moneta, a seconda delle possibilità e degli usi locali. La Media, ad esempio, dove era molto sviluppato l'allevamento, doveva dare ogni anno 3000 cavalli, 4000 muli, 100.000 percore. L'Egitto, paese agricolo, doveva fornire grano in quantità proporzionata al raccolto. La più povera Armenia doveva consegnare 3000 polli.

LA RETE STRADALE
L'impero aveva 4 capitali: Ecbatana, Susa, Babilonia e Persepoli, in continuo rapporto tra di loro, grazie alla rete stradale che i re avevano fatto costruire. La più importante era la Via Regia da Susa a Sardi, lunga 2700 chilometri. I corrieri la percorrevano a cavallo in una settimana, avvicendandosi alle stazioni di posta distribuite lungo il percorso. Ce n'era una ogni 25 chilometri. Le strade erano in terra battuta e livellata. Questa efficiente rete permetteva di trasmettere gli ordini con rapidità, di spostare facilmente gli eserciti, di far funzionare il servizio postare di Stato, di incrementare i commerci, favoriti anche dall'introduzione della moneta.

IL DENARO
Il darico d'oro e il siclo d'argento furono le monete coniate dall'impero persiano. Le prime monete di cui si ha notizia sono quelle emesse da Creso, re della Lidia, una regione dell'Asia Minore, tra l'VIII e il VII secolo a.C.: erano di grossa pezzatura e servivano per pagare lo stipendio annuo alle truppe, per offerte ai templi e per acquistare oggetti preziosi. I persiani adottarono questo strumento e coniarono monete più piccole leggere, facilmente trasportabili. Poco alla volta l'uso della moneta sostituì il baratto nelle transazioni commerciali, favorendo gli scambi delle merci, semplificando la contabilità e uniformando i sistemi di valutazione.

ZARATUSTRA IL PROFETA
I Persiani in origine erano politeisti e adoravano le forze della natura: Mitra (il sole), Ma (la luna), Zam (la terra) e così via. Tra il VII e il VI secolo a.C. si diffuse la predicazione di un profeta, Zaratustra o Zoroastro, che proponeva una nuova fede in un Dio unico, Ahura Mazda, spirito del bene e creatore del mondo. Ahura Mazda - secondo Zaratustra - è in lotta con Ahriman, lo spirito del male, un duello eterno, a cui deve partecipare anche l'uomo, libero di scegliere tra il bene e il male. Chi sceglie il bene avrà la ricompensa eterna; chi sceglie il male la dannazione. Il comportamento degli uomini deve perciò essere improntato alla pratica della verità, della giustizia, dell'amore per i deboli, della fedeltà. Così è scritto nell'Avesta, il libro sacro che contiene il pensiero del profeta.

ANNUSARE LA TERRA
I sovrani persiani, detti i Re dei re, avevano un potere assoluto. Ritenevano di essere ispirati dalla divinità nel giudicare e nel governare e le loro decisioni erano indiscutibili. Davanti al re dei re anche i nobili, gli ufficiali, gli ambasciatori, i principi dei Paesi tributari dovevano fare atto di venerazione, prostrandosi fino ad "annusare la terra". Dai resti dei fastosi edifici pubblici emerge il desiderio di esaltare e celebrare la potenza del re: la figura del sovrano, era sempre scolpita in alto, in posizione dominante, attorniata da soldati e sudditi di dimensioni più piccole per far risaltare maggiormente l'immagine del re.

LA CONQUISTA DI ALESSANDRO
L'impero persiano incominciò a vacillare dopo la sconfitta del re Serse nella guerra contro i Greci (479 a.C.). Nei successivi 150 anni furono sperperate risorse e ricchezze e la compattezza dello Stato andò affievolendosi. L'impero crollò definitivamente sotto la spinta dell'esercito macedone di Alessandro Magno nella seconda metà del IV secolo a.C.

GIANNI RODARI: FAVOLE AL TELEFONO

L'AUTORE
Nato a Omegna (VB), Gianni Rodari è morto a Roma nel 1980, quando aveva 60 anni. E' stato un insolito educatore: non un maestro nel senso tradizionale ma un sostenitore del colloquio fra scolari e insegnanti, tra genitori e figli, visti quasi come compagni di giochi. Anche i suoi libri erano un contributo per questi incontri fra generazioni diverse, unite dalla comune volontà di capirsi. Molti racconti, in effetti, offrono un semplice spunto: "come la prima pagina di una storia che dovrebbero poi scrivere loro". E così vediamo un ragazzo processato per offese allo zio, avendo sbagliato un apostrofo: voleva dire "l'ozio". Il numero Dieci è in fuga, inseguito da una Sottrazione; e in una divisione, se si abbassa il 9, ecco il Nove che protesta. Il libro degli errori, Grammatica della fantasia sono altri titoli di libri di Rodari: e si capisce come, anche a scuola, un bravo maestro possa tenere avvinta un'intera classe.

LA TRAMA
Per definizione, un libro di fiabe non ha trama. La fiaba è il regno della fantasia, che non obbedisce né a regole né a sviluppi secondo logica. E tuttavia, in Favole al telefono, un filo conduttore esiste: è il nostro tempo. Non che si tratti di storie tecnologiche, oppure ambientate in luoghi moderni. Anzi, abbiamo imperatori alle prese con donnette che sanno far bene la marmellata, ragazzini che vogliono andare a toccare il naso del re. E se per caso un garzone di bar vola nello spazio, ad aiutarlo non è un missile ma una spinta che viene dalla suggestione e perciò - appunto - dalla fantasia.

