QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

TZU-HSI IMPERATRICE DELLA CINA

Il nome Tzu-Hsi è pressoche sconosciuto in Italia: ma la colpa è solo della nostra ignoranza. E' colpa anche di una certa cultura europea, che si limita a considerare bizzarri e, tutto sommato, poco interessanti i personaggi e gli avvenimenti di Paesi remoti.
Tzu-Hsi è stata l'ultima vera imperatrice cinese. Avrete visto al cinema, oppure ritrasmesso in TV, il fastoso film di Bernardo Bertolucci sull'imperatore bambino, che prima fu detronizzato da una rivoluzione e poi trascorse una vita oscura sotto il comunismo di Mao. Bene: a dare a quel fanciullo le insegne regali fu proprio Tzu-Hsi o, come la chiamavano, "l'imperatrice vedova". Questa donna formidabile, piena di pregi e di difetti, intelligente e crudele, tenne in pugno il suo vastissimo Paese dal 1861 ai primi anni del nostro secolo, esattamente fino al 1908. Per una gran parte di questo periodo il suo compito fu, dal punto di vista giuridico, di semplice reggente. Però era lei a insediare i sovrani, che sceglieva giovanissimi fra i suoi parenti: prima un figlio, poi dei nipoti. Ragazzi privi, dunque, di una loro precisa volontà, che venivano dominati dalla terribile regina.

All'inizio nulla sembrava far prevedere una così straordinaria carriera. Tzu-Hsi era una delle tante ragazze di famiglia nobile cui poteva capitare in sorte di essere chiamate al palazzo imperiale. Qui regnava Hsien-Feng, debole e corrotto, che poteva avere tutte le mogli che voleva. Una di queste, e non di primissimo rango, fu appunto Tzu-Hsi. La sua fortuna fu di dare al regale marito l'unico figlio maschio. Astuta com'era, riuscì a farsi amica la moglie più potene, Niuhuri, che restò sempre sotto la sua influenza. Rimasta vedova, Tzu-Hsi sopportò a lungo la presenza di questa compagna-rivale. Poi, volendo il potere da sola, la fece avvelenare.

Anche contro Tzu-Hsi si progettarono congiure di vario tipo, ma sempre senza esito. O era lei a scoprirle, oppure l'avvertivano i suoi fedeli. Ma le battaglie più dure dovette combatterle contro gli europei, che miravano al controllo dei commerci cinesi. Dapprima, come tutti nella sua terra, la regina si limitò a disprezzare gli occidentali, che giudicava gente priva di cultura e interessata invece a "sciocchezze" come la scienza e la tecnica. I potenti cannoni inglesi, francesi, tedeschi, anche italiani le fecero cambiare idea: e pure l'imperatrice cercò di dare armi moderne ai suoi eserciti. Ma ormai era troppo tardi. Sempre più fragile, il grande regno del Drago si dissolveva, e altri colpi mortali venivano dai giapponesi, fino allora considerati con disprezzo. Si affermava un mondo nuovo e, con la vecchia regina, il ventesimo secolo segnava anche la morte dell'antichissimo impero.

Doppio gioco con i Boxers
Tzu-Hsi si trovò sempre combattuta fra la tentazione di reprimere le rivolte e quella di usarle contro gli odiati "bianchi". Così avvenne per il movimento dei Boxers (una società segreta), che alla fine del secolo assaltarono le ambasciate straniere. Dapprima l'imperatrice li protesse, sperando che alla fine cacciassero - o, meglio, massacrassero - gli europei. Poi, quando vennero sconfitti, finse di deplorarne l'azione. Conservò il trono perchè nemmeno gli occidentali avevano interesse a una Cina caduta nell'anarchia. Ma era inevitabile che i movimenti nazionalisti incontrassero sempre maggiore seguito, ponendo fine al vecchio regime.

La rivolta dei Taiping
Una delle prime rivolte che l'imperatrice si trovò a fronteggiare fu quella dei Taiping: una setta fondata da un contadino che si era costruito una sorta di cristianesimo a modo suo e si proclamava di origine divina. I Taiping conquistarono regioni intere, e ci vollero decenni per sconfiggerli. La guerra interna provocò decine di milioni di morti: un numero raggiunto solo nel secolo successivo, sotto Hitler e Stalin.

Usanze crudeli
Per un occidentale è sempre stato difficile capire la Cina, dove convivevano forme raffinatissime di civiltà e usanze di inaudita crudeltà. Negli ultimi anni del suo regno Tzu-Hsi credette di mostrarsi progressista modificando le procedure per la pena di morte: invece che tagliati a fette, i colpevoli venivano semplicemente impiccati. Per le sue vendette private, invece, la regina usava il veleno.

 

HENRYK SIENKIEWICZ: QUO VADIS?