Il richiamo alla nostra epoca è diverso. Un richiamo in qualche modo politico, poichè Gianni Rodari è sempre dalla parte della povera gente. Un richiamo di sentimenti ed anche, come si dice oggi, ecologico: brave e umili persone, animali parlanti che danno il senso della natura. Non manca talvolta un accenno alla cattiveria degli uomini: per esempio il pescatore che diventa ricco per merito di un pesce-bambino e poi ributta in mare il suo benefattore, chiuso in una conchiglia, quando non ne ha più bisogno. Infine, ed è forse la parte più preziosa del libro, piccoli eventi nati da giochi di parole, da filastrocche, addirittura da un semplice errore di ortografia. Qualcosa come, un secolo fa, Alice nel paese delle meraviglie. In Rodari non c'è Alice: ma la meraviglia c'è, lo stupore incantato e libero dell'infanzia.

IL PROTAGONISTA
Se proprio vogliamo trovare un personaggio che va e viene fra topolini dei fumetti, semafori che danno il blue e ingenui ladri che vogliono rubare il Colosseo, l'unico in questo libro è Giovannino Perdigiorno. E' un "gran viaggiatore e famoso esploratore" che gira da un paese all'altro, con avventure che un pò gli capitano per caso, un pò è lui stesso a provocare. Una volta arriva nel paese degli uomini di burro, i quali vivono nei frigoriferi, con una borsa di ghiaccio in testa, per timore di squagliarsi. Il re sta in un frigo d'oro massiccio, viaggia in un'automobile ghiacciata e, se il sole osa spuntare, lo fa mettere in prigione dai suoi soldati. A Giovannino viene poi la voglia di prendere per il naso un altro re, i cui sudditi fanno lo stesso: e il povero sovrano non ha più pace. Infine c'è un paesino con 99 cani che abbaiano sempre, tanto che pure i loro padroni si esprimono con ringhi e ululati: Giovannino avrebbe una cura per guarirli, ma il sindaco gli risponde con un "Bau! Bau!". Per cui il nostro viaggiatore se ne va commentando: "Il peggior malato è quello che crede di essere sano".

UNA SERIE DI EPISODI
C'è un omino di niente, vestito di niente che viaggia in una strada di niente, che non conduce da nessuna parte. Là i topi mangiano solo i buchi del formaggio e i gatti hanno artigli di niente. Anche i muri sono fatti di niente e l'omino, che non ci crede, per troppo slancio passa dall'altra parte. "Anche di là non c'era niente di niente".

Pulcinella, marionetta irrequieta, non sopporta i fili ai quali lo lega il burattinaio. Un giorno riesce a tagliarli e scappa: che bellezza non essere più soggetto a padroni. Ma trova poco da mangiare, dimagrisce, muore sepolto sotto le prime nevi d'inverno. Spunta la primavera e, con essa, un garofano: ecco, pensa Pulcinella, sulla mia testa è cresciuto un fiore. "C'è qualcuno più felice di me?". Vi domanderete come un morto possa sentirsi felice: ma si sa che le marionette di legno non possono morire.

Alice Cascherina casca sempre e dappertutto. Le piace fare scherzi ai parenti, nascondendosi dentro una sveglia o una bottiglia, di dove la tirano fuori con una cordicella. Una volta scompare per davvero perchè, senza accorgersene, l'hanno chiusa in un cassetto. Quando la ritrovano lei casca nel taschino di papà, e ne esce tutta impiastricciata per colpa della penna a sfera. Giovanni perde sempre tutto. Gli accade di perdere una mano, un braccio intero, il naso. Dice la mamma: "Ma si può  essere più distratti di così?". Torna a casa su una gamba sola, senza più le orecchie ed è sua madre che deve rimetterlo a posto. Lui domanda: "Manca niente?".

Durante la guerra, in un paese sulla pianura padana, vivono dentro una cascina undici famiglie. Invece di andare d'accordo, litigano, al punto che per prendere l'acqua dal pozzo ciascuna ha una sua corda che custodisce in casa. Basterebbe che il pozzo avesse una catena, e tutti potrebbero tirare su i propri secchi: ma è gente fatta così, preferisce scambiarsi dispetti. C'è l'invasione tedesca, gli uomini sono lontani, un partigiano ferito cerca rifugio. Lo ospita una donna, ma ha paura che le altre la denuncino. Le cose vanno però diversamente. Tutte pensano ai loro mariti che combattono: chissà se hanno bisogno di aiuto e, soprattutto, chissà se qualcuno li soccorre. Perciò, prima una e poi l'altra, c'è chi porta al ferito un salamino, chi una bottiglia di vino o un pò di pane. Quando il partigiano guarisce, le famiglie in lite sono diventate amiche: ed è lui che cava dal pozzo il primo secchio d'acqua, legato alla catena che insiem hanno comperato, buttando via le undici corde.

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

LA VIGILIA
Alla fine del Settecento la Francia era un Paese progredito. Ma l'ordinamento politico era antiquato e il potere del Re assoluto. La società, divisa in tre Stati o Ordini, era fondata sulla disuguaglianza e il privilegio. Il primo Stato comprendeva circa 400 mila nobili, proprietari del 30% delle terre, con diritto di accesso alle cariche pubbliche ed esenzione dalle imposte. Del secondo Stato faceva parte il clero, circa 150 mila ecclesiastici, esente anch'esso dalle imposte, autorizzato ad incassare la "decima" dai contadini, proprietario del 10% delle terre. Il terzo Stato era formato da 20 milioni di contadini, 2,5 milioni di borghesi (avvocati, medici, mercanti, banchieri, scrittori ecc.), 1,5 milioni di artigiani ed operai. Tutti costoro avevano solo doveri.

LA PRESA DELLA BASTIGLIA
Nel maggio 1789 il re Luigi XVI convocò gli Stati Generali. I rappresentanti del Terzo Stato chiesero, a sorpresa, il voto individuale anzichè per Ordine. Questo avrebbe consentito al Terzo Stato di ottenere la maggioranza. Il Re rifiutò e il Terzo Stato si proclamò Assemblea Nazionale Costituente. Luigi XVI ordinò all'esercito di concentrarsi attorno a Parigi: la folla si scatenò e assalì la fortezza della Bastiglia e liberò i prigionieri. Da Parigi la ribellione si estese alle Province e costrinse il Re a cedere. Il 26 agosto 1789 l'Assemblea nazionale approvò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, destinata a diventare la base delle Costituzioni moderne.

IL TERRORE
Nel 1792 il Governo rivoluzionario dovette affrontare l'attacco armato di Austria e Prussia e, ritenendo il Re responsabile dell'intervento straniero, dichiarò decaduta la monarchia, condannò Luigi Xvi e lo fece ghigliottinare il 21 gennaio 1793. A Parigi il potere era intanto finito nelle mani dei Giacobini, l'ala estremista dei rivoluzionari (Robespierre, Saint-Just, Marat, Danton), che instaurarono un regime durissimo e sanguinario detto il Terrore. Le armate francesi, nel frattempo, respinsero gli eserciti stranieri. Superato il difficile momento militare, i capi del Terrore finirono vittime della stessa violenza che avevano suscitato. Il Governo passò nelle mani dei moderati (Direttorio), che approvarono una nuova Costituzione nel 1795.

LA GHIGLIOTTINA
Una canzone popolare attribuisce l'invenzione di questo strumento di morte al medico Giuseppe Guillotin, da cui ha preso il nome. Non è esatto. Guillotin, membro degli Stati Generali, si era limitato a presentare una legge per umanizzare le condanne a morte, sino ad allora eseguite soprattutto con l'impiccagione. Il chirurgo Antoine Louise progettò quindi la ghigliottina. Il primo condannato a morte che ebbe la testa mozzata dalla ghigliottina fu il brigante Nicola Pelletier il 25 ottobre 1792.

SULLA PELLE DEI CONTADINI
E' stato calcolato che su 100 franchi di prodotto della terra, i contadini francesi prima della Rivoluzione dovessero versarne 53 al Governo, 14 come "decima", 14 per altri diritti. Sui 19 franchi rimasti gravavano ancora le imposte indirette ( tassa del sale, corvèe, tasse comunali sui ponti e sulle strade, mantenimento della chiesa, del municipio ecc. ). Ecco perchè, nonostante l'ottima situazione dell'agricoltura, la vita dei contadini era a stento al livello di sopravvivenza.

IL SISTEMA DECIMALE
Tra le innovazioni introdotte dal Governo rivoluzionario ci fu anche il sistema decimale. Nasce il metro come unità di misura comune a tutta la Repubblica. Come punto di riferimento viene presa la lunghezza del meridiano terrestre, di cui il metro è la quarantamilionesima parte.

JOHANNES BRAHMS

Un omone dallo sguardo mite e dagli occhi chiari, con una lunga barba brizzolata. E' questa l'immagine ricorrente di Brahms, la terza grande B della musica tedesca (Bach, Beethoven, Brahms). Un compositore che cercava la tranquillità e fuggiva dal clamore. Amava i viaggi, le montagne e la buona tavola. Da giovane si alzava all'alba per comporre, la sera suonava il piano nei caffè.

Johannes Brahms nacque il 7 maggio 1833 ad Amburgo, città di commercianti e di banchieri, dominata dall'odore acre di canapa e pesce affumicato. Ebbe un'infanzia triste e difficile, tra i vicoli e le stamberghe del quartiere più povero della città, dove crebbe pallido e anemico. Nel 1843, a 10 anni, venne affidato a un celebre insegnante, l'organista Eduard Maxen, che lo sottopose a una rigida educazione pianistica e gli vietò di scrivere musica. Ma il giovane Brahms disubbidì: componeva di nascosto e per aiutare la famiglia suonava nelle taverne del porto.

Nel 1853, a 20 anni, la svolta. Brahms incontrò il celebre violinista Joseph Joachim, che intuì il suo straordinario talento e gli fece conoscere Liszt e Schumann, due tra i più grandi compositori dell'epoca. L'intesa con il primo non ebbe fortuna: Liszt era troppo teatrale e mondano per il timido e riservato Brahms. L'amicizia con il secondo, invece, fu folgorante. Schumann lo presentò al mondo musicale.

Il rapporto durò pochi ani: malato di nervi. Schumann entrò in una clinica psichiatrica e morì nel luglio 1856. Brahms rimase accanto alla moglie Clara, della quale si innamorò senza essere ricambiato. Dopo i primi successi si stabilì a Vienna, dove affittò un appartamento a due passi dal Prater, il grande parco alla periferia della città. Era il 1864. Aveva sperato sino all'ultimo di diventare direttore della Filarmonica di Amburgo, ed era rimasto deluso nel vedere un altro musicista su quel podio. Appena potà lasciò la capitale austriaca per viaggiare, soprattutto in Svizzera e in Italia. Un amico raccontava di averlo visto commuoversi a Modena, davanti a un quadro del Parmigianino. Un giorno scrisse a Clara Schumann: "Se tu stessi per un'ora sola davanti al Duomo di Siena, saresti più felice". E proprio al ritorno dal primo viaggio in Italia scrisse il meraviglioso Concerto per violino.