Autore: Henryk Sienkiewicz (1846-1916)
Lingua originale: polacco
Data di uscita: 1896
Genere: romanzo storico
Epoca storica: primo secolo dopo Cristo, a Roma

L'AUTORE
Nobile polacco di campagna, nato nel 1846 e morto a settant'anni, Sienkiewicz cominciò la sua carriera come giornalista, pubblicando intanto romanzi e racconti. Appassionato di viaggi, visitò i più avanzati Stati europei, varcando poi l'oceano fino alla California. Dopo le opere di ambiente contadino, e descrizioni degli ambienti stranieri in cui era vissuto, lo scrittore si orientò verso il genere storico. Il suo Quo vadis?, che lo rese famoso in tutto il mondo, è del 1894. Il libro gli valse nel 1905 il Premio Nobel, e fu grazie alla celebrità raggiunta che Sienkiewicz ebbe un ruolo importante nella difesa della sua Polonia dalle pressioni tedesche. Ma la morte lo colse nel 1916, terzo anno della guerra sferrata dalla Germania.

LA TRAMA
L'apostolo Pietro, che si sta allontanando da Roma per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani, incontra sulla strada il Redentore che cammina nella direzione opposta. Stupito gli chiede: "Quo vadis, Domine?", "Dove vai, o Signore?". E Gesù gli risponde che va a farsi crocifiggere un'altra volta, visto che i suoi fedeli lo abbandonano. Pietro capisce l'altissima lezione, torna sui suoi passi e subisce il martirio.
La sofferenza cristiana, le spietate regole della città imperiale, sono lo sfondo di questo romanzo, uno fra i più letti nel mondo. Siamo all'epoca di Nerone. Un giovane nobile, Vinicio, è innamorato di Licia, figlia di un re straniero che è stata affidata a una famiglia cristiana. Uno dei consiglieri dell'imperatore è Petronio, raffinato e cinico: grazie al suo intervento, Vinicio ottiene che Licia gli venga consegnata. A salvare la ragazza è però il suo schiavo, un gigante di nome Ursus, fedelissimo verso la padroncina. I due si rifugiano presso una comunità di seguaci della neonata Chiesa, ma il patrizio riesce a rintracciarli.
Parrebbe il trionfo del vizio sulla virtù: sennonchè Vinicio subisce il fascino di questa religione per lui ignota e rinuncia ai suoi propositi. Ma sta per accadere il peggio perchè Roma va a fuoco e Nerone incolpa dell'incendio i cristiani. Comincia la caccia, Licia e molti suoi compagni di fede vengono portati al Circo per essere sbranati dalle belve. Proprio Licia compare sull'arena, legata al dorso di un bufalo selvaggio. E' una scena grandiosa, poi riprodotta in innumerevoli quadri e film: il fortissimo Ursus afferra la bestia per le corna, la blocca, la schianta al suolo. La folla, colpita dall'incredibile spettacolo, chiede che la fanciulla e il suo salvatore vengano liberati. Nerone è costretto a consentire. Sono, del resto, gli ultimi giorni del suo regno. Il folle imperatore viene detronizzato e ucciso. Vinicio e Licia possono finalmente unirsi in matrimonio.

I PROTAGONISTI
Licia
Di stirpe reale, bella come l'aurora, anche Licia ama Vinicio: ma non potrebbe vivere con un pagano. Tutta la sua vita, i suoi pensieri sono ispirati all'insegnamento cristiano. Anche quando Vinicio resta ferito, la giovane lo cura con passione ma respinge le sue offerte. Solo quando il suo innamorato si fa cristiano, Licia si abbandona alla pienezza dei sentimenti. Nel grande romanzo la sua figura non viene approfondita, e finisce con l'assomigliare ad altre eroine del medesimo stampo. Ma la sua freschezza, la sua purezza rimangono nel ricordo.

Ursus
Questo gigante impersona la forza, la fedeltà. Se ha dei pensieri, questi rimangono nascosti dietro la sua fronte taurina. L'unico dato sempre presente è che lo schiavo, insieme mite e terribile, deve difendere in ogni occasione la padrona che il destino gli ha assegnato. Come Licia è tutta sentimento e fede, così Ursus è tutto muscoli e azione. Si dice che la fede sposta le montagne, e spesso è vero. Ma se in nome della fede si batte anche qualche robusto guerriero, è meglio.

Nerone
Qualche studioso sta cercando di riabilitare, almeno in parte, questo imperatore rimasto nella storia come un pazzo criminale, che si esibiva come mediocre artista e suonava la lira mentre Roma era divorata dall'incendio. Sono stati soprattutto Tacito e Svetonio a costruire questa fama, che nel Quo vadis? in realtà appare più sfumata. Per l'autore polacco, Nerone sarebbe migliore della sua leggenda, e avrebbe il torto di farsi influenzare da consiglieri come Tigellino, l'incendiario, e dallo scettico Petronio. Sulla figura di questo discusso imperatore si sono esercitati molti artisti, da Racine a Goldoni e Dumas.