AMANTE DELLE COSE SEMPLICI
Negli anni seguenti compose il Concerto per pianoforte e orchestra, il doppio Concerto per violino e violoncello, le quattro Sinfonie. Ma un capitolo straordinario dell'arte di Brahms, forse il più importante, è quello della "musica da camera", cioè le composizioni per duo (clarinetto e pianoforte), trio (pianoforte, violino e violoncello) o quartetto d'archi.
I Quintetti e i Sestetti, per esempio, sono tra i più grandi capolavori di Brahms: una cascata di struggenti melodie. Nascevano d'estate, durante le villeggiature in Stiria (Austria) e in Svizzera. Brahms non componeva in città: d'inverno dirigeva e dava concerti. D'estate saliva in montagna, tra i suoi ghiacciai, per abbandonarsi alla composizione. La musica da camera rivela gli angoli più nascosti dell'anima di Brahms: la malinconia, la nostalgia, la solitudine. Era un uomo schivo e insicuro, ma al tempo stesso passionale e generoso. Confidava con orgoglio: "Godo del denaro nel modo che mi dà più soddisfazione: concedendomi la gioia di spartirlo". Un giorno scrisse ad Antonin Dvoràk, il compositore boemo che viveva a Vienna in ristrettezza economiche: "Non ho figli, non devo prendermi cura di nessuno, consideri il mio avere come sua proprietà".

Negli ultimi anni di vita, Brahms scoprì il clarinetto, che lo conquistò per il timbro dolce e carezzevole. Morì il 3 aprile 1897 e venne sepolto nel cimitero di Vienna, insieme con altri due grandi musicisti, Beethoven e Schubert. Per tutta la vita aveva amato le cose semplici e schiette, che arrivano subito al cuore, come la musica.

IL DIARIO DI ANNA FRANK

Autrice: Anna Frank
Lingua originale: olandese
Data di nascita: 1947
Genere: diario scritto sotto forma di lettere a un'amica
Epoca storica: 1942-45, persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti tedeschi

LA TRAMA
E' come se Anna scrivesse un romanzo del quale non conosce la fine: mentre noi la sappiamo. I fatti che racconta sono spesso banali: le discussioni sul cibo o sull'uso del bagno, le piccole insofferenze fra persone che vivono troppo vicine. Oppure difficoltà angosciose per dei prigionieri, come il cibo che non arriva, o il pericolo di malattie. Ma in ogni pagina di diario emerge prepotente uno spirito libero, senza età: un'anima matura in un corpo di bambina, una fiducia nell'avvenire e, nonostante tutto, nella bontà dell'uomo. Anche un piccolo fremito al cuore, l'idillio con il ragazzo Peter. Sullo sfondo, di continuo, la morte. Anna viene portata nel campo di sterminio di Bergen Belsen. Vi muore nel marzo 1945, due mesi prima che finisca la guerra.

LA PROTAGONISTA
Anna Frank è una ragazza di Amsterdam. Nel 1942 ha 13 anni. Siamo in piena guerra mondiale; l'Olanda è invasa dai tedeschi. Tutta l'Europa è in ginocchio. Anna è ebrea; Hitler ha dato ordine che gli ebrei vengano sterminati. La famiglia Frank è benestante, gente d'affari che ha avuto molto dalla vita. Costretti a nascondersi con altri conoscenti, i Frank si chiudono in un appartamento, sempre con i nervi tesi per paura che arrivino le SS, il reparto di assassini che rifornisce i campi di concentramento. Se questa vita misera, fitta di piccoli inconvenienti quotidiani, dominata dalla paura eppure non priva di speranza, Anna scrive un diario, oggi famoso in tutto il mondo. Termina il 1° agosto 1944. Tre giorni dopo arrivano i tedeschi e portano via tutti.

IL BACIO DI PETER
Anna finge di scrivere a un'amica che non esiste, Kitty. Il diario è segreto: c'è bisogno di qualcuno che ascolti, anche se è solo una figura immaginaria. Nell'aprile del '44 Anna riceve il primo bacio da un ragazzo. Dai fronti lontani arrivano notizie di sconfitte tedesche. Nella casa-prigione di Amsterdam corre un filo di speranza. Il ragazzo è Peter Van Daan, l'altra famiglia che abita con i Frank. Ha 17 anni. Suo padre è noioso; la madre litiga perchè usano i suoi piatti. Miserie quotidiane che Anna descrive spesso sorridendo. Peter è un pò goffo; ha un'aria timida, osserva Anna, "come succede a tutti i giovani che non sono stati molto insieme alle ragazze".
Dando notizie a Kitty sul bagno che perde, sul raffreddore della signora Van Daan, sul marito che "è verde perchè non ha da fumare", Anna racconta anche di quei pochi metri quadrati che qualche volta riesce a trovare per sè: una stanzetta con ciarpame polveroso e una dura cassa di legno sulla quale siede chiacchierando con Peter, "ciascuno col braccio intorno alla spalla dell'altro, lui con un mio ricciolo in mano". Il 15 aprile, alle 8 di sera, Peter si fa più vicino. "Spostiamoci un poco, altrimenti picchio la testa contro l'armadio". Ad Anna batte forte il cuore. Non erano mai stati così stretti l'uno all'altra. Peter l'abbraccia, le fa posare il capo sulla spalla. Rimangono immobili per 5 minuti. Sono gesti da ragazzi: lui che le stringe il viso fra le mani e passa le mani fra i capelli; lei che rimane immobile, "tanto felice" senza saperne spiegare il perchè.
E' passata mezz'ora. Peter e Anna si alzano. Il ragazzo si mette le scarpe da ginnastica per non far rumore. "Io lo stetti a guardare. Come avvenne non lo so, ma prima che scendessimo egli mi diede un bacio sui capelli, fra la guancia e l'orecchio. Corsi sotto senza voltarmi". L'indomani Anna è preoccupata: "Che cosa direbbero le mie amiche?". Che scandalo! Poi si ribella: perchè, se ci vogliamo bene, dovremmo stare divisi? "Ne parlerò con lui". Quanto poco tempo per parlare, e per vivere.