LE 12 FATICHE DI ERCOLE

1 - La lotta con il leone di Nemea
In una zona dell'Argòlide, chiamata Nemèa, c'era un leone gigantesco e feroce, che aveva la pelle invulnerabile. Ercole lo affrontò, ma non potendolo colpire con l'arco e la clava, lo cacciò dentro una grotta. Qui, dopo una terribile lotta corpo a corpo, lo soffocò tra le braccia. Con la sua pelle si fece un vestito.

2 - L'idra di Lerna
Nel lago di Lerna viveva un grosso drago con nove teste di cui una immortale: soffiando miasmi pestilenziali e divorando uomini e greggi rendeva inabitabile la zona. Ercole l'affrontò impugnando la spada. Ma con grande stupore vide che a ogni testa tagliata ne ricrescevano immediatamente due. Allora ricorse al fuoco: con tronchi infuocati bruciò tutte le teste del drago. Ne rimaneva una, quella immortale: la tagliò netta con un colpo di spada e la seppellì sotto un macigno.

3 - Il cinghiale di Erimanto
L'Arcadia aveva perso la sua pace a causa di un cinghiale gigantesco che rovinava tutti i raccolti. Dopo un lungo inseguimento per boschi, crepacci, Ercole sul monte Erimanto catturò la bestia e, caricandosela sulle spalle, la portò a Tirinto.

4 - La cerva del monte Cerinea
In Arcadia, sul monte Cerinea, i cacciatori da tempo immemorabile inseguivano una cerva dalle corna d'oro e dai piedi di rame, senza riuscire mai a raggiungerla. Ercole la inseguì, senza mai riposarsi, per un anno intero e quando la raggiunse presso un fiume riuscì a ferirla con una freccia e a catturarla.

5 - Gli uccelli di Stinfalo
Sul lago di Stinfalo, in Arcadia, abitavano degli uccelli che avevano  le ali, il becco e le penne di bronzo. Si servivano delle loro penne come frecce per uccidere e divorare ogni essere vivente. Ercole ne uccise alcuni. Altri, spaventati dal suono di un sonaglio di bronzo che Ercole continuava ad agitare, preferirono abbandonare il territorio.

6 - Il cinto di Ippolita
Per accontentare Admeta, figlia del re Euristeo, che desiderava il ricco cinto d'Ippolita, regina della Amazzoni, Ercole intraprese una guerra contro quel popolo di donne bellicose che vivevano cavalcando nella regione del Mar Nero. Ercole fece una strage, uccidendo anche Ippolita: potè così venire in possesso del cinto.

7 - La pulizia delle stalle di Augia
In Elide c'era un re di nome Augia che teneva nelle sue stalle migliaia di buoi. La pulizia in queste stalle lasciava molto a desiderare e tutta la regione era appestata da un insopportabile odore di letame. Ercole fu incaricato di pulire le stalle in un giorno. Come fare? Ercole deviò il corso del fiume Alfeo e fece passare le acque nelle stalle: la violenta corrente trascinò facilmente via gli strati di letame.

8 - Il toro di Creta
In questa impresa il nostro eroe non dovette uccidere nessuno. Il suo compito era quello di catturare vivo un toro che Posidone, il dio delle acque, aveva regalato all'isola di Creta. Ercole lo inseguì per tutta l'isola e lo catturò trattandolo come un capretto: lo avvolse in una rete, se lo mise sulle spalle e attraversò a nuoto il tratto di mare che separava Creta da Tirinto.

9 - I cavalli di Diomede
Diomede, re di Tracia e figlio di Marte, aveva la crudele abitudine di nutrire i suoi possenti cavalli con carne umana. Ogni straniero che capitava nei paraggi finiva nelle mangiatoie di rame dei cavalli. Ercole, prima di tutto, fece divorare lo stesso Diomede dai suoi cavalli, poi attaccò con una lunga fune quei corsieri e li portò a Tirinto.

10 - I buoi di Gerione
Gerione era un mostro con tre teste che abitava nell'isola Eritea situata in mezzo all'oceano: possedeva bellissimi buoi rossi che erano custoditi da un gigant di nome Eurizione e da un cane con due teste che si chiamava Ortro. Di questo gregge doveva impadronirsi Ercole. Giunto nello stretto di Gibilterra, Ercole piantò su ciascuna delle sponde una colonna in segno del suo passaggio (e quei due termini furono chiamati le colonne di Ercole). Approdato nell'isola, l'eroe affrontò e uccise con facilità il gigante Eurizione, il cane con due teste e il mostro Gerione.