VITTORIA D'INGHILTERRA

Il suo titolo completo è: Vittoria, regina di Gran Bretagna e Irlanda, imperatrice delle Indie. Fu il caso, o meglio una catena di lutti, a portarla giovanissima sul trono. Aveva appena 8 mesi quando le morì il padre, Edoardo, duca di Kent, quarto figlio di re Giorgio III. Nella linea di successione, molti altri avevano più diritti di lei. Sua madre, Maria Luisa di Sassonia-Coburgo-Gotha, traboccava di titoli nobiliari ma non certo di ricchezza. Unico vero puntello era lo zio, Leopoldo, destinato più tardi a regnare sul Belgio. Nessuno insomma pensava che la giovane principessa, sballottata fra le Corti tedesche, priva di qualsiasi aspirazione dinastica o idea politica, potesse diventare la figura più importante del diciannovesimo secolo. Uno alla volta, però, gli altri pretendenti morirono. E nel 1837, dopo la scomparsa dello zio Guglielmo IV, Vittoria venne solennemente incoronata. Aveva 18 anni.

Si parla ancora oggi di "epoca vittoriana": e infatti è tutto un mondo scomparso che porta il suo nome. In realtà, nella vita di Vittoria, si possono distinguere due periodi. A 21 anni sposò un cugino coetaneo, Alberto, anch'egli cresciuto ed educato in Germania. Fu un matrimonio felice e quando, nel 1861, il principe consorte entrò nella tomba, la vedova si chiuse in un lunghissimo isolamento, protrattosi in pratica per 40 anni. Alberto era stato un consigliere influentissimo della consorte, e si può dire che la coppia reale guidò la politica estera londinese. Vittoria era molto legata al partito "whig", aristocratico, ciò che le procurò in seguito molti dissensi, con i conservatori prima, e poi con i liberali. In molte occasioni il marito contribuì a smussare le controversie, senza che ciò tuttavia aumentasse, nel Paese, la sua popolarità. I londinesi continuavano a considerarlo uno straniero, e a sospettarlo di favorire interessi di altri Paesi.

Anche dopo la morte di Alberto la regina continuò a sorvegliare i rapporti internazionali. Ma stava spesso nel suo castello di Balmoral, in Scozia, oppure nell'isola di Wight, dove poi morì. Grazie a primi ministri, che si chiamavano Melbourne, Palmerston, Disraeli, Gladstone, il potere britannico si estendeva frattanto in tutto il mondo.

Nel 1876 Vittoria divenne imperatrice delle Indie, nel 1887 e 1897 furono celebrati con straordinari festeggiamenti i suoi 50 e 60 anni di regno. Quando la vecchia regina morì, a 82 anni, l'Inghilterra era la nazione più potente della terra.

UN MATRIMONIO CON NOVE FIGLI
Dopo la morte del principe Alberto, la regina visse per decenni in completo ritiro. Aveva spesso contrasti con i governanti ma si rifiutava di riceverli, oppure li obbligava a estenuanti spostamenti fra i suoi castelli. La coppia aveva avuto ben 9 figli, che però Vittoria teneva lontani dagli affari politici. Il primogenito Edoardo, che doveva succederle quando già era in tarda età, passava la vita a Parigi o nella Riviera francese, fra gioco e belle donne. Secondo però qualche pettegolezzo, anche la vecchia signora trovò un nuovo affetto fra i suoi servitori: una diceria che non è mai stata verificata.

L'EPOCA
Siamo abituati a considerare l'èra vittoriana come un periodo lunghissimo e statico, pieno di falso perbenismo, più ipocrita che da imitare. La realtà è diversa, per molti aspetti. Fu anche merito della regina se in Inghilterra furono vietate pratiche crudeli come la berlina - il condannato esposto in piazza - e i combattenti fra animali. Inoltre la politica dei governi vittoriani diede nuovo vigore al regime parlamentare, favorì le idee di libertà, accolse numerosissime esuli da altri Paesi: basti, fra tutti, ricordare il nome di Giuseppe Mazzini. Nello stesso tempo si affermava la cosiddetta "rivoluzione industriale", che portava la Gran Bretagna all'avanguardia fra le nazioni. Così Londra divenne il primo centro commerciale del mondo, mentre si consolidava il dominio inglese sui mari. Fortunate spedizioni portarono a colossali conquiste in vari continenti, per cui Vittoria, come Carlo V di Spagna, poteva ben affermare che sul suo impero non trasformava mai il sole.

LE GRANDI CIVILTA': GLI EGIZIANI

"I  campi ridono, le rive sono inondate. I doni degli dèi scendono dal cielo. Il volto degli uomini si illumina, il cuore degli dèi si rallegra". Così scriveva circa 5000 anni fa su una piramide un poeta egizio esprimendo i sentimenti di gioia e gratitudine del suo popolo per il "padre Nilo". Fin dalla preistoria, infatti, la via dell'Egitto si svolge sulle rive del fiume, le cui piene periodiche rendono fertili le terre circostanti.
Nel V millennio a.C. gruppi nomadi di cacciatori e allevatori si stanziano nella valle del Nilo e attraverso accurate e lunghe opere di bonifica, canalizzazione e costruzione di argini, si trasformano in agricoltori. Fondano i primi villaggi che, con il passare del tempo, diventano piccoli organismi statali con a capo un re. Nel IV millennio a.C. si verifica una progressiva aggregazione di queste comunità fino alla nascita di due Stati: l'Alto Egitto, a sude, e il Basso Egitto, a nord. Intorno al 3000 a.C. un sovrano dell'Alto Egitto (Menes secondo la tradizione) conquista il Delta e unifica il Paese.
Da questo momento l'Egitto diventa una monarchia assoluta, ereditaria, retta da un faraone, "figlio degli dèi". La base della società egiziana è costituita dalle classi popolari (mercanti, artigiani, contadini, operai e schiavi). Al vertice ci sono le classi privilegiate (militari, scribi, nobili, sacerdoti). L'economia è essenzialmente agricola.
Enorme importanza ha la religione, che è politeista (con molti dèi: i più venerati sono gli animali e le forze della natura). Particolare attenzione è riservata al culto dei morti (le piramidi e l'imbalsamazione ne sono testimonianza). Anche l'arte ha carattere prevalentemente religioso. Geometria, ingegneria, idraulica, meteorologia, astronomia, medicina e chirurgia sono le scienze più studiate.

Durante il Regno Nuovo (XIX dinastia), per la costruzione di nuovi edifici, vennero impiegati ai lavori forzati molti operai ebrei. Per quale motivo gli ebrei fossero caduti in disgrazia presso il faraone, dopo essere convissuti pacificamente per circa 400 anni con la popolazione locale, non si sa esattamente. Si impone allora la figura di Mosè, cui era stato affidato dal Signore il compito di liberare il popolo di Israele dalla servitù. Egli, per convincere il faraone Ramses II a lasciar partire gli ebrei, compie una serie di azioni miracolose, note come le dieci piaghe d'Egitto, e ottenne il permesso. Ma ben presto il faraone, pentito del gesto generoso, inseguì con l'esercito gli ebrei. I soldati, però, furono travolti dalle acqua del Mar Rosso, che si erano miracolosamente aperte poco prima per lasciar passare "a piede asciutto" il popolo guidato da Mosè, diretto verso la Terra Promessa.

La storia dell'Egitto si divide in 4 grandi periodi e 30 dinastie.

- 3000-2100 a.C. circa: REGNO ANTICO, I-VI dinastia. Capitali: Thinis e Menfi. Principali faraoni: Cheope, Chefren, Micerino.

- 2100-1600 a.C. circa: REGNO MEDIO, VII-XVII dinastia. Capitale: Tebe. Principale faraone: Mentuhotpe.

- 1600-1100 a.C. circa: REGNO NUOVO, XVIII-XX dinastia. Capitale: Tebe. Principali faraoni: Tutankamen e Ramses II.

- 1100-332 a.C. circa: Periodo della decadenza, XXI-XXX dinastia. Capitali: varie. Con la conquista da parte di Alessandro Magno l'Egitto fu affidato al generale Tolomeo, i cui discendenti regnarono per 300 anni fino alla sottomissione ad Augusto (30 a.C.).

CIBI E BEVANDE
Il pane e la birra erano alla base della cucina egiziana. Per fare il pane gli egizi avevano imparato a macinare il grano, che prima di loro veniva usato solo in chicchi abbrustoliti, e a far fermentare la pasta ottenuta unendo la farina all'acqua e, talvolta, all'aglio. Per fare la birra si sbriciolavano le pagnotte appena cotte e, dopo averle mischiate con l'acqua, si lasciavano fermentare. Infine si filtrava la miscela. Gli egizi mangiavano inoltre carne di bovino, selvaggina, pollame, moltissima verdura (porri, fagioli, ravanelli, cetrioli, lattuga), formaggio e dolcificavano i cibi con il miele, poichè non conoscevano lo zucchero.

Le piramide sono i monumenti funerari dei faraoni. La piramide più importante è quella di Cheope, a Giza, che ha una base di 230 metri e un'altezza di 146 metri. Per sfuggire ai profanatori di tombe, alcuni faraoni si fecero seppellire in sepolcri scavati nella roccia in cunicoli difficilmente accessibili.

COLLODI: PINOCCHIO

L'AUTORE
Collodi è un borgo di Pescia, cittadina toscana. Carlo Lorenzini, nato a Firenze nel 1826, e là morto nel 1890, prese questo pseudonimo perchè a Collodi era nata sua madre. Combattente nelle guerre di indipendenza del '48 e del '59, Lorenzini fece l'impiegato, poi a tratti il giornalista, scrivendo anche commedie con scarsa fortuna. Pinocchio, il suo capolavoro, famoso nel mondo intero alla pari di Alice nel paese delle meraviglie, nacque per combinazione nel 1881. Una rivista per ragazzi aveva bisogno di un racconto a puntate; lo scrittore aveva bisogno di soldi. Più scriveva più guadagnava; così le puntate durarono un anno e mezzo. Collodi le scriveva svogliatamente, mai immaginando lo straordinario successo che ne sarebbe seguito.