11 - I pomi d'oro
In una valle dell'Africa si trovava un meraviglioso giardino abitato dalle Esperidi, figlie della stella della sera. Sugli alberi di quel parco crescevano dei frutti d'oro. Ercole doveva impadronirsi di alcuni di quei frutti, ma non sapeva dove si trovasse questo giardino. Si rivolse a Proteo, un dio marino che aveva la facoltà di trasformarsi e da lui si fece indicare la strada da percorrere per raggiungere il regno delle Esperidi. A guardia di quel giardino c'era però un dragone dalle cento teste, che diede filo da torcere all'eroe. Il drago alla fine fu ucciso ed Ercole potè tornarsene a casa con i pomi d'oro.

12 - La cattura di Cerbero
Fu l'ultima e la più impegnativa fatica perchè Ercole doveva entrare nel regno dei morti per catturare Cerbero, un mostro metà cane e metà drago, con tre teste. In questa impresa Ercole si fece aiutare da Ermes e da Atena. Arrivato nel mondo sotterraneo, l'eroe si fece ricevere da Ades, il dio degli inferi, il quale gli diede il permesso di portare con sè Cerbero purchè riuscisse a domarlo senza armi. Ercole incatenò il mostro e lo portò a Tirinto, dopo di che la ricondusse di nuovo nell'inferno. La lunga storia di Ercole finisce nell'Olimpo, dove egli visse con gli immortali.

LE CIVILTA' BARBARE: I VISIGOTI

I Visigoti sono germanici (uno dei due rami dei Goti) che nel IV secolo si convertono all'arianesimo (seguivano le teorie dell'eretico Ario che negava la divinità di Gesù Cristo), soprattutto per impulso del loro vescovo Ulfila. Sono organizzati in una rudimentale monarchia sulla quale ha grande influenza la famiglia dei Balti. Nel 376, spinti dagli Unni, i Visigoti lasciano l'antica Dacia romana, passano il Danubio e si insediano nella Mesia Inferiore.

L'imperatore d'Oriente li considera federati. Ma nel 395 il nuovo re Alarico mette a sacco la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia e la Grecia. L'imperatore Arcadio gli concede il titolo di dux e di magister militum, ma la tregua dura solo tre anni. Alarico e le sue orde invadono l'Italia, devastano Roma, portano via Galla Placidia (sorella dell'imperatore Onorio) e scendono in Calabria con l'intenzione di passare in Africa. Ma la flotta allestita a Reggio viene distrutta da una tempesta. Alarico muore a Cosenza. Il suo successore Ataulfo sposa Galla Placidia. Ma nuovi contrasti con Ravenna lo spingono verso la Spagna. Il suo successore, Wallia, riporta i Visigoti al nord dei Pirenei. Qui trovano la loro prima sede stabile e fondano un vasto Stato con capitale Tolosa, primo regno romano-barbarico impiantato nei territori dell'impero. Un secolo più tardi i Franchi sconfiggeranno i Visigoti e cancelleranno il regno di Tolosa. E dopo i Franchi, nel 711, ci sarà l'invasione degli arabi. Gruppi di Visigoti superstiti si rifugeranno sulle montagne delle Asturie, mantenendosi indipendenti sino al tempo della riconquista. Ma ormai non erano più barbari.

LE CHIESE A VOLTA DELL'ARTE VISIGOTA
I Visigoti, i più antichi federati dell'impero romano, insediandosi in Paesi profondamente romanizzati come l'Aquitania e la Spagna, cercarono di mantenere in vita le istruzioni amministrative e ne accettarono i sistemi di vita e la cultura in tutti i suoi aspetti. Gli artisti locali affondavano quindi le radici nelle tradizioni tardo-romane e bizantine. Ma c'è anche un'arte visigota. Per esempio, alcune chiese a volta costruite in pietra da taglio, per lo più a pianta cruciforme. Navata centrale e transetto hanno la medesima altezza e larghezza e s'intersecano, formando uno spazio quadrato, la crociera, delimitata da 4 archi e spesso sormontata da una torre. Una caratteristica dell'architettura visigota è l'uso dell'arco a ferro di cavallo. Tra i monumenti più significativi, le chiese di San Juan de Banos, San Pedro de la Mata (presso Toledo) e San Pedro de la Nave (Zamora).