LA TRAMA
La trama di Pinocchio la conoscono tutti. Maestro Geppetto, il pezzo di legno parlante, il burattino cui comincia subito ad allungarsi il naso, come si usa dire per i grandi bugiardi: fin dall'inizio del libro assistiamo a una sfilata di simboli destinati a entrare ne linguaggio e nel costume popolare. Ancora oggi diciamo "il gatto e la volpe" senza pensare più alla coppia di lestofanti che prima deruba e poi impicca Pinocchio. Diciamo "il paese dei balocchi" riferendoci a una pericolosa illusione, quasi dimenticando l'avventura con Lucignolo. E il Grillo Parlante, la Fata dai capelli turchini, il burattinaio Mangiafuoco, il giudice Acchiappacitrulli? Da oltre un secolo, questi straordinari personaggi resistono, con la prospettiva di durare assai più che non Batman o l'Uomo Ragno. Nessuna generazione, pur nel mutare delle mentalità e dei sistemi educativi, è sfuggita al loro influsso: al punto che Pinocchio, diventato un "ragazzino perbene", non interessa più e si rimpiange lo scavezzacollo di legno.

IL PROTAGONISTA
Pinocchio è un burattino che pensa e si muove come un ragazzo: ma burattino rimane, e sono gli altri che manovrano i fili. Per quasi tutto il libro la sorte è crudele con lui. Incontra una coppia di lestofanti e assassini come il Gatto e la Volpe. Sono cattivi i gendarmi e il giudice, i padroni e gli amici. Quando compare qualche personaggio ben intenzionato, tipo il Grillo Parlante, non è tanto la buona coscienza che gli viene in soccorso quanto un maestro che lo tratta dall'alto. In verità quella di Pinocchio è una storia narrata con freddezza, quasi con crudeltà, certamente con tanta amarezza. Dietro l'apparenza del sorriso c'è uno scrittore che non crede alla propria fortuna e trasferisce il suo pessimismo nella vicenda del burattino.

GEPPETTO IN PRIGIONE
Par di capire che, nel secolo scorso, la giustizia avesse problemi analoghi a quelli che si lamentano oggi, con criminali in libertà e innocenti in galera. A due riprese Pinocchio si trova di fronte i tutori dell'ordine, una volta un carabiniere e un'altra volta un giudice. E in entrambe le situazioni paga chi non ha colpa.

Non appena Mastro Geppetto gli ha scolpito nel legno gambe e piedi, il burattino scappa per strada. Il povero falegname lo insegue ma non riuscirebbe ad acchiapparlo senza l'aiuto appunto di un carabiniere, che afferra il fuggitivo per lo smisurato naso e lo riconsegna al vecchietto. Questi vorrebbe dargli almeno una tiratina d'orecchie, ma non può perchè si è dimenticato di costruirgliele. Allora prende Pinocchio per la collottola, riservandosi di fare i conti a casa.

Temendo allora di buscarle, il burattino si butta a terra e i curiosi in strada cominciano a commiserarlo. Ma cosa vuole quell'omaccio? Pare un galantuomo, invece è proprio un tiranno, capace di fare a pezzi l'infelice burattino.. "Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover'uomo di Geppetto".

Nella seconda e ancora più disgraziata avventura, Pinocchio va a reclamare perchè il Gatto e la Volpe gli hanno portato via i soldi. E seguiamo adesso l'udienza.
"Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d'oro, senza vetri... Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s'intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: - Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione".

MARIA SOFIA DI NAPOLI

Ogni tanto tornano in tv i film su Sissi, la bella principessa che nel secolo scorso sposò l'imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe. Oltre ad otto fratelli, questa irrequieta creatura aveva una sorella di non minore bellezza, Maria Sofia. Venivano dalla famiglia Wittelsbach, nota per le sue stravaganze ma imparentata con le maggiori dinastie d'Europa. Il padre, Max, era un simpatico gaudente che girava fra le case da gioco della Costa Azzurra, salotti e avventure. Una lontana cugina era l'ultima regina d'Italia, Maria Josè - tuttora viva in età molto avanzata: la sua è una stirpe longeva - nota anch'essa per il suo carattere poco accomodante.

Nata in Baviera nel 1841, Maria Sofia venne chiesta in moglie dal futuro re delle Due Sicilie, quel Francesco II che i contemporanei chiamarono, in segno di spregio. Franceschiello o Lasagna. Quando seppe la notizia, il duca Max inviò alla figlia un telegramma molto espressivo: "Io te lo sconsiglio. E' un imbecille". In realtà Francesco di Borbone non era per niente stupido, ma piuttosto debole e dotato di buon senso che sconfinava spesso con la paura. La giovane principessa non si poneva però troppi problemi. Il suo obiettivo era un trono, come la sorella Sissi (Elisabetta). E la reggia di Napoli non era proprio da buttare via.

Il vero motivo per cui Maria Sofia entrò nella storia non è però legato alle glorie del suo reame. Al contrario, la sua reputazione è dovuta a Garibaldi. Quando i Mille, dalla Sicilia, cominciarono a risalire la penisola, il povero Francesco capì subito che la partita era persa. Non così la moglie, che indossò letteralmente i pantaloni - fatto inaudito per quell'epoca - e si mise alla testa dell'esercito borbonico e della flotta. All'assedio di Gaeta combattè con valore, sebbene dal Nord stessero arrivando anche le truppe regolari del Piemonte.