PER 3 GIORNI ALARICO UMILIO' LA GRANDE ROMA
A 25 anni Alarico era già un re potente e acclamato. Prima aveva servito l'esercito romano a capo di un reparto goto. Poi il suo popolo lo aveva incoronato. Lui era un forte condottiero, ma anche un furbo politico. S'inserisce subito nel conflitto esploso fra la parte occidentale e quella orientale di un impero decadente. Invade i Balcani, dà ai Visigoti l'orgoglio di una ritrovata identità. Viene in Italia e si ferma minaccioso alle porte di Roma. L'imperatore Onorio invano tenta di venire a patti. Alarico penetra nella città e per 3 giorni la saccheggia. E' l'anno 410. Il "sacco di Roma", benchè non così grave come le fonti antiche lo dipingono, suscita profonda impressione fra i contemporanei, infrangendo il mito della "città eterna".
Alarico muore, in maniera piuttosto misteriosa, lo stesso anno, mentre risale verso il nord dell'Italia. Il suo corpo, secondo lo storico goto Giordane, viene sepolto nel letto del fiume Busento, presso Cosenza. A lui è dedicata una celebre ballata di A. Von Platen, tradotta dal Carducci: "La tomba nel Busento".

HARRIET BEECHER-STOWE: LA CAPANNA DELLO ZIO TOM

Autrice: Harriet Beecher-Stowe (1811-1896)
Lingua originale: inglese-americano
Data di uscita: 1851
Genere: romanzo storico sociale
Epoca storica: prima metà dell'Ottocento americano

L'AUTRICE
Disse di lei Abramo Lincoln, il presidente americano che dopo la guerra civile abolì la schiavitù negli Stati Uniti: "E' la piccola donna che ha vinto la guerra". Enorme fu infatti l'influenza che La capanna dello zio Tom ebbe sull'opinione pubblica americana. Oggi le comunità di colore giudicano in modo negativo la figura dell'antico schiavo, nel quale vedono troppa rassegnazione e nessun impulso di lotta contro il potere bianco. Ma un secolo e mezzo fa questioni simili non si ponevano, e il romanzo servì anzi a far considerare gli schiavi come degli esseri umani, meritevoli di un trattamento cristiano, anzichè degli oggetti di vendita e scambio. Nata nel 1811, morta a 85 anni, la Beecher-Stowe era figlia di un pastore protestante. Grazie al successo mondiale del suo libro, fu invitata ripetutamente in Europa. Scrisse anche altri romanzi, il cui ricordo rimane però oscurato da quello immortale, delo zio Tom.

LA TRAMA
Lo zio Tom è uno schiavo negro, che vive in una piantagione americana nella pirma metà dell'Ottocento. Ha un buon padrone che però, per un dissesto finanziario, è costretto a vendere tutte le sue proprietà. Fra questi esseri umani trattati come merce c'è anche un bambino, Enrico, che al pari di tanti altri rischia di venire strappato alla famiglia. Ma sua madre, la coraggiosa meticcia Elisa, lo strappa ai mercanti e fugge con lui. Quando sta per essere catturata, in pieno inverno, sbalordisce gli inseguitori saltando fra i blocchi di ghiaccio del grande fiume Ohio, e raggiungendo in questo modo la riva opposta. E' una scena che è stata dipinta da innumerevoli pittori, tanto da diventare familiare in tutti gli Stati Uniti.

Se però Elisa si salva, e riesce a raggiungere il Canada dove non c'è schiavitù, ben più triste è la sorte di Tom. Va in mano a un brutale coltivatore di cotone, Simon Legree, che vuol fare di lui un sorvegliante, o meglio ancora un aguzzino. Per qualche tempo il vecchio negro, alta figura di cristiano, aveva creduto di poter finire in pace i suoi giorni nella casa del Saint-Clare dove la figlia del proprietario, Evangelina, è una ragazzina di grande e tenera dolcezza. Ma Evangelina muore, suo padre viene ucciso in una rissa ed è lo spietato Legree a imporre la sua legge.

Lo zio Tom non fa il ribelle, non capeggia rivolte. Semplicemente si rifiuta di compiere il male che gli viene chiesto. Furibondo, il padrone lo fa percuotere a morte. Se avesse guadagnato un pò di tempo, se avesse almeno in parte obbedito agli ordini, forse Tom si sarebbe salvato. Infatti il figlio del suo primo padrone, che ha ricostruito la sua ricchezza, lo sta cercando per riportarlo nella vecchia casa. Ma è troppo tardi. Quando il giovane riesce a rintracciarlo, lo zio Tom è in agonia e può solo dire qualche parola, con un filo di voce. Ed è, ancora una volta, una parola di perdono e di pace.

I PROTAGONISTI
Zio Tom
Più che uno schiavo, o di un uomo, quella dello zio Tom è la figura di un santo, forse fin troppo idealizzata. Mai esce dalla sua bocca una parola che non sia di amore e di rassegnazione. Quando vive nella famiglia Saint-Clare, diventa praticamente il consigliere spirituale di Evangelina. Quando si trova nell'inferno della piantagione, con Simon Legree, la sua vocazione è quella del martire. Un autentico patriarca, come si trovano nell'Antico Testamento.