Costretta a emigrare dopo la sconfitta, e pur diventando un richiamo nei salotti parigini, la fiera Wittelsbach era ben lontana dal rassegnarsi. Aiutò le bande di briganti che si ribellavano nel nostro Meridione, in una guerriglia che costò migliaia di morti e provocò durissime repressioni. Si alleò persino con gli anarchici, incurante che uno di questi, l'italiano Luccheni, avesse ucciso a pugnalate in Svizzera, nel 1898, la sorella Sissi. Secondo molti storici, fu anzi Maria Sofia ad ispirare quel Gaetano Bresci che a Monza assassinò il re d'Italia, Umberto I. Una donna indomabile, insomma, quale che ne possa essere il giudizio storico.

Vissuta fino all'età di 84 anni, morta nel 1925, Maria Sofia fu testimone della storia europea a cavallo fra i due secoli. Vide l'annessione della sua Baviera alla Germani di Bismark e l'unificazione dell'Italia. Più che le idee nazionali, difese sempre l'autorità della monarchia. Di fronte alle manifestazioni popolari, che chiedevano diritti democratici per i popoli, reagiva con disprezzo: "Ma cosa vuole quella canaglia?".

LUDWIG VAN BEETHOVEN

Due settimane dopo la morte di Wolfgang Amadeus Mozart, il compositore Franz Joseph Haydn scrive: "Dovranno passare più di 100 anni prima che ricompaia un uomo della sua grandezza". Ma si sbaglia, perchè sta per arrivare a Vienna un giovane pianista tedesco, Ludwig van Beethoven, figlio di un cantante ubriacone e di una cuoca. Sarò una delle forze più dirompenti nella storia della musica.

Beethoven nasce a Bonn nel 1770. La famiglia è di origine fiamminga. Il nonno era musicista, come il padre Johann, tenore nella cappella di corte. Anche Ludwig, come Mozart, è un bambino prodigio: dà il primo concerto a 7 anni. A 9 incontra il musicista Christian Gottlob Neefe, uomo di buone letture e ottimo didatta, che gli insegna composizione, pianoforte e organo. Quando Beethoven compie 12 anni, il suo maestro annuncia: "E' un genio".

Sin da ragazzo Beethoven si guadagna da vivere cantando nel coro con il padre. Lo scrittore francese Romain Rolland, autore di un'autorevole biografia, lo descrive come un uomo "piccolo, tozzo, dal collo grosso e dall'ossatura atletica. La fronte è spaziosa, i capelli irti e neri. Gli occhi brillano d'una forza prodigiosa".

Nel 1792, a 22 anni, Beethoven lascia Bonn per andare a Vienna in cerca di fortuna. All'inizio si afferma più come pianista che come compositore. E' apprezzato perchè suona nello stile galante che piace alla nobiltà: musica d'intrattenimento gradevole, basata su variazioni di temi popolari. Due anni dopo debutta al Burgtheater e inizia una tournée a Norimberga, Praga, Dresda e Berlino.

A Vienna, intanto, frequenta i salotti che contano e si inserisce pienamente nella vita musicale della città. Sa di essere un compositore di talento. Annota nel suo diario: "Coraggio, nonostante le debolezze del corpo, il mio genio trionferà". Non ha problemi di denaro. Nel 1801 scrive a un amico: "La situazione non è affatto male. Le mie composizioni rendono parecchio e ricevo più commissioni di quante riesca a portarne a termine. Inoltre, posso contare su 6 o 7 editori. Non discutono neppure: io fisso il prezzo e loro pagano". Il povero Mozart non aveva certo avuto una simile fortuna. Ma intanto c'era stata la Rivoluzione francese, e anche la professione del musicista era cambiata.

Nonostante la vita agiata, Beethoven fatica a stare in società. Prende lezioni di ballo e si sforza di vestire alla moda. Ha un carattere scontroso. Dietro un atteggiamento freddo e all'apparenza altezzoso, nasconde le proprie insicurezze. Il compositore italiano Luigi Cherubini, autore di raffinati quartetti per archi, lo definisce "un rozzo orso renano".
Beethoven pensa solo a comporre. Si alza alle sei e va avanti sino a mezzogiorno. Scrive: "Le mie orecchie continuano a ronzare e a fischiare. Da quasi 2 anni ho interroto qualsiasi attività sociale". E' diventato sordo. Un giorno, mentre dirige, si volta e scopre che alle spalle c'è un altro maestro che dà il tempo all'orchestra. Si rende subito conto che muove la bacchetta per nulla. Ed esce dal teatro di corsa, sconvolto.

Nonostante la sordità, cresce la sua fortuna di compositore. Nell'estate 1809 fa eseguire, insieme con La vittoria di Wellington, la Settima Sinfonia. E' un trionfo: l'Allegretto viene addirittura bissato. L'8 settembre dirige la Terza Sinfonia, l'Eroica. In quel periodo nascono anche la Quinta e la Sesta Sinfonia (quest'ultima detta Pastorale), tra le opere più amate dal pubblico di tutto il mondo.
Gli ultimi anni di vita sono agitati. Il denaro non manca, ma Beethoven cade in una profonda depressione. Il direttore di un teatro viennese descrive così la sua stanza di lavoro: "Libri e fogli di musica ovunque. Là i resti di una cena fredda, qui bottiglie stappate e semivuote. Sul pianoforte qualche foglio scarabocchiato con le idee per una nuova sinfonia".

Eppure in questo periodo infelice nascono gli ultimi quartetti, capolavori come le 32 Sonate per pianoforte. Poi la salute peggiora. Muore la sera del 26 marzo 1827. Quasi 30.000 persone seguono la bara.