Evangelina
Anche Evangelina, personaggio che ha fatto piangere milioni di lettrici, ha la grazia e la soavità di un'immagine mitologica. Svelta, attiva, con un passo talmente rapido che sembra di vederla volare, la piccola non sopporta le sofferenze altrui. A rattristarla sono specialmente le condizioni di vita degli schiavi negri, che a loro volta l'adorano. Quando sente che la vita le sfugge, si augura che la propria morte possa por fine alle miserie della povera gente.

Topsy
Figura minore, Topsy è una negretta di carattere irrefrenabile, figlia di nessuno, capace solo di dire bugie e creare guai. Ma basta che Evangelina le posi una mano sulla spalla e le dice: "Ti voglio bene", e la creaturina selvaggia si sente sconvolta. Nessuno le aveva mai rivolto una parola d'amore. Quando la padroncina muore, Topsy si rotola a terra e grida: "Non vorrei mai essere nata".

1869: L'APERTURA DEL CANALE DI SUEZ

Nessuno è mai riuscito a calcolare il prezzo di vite umane di quelle grandiose costruzioni dell'antichità che furono le piramidi d'Egitto. Si sa invece con sufficiente precisione quanti fellah, cioè proletari contadini egiziani, siano morti per fatica e malattia durante il taglio del Canale di Suez. Nel 1956, quando il canale venne nazionalizzato dall'Egitto, il Governo del Cairo rese nota la cifra, impressionante, di 120 mila vittime, il prezzo del progresso come lo si intendeva nell'Ottocento, quando i Paesi colonialisti poco si curavano delle perdite e delle sofferenze umane.

L'idea di un canale che congiungesse il Mediterraneo con il Mar Rosso non era nuova. Già i faraoni erano riusciti a collegare i due mari sfruttando i bracci del Nilo: un tortuoso corso d'acqua che rimase in funzione per oltre un millennio e mezzo, finchè venne abbandonato alle sabbie del deserto. A riaprirlo per qualche tempo furono in seguito i soldati romani di Traiano, cui successero gli arabi del califfo Ibn el-Khattab nel settimo secolo dopo Cristo. Ma dopo il 1200 la zona venne conquistata dai Mamelucchi turchi, che non si curarono di difendere il canale. Questo rimase nuovamente interrato; e così lo trovarono i tecnici europei che, passata la prima metà dell'Ottocento, tornarono a occuparsi del problema.

In quell'epoca molti erano convinti che l'impresa fosse irrealizzabile perchè, secondo le stime dei tecnici al seguito di Napoleone, fra il Mediterraneo e il Mar Rosso c'era una differenza di livello di nove metri. Fu facile dimostrare che i due mari erano alla stessa quota.

Passaggio per l'Oriente
Per cominciare la gigantesca opera bisognò attendere che si fosse almeno in parte sopita la rivalità tra Francia e Inghilterra, che erano, con la Germania, le maggiori potenze europee. Gli inglesi non volevano il canale e si battevano per una semplice ferrovia; inoltre ritenevano che lo sforzo si sarebbe risolto in un enorme sperpero di denaro, senza alcun successo pratico. Anche i turchi appoggiavano gli inglesi, in parte per ragioni tecniche, in parte perchè non volevano influenze francesi nella zona.

Ma Ferdinand Lesseps, che aveva iniziato la sua carriera come diplomatico, riuscì a far firmare un accordo. Parigi avrebbe fornito i tecnici, le macchine e i capitali necessari; l'Egitto avrebbe concesso la propria mano d'opera: quei fellah destinati a pagare molte volte con la vita il loro sforzo. I lavori andarono avanti fra tremende difficoltà: per 10 anni i progressi furono limitati. Nel 1865 un'epidemia di colera, portata dai pellegrini della Mecca, contribuì a decimare le file dei lavoratori, tanto che il Governo del Cairo ne sospese il reclutamento forzato. Gli egiziani vennero così rimpiazzati da italiani, slavi, spagnoli, greci, sempre con l'ostilità dichiarata della Gran Bretagna.

Per ultimare le opere bisognò attendere fino al 1869. In marzo fu abbattuto l'ultimo diaframma di terra e le acque del Mar Rosso si confusero con quelle del Mediterraneo. In novembre, il giorno 17, si ebbe finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da Parigi arrivò l'imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, che non sapeva di dover abdicare appena un anno dopo, in seguito alla rovinosa guerra con la Germania. Al fianco del corteo di cammelli cavalcava un signore in cilindro, montato su un purosangue arabo. Era Lesseps, il trionfatore. Fu scomodato, come si sa, anche il sommo Giuseppe Verdi, che per l'apertura del canale compose l'Aida, rappresentata al Cairo con enorme successo.

In quel giorno di novembre fu dunque compiuta la più vasta e costosa impresa mai realizzata dall'uomo fino a quell'epoca. Le navi cominciarono a passare, dirigendosi verso l'Oriente.

LE CIVILTA' BARBARE: GLI UNNI

Lo studio degli Unni pone alcuni problemi ancora insoluti. Per esempio, la loro sede d'origine e il loro  ceppo etnico. Secondo una delle tesi più accettate, gli Unni arrivavano dalle steppe dell'odierno Turkestan. La forza militare, che si basava sulla cavalleria armata di arco e sull'organizzazione in orde mobili, consente loro di spingersi a Occidente. Nella seconda metà del IV secolo, condotti da Balamir, passano il Don sbaragliando Eruli e Ostrogoti e raggiungono la valle del Danubio. E qui le orde si disperdono. Un primo tentativo di riunire gli Unni avviene intorno al 425 per opera di Rua. Ma è solo con Attila, nipote di Rua, che le tribù situate tra il Danubio e il Volga si riorganizzano in una potente macchina da guerra. Attila dapprima sconfigge Teodosio II, infliggendo a Bisanzio un duro trattato di pace e un pesante tributo (477), poi si rivolge contro l'imperatore d'Occidente Valentiniano dal quale pretende un alto tributo e la sorella Onoria in sposa.
A quel punto la sontuosa capitale-accampamento di Attila nella piana pannonica diventa un centro politico e diplomatico come Roma o Costantinopoli. Le ricchezze si accumulano, si incrociano le ambascerie, vi si parla ogni sorta di lingue, dal latino al greco, al goto. Ma nel 450 i due imperi si accordano per non pagare più i tributi. Gli Unni, guerrieri dediti alla razzia, dilagano sino alla Loira. Ormani però si avvicina la battaglia finale, sta per sfaldarsi l'effimera confederazione di popoli di cui gli Unni - con la loro aristocrazia militare e l'invincibile cavalleria - rappresentano la minoranza egemone.

ATTILA MALVAGIO SOLO NELLA LEGGENDA
E' stato definito il "flagello di Dio", si è detto che dove passavano i suoi cavalieri non cresceva più l'erba. Alcune saghe germaniche lo vogliono assassinato dalla moglie Gudrun, implacabile vendicatrice dei familiari. Nei "Nibelunghi" Crimilde esorta Attila a sterminare i Burgundi per punire gli assassini del suo primo marito, Sigfrido. Ma la figura di Attila in questo poema è severa e dignitosa. Corneille e Werner trassero dalla storia di Attila altre due tragedie e Verdi un melodramma.
Ricondotta alle sue effettive proporzioni storiche, la figura di Attila si propone come quella di un politico abile, buon condottiero, certo anche uomo del suo tempo e quindi senza troppi scrupoli. Ben diverso, però, dal feroce barbaro della leggenda. Fu anche colto, duro ma non malvagio e capace di gesti generosi.

L'INCONTRO CON PAPA LEONE
Lo scontro frontale fra le forze romane al comando del generale Ezio e gli Unni avviene in Francia, ai Campi Catalaunici, presso Troyes, nel 451. Le sorti della battaglia restano a lungo incerte. Poi Attila si ritira, ma è ancora forte: le sue orde dilagano nell'Italia settentrionale e distruggono Aquileia. Giunto al Mincio, improvvisamente Attila, evita di proseguire verso sud. Perchè le epidemie gli stanno decimando le truppe? Perchè teme di trovarsi la strada sbarrata dall'imperatore d'Oriente, Marciano? Oppure la misteriosa decisione è frutto dell'incontro che Attila ha avuto sul Mincio con Papa Leone I? Certo il pontefice è andato incontro al terribile re unno: i due si sono parlati a lungo alla fine Attila si è ritirato. Morirà l'anno dopo sotto la sua tenda.

CRISTINA DI SVEZIA

Gli storici, i romanzi popolari, il cinema ce l'hanno tramandata in abiti maschili, giubbetto di cuoio e pantaloni aderenti, spada al fianco. Figlia di re Gustavo II, nata a Stoccolma nel 1626, Cristina ebbe fin dall'infanzia una strana educazione. Divenne presto una delle ragazze più colte del suo tempo, imparando otto lingue fra le quali il greco, il latino e l'italiano. Nello stesso tempo i precettori la trattarono come un giovanotto, non si sa bene se per volontà loro o dell'incontrollabile allieva. Aveva appena 6 anni quando il padre venne ucciso, e fino a diciotto si affidò a un Consiglio di reggenza, che mostrò di saper governare con buon successo. Infatti la giovane sovrana si avvalse del loro apporto anche nel periodo successivo.

Anche dal trono, tuttavia, Cristina continuò a mostrare una sconcertante personalità. Poco a poco si disinteressò degli affari di Stato, lasciandoli in mano a favoriti avidi e scarsamente capaci. Si mise in rapporto con scienziati, letterati e filosofi, fra i quali il francese Cartesio che la spinse al cattolicesimo: ma questa lodevole attitudine non le impedì di spendere cifre pazzesche, tanto da allarmare gli ambienti di Corte. Pareva stanca del potere e propensa piuttosto a divertirsi: così a 28 anni abdicò in favore del cugino Carlo Gustavo, e cominciò a girare per l'Europa.

Il seguito della sua vita è una curiosa alternanza fra serie aspirazioni contraddette da un'indomabile insofferenza, distacchi dalla politica attiva alternati con il desiderio di riavere una corona. Si fece subito cattolica, venne ricevuta a Roma dal papa Alessandro VII, chiese la protezione di Filippo IV di Spagna ribellandosi poco dopo e passando dalla parte dei francesi. Nel 1656 andò quindi a Parigi perchè l'aiutassero a diventare regina di Napoli, quattro anni più tardi tornò in Svezia dove Carlo Gustavo era appena morto. Sperava di potergli succedere, ma i circoli protestanti si opposero, vietandole anche di propangadare la fede cattolica. Riprese perciò i suoi inquieti viaggi, raccolse fondi per aiutare la Repubblica di Venezia contro i Turchi, tornò un'altra volta a Roma per farsi proteggere dal papa Clemente IX. Stavolta aspirava al trono di Polonia. Ma nessuno ormai più la voleva, nè i polacchi nè gli svedesi. Divenne così praticamente una cittadina romana, abbandonando la politica e dedicandosi a raccogliere splendidi libri e quadri nel suo ricco palazzo. Morendo lasciò, nel 1689, la sua biblioteca in Vaticano, e venne sepolta in San Pietro.

IL RIFIUTO DI SPOSARSI
Brillante, abile nel comando, Cristina era tuttavia egoista, instabile, disordinata. Un anno creava scuole importanti, ponendo le basi per un sistema moderno di istruzione. Un altro anno nominava decine e centinaia di conti, baroni, nobili vari assicurando a ciascuno un appannaggio e spendendo per questo somme insostenibili. A Stoccolma speravano che un matrimonio con qualche principie di buon senso riconducesse alla ragione la capricciosa sovrana, ma Cristina rifiutò sempre di sposarsi. Stanca di queste controversie, già nel 1651 la regina voleva abbandonare il trono. La convinsero provvisoriamente a restare, ma tre anni dopo sopravvenne l'abdicazione definitiva. Salvo pochi simpatizzanti, l'intera Svezia trasse un sospiro di sollievo.

I NIBELUNGHI

Autore: ignoto.
Lingua originale: tedesco
Data di uscita: verso il 1200
Genere: poema epico
Epoca storica: 473, corte di Worms, regno dei Burgundi.

LA TRAMA
I Nibelunghi sono un popolo di nani, che custodivano un favoloso tesoro. Uno di loro, Alberico, è anche in possesso di un cappuccio che rende invisibili. La loro sorte è segnata quando Sigfrido, mitico eroe dell'antica Germania, li affronta in guerra. Sigfrido è un principe, figlio del re di una prospera città chiamata Xanten. Oltre ad impadronirsi del tesoro e del cappuccio fatato, ha compiuto altre straordinarie imprese. Lottando contro il drago, e dopo averlo ucciso a colpi di spada, si è bagnato con il suo sangue diventando invulnerabile. Come Achille nel poema di Omero, egli ha però un punto debole. Dopo la lotta con la belva, una foglia di tiglio si è posata dietro una sua spalla, e il sangue non l'ha ricoperta. E' un segreto che nessuno conosce.

Il giovane principe ha sentito parlare di una bellissima nobile di nome Crimilde, sorella del re burgundo Gunther. Va a Worms, sulle rive del Reno, e annuncia di portare battaglia: sfida tutti i guerrieri e minaccia di prendersi tutto, terre e castelli. Gunther però lo rabbonisce. I due diventano amici e Sigfrido accompagna Gunther nel reame di Brunilde, formidabile donna che nessun uomo è mai riuscito a sconfiggere. La regina accoglie amabilmente i visitatori, non si scompone alla notizia che il sovrano burgundo la chiede in sposa. Tanti altri l'hanno fatto, uscendone distrutti. Se Gunther perderà nel duello, non saprà scagliare più lontano un enorme masso, non farà un salto più lungo, verrà messo a morte insieme alla sua scorta.

Gunther non avrebbe speranza alcuna se Sigfrido, invisibile grazie al cappuccio del nano Alberico, non lo aiutasse. Con grande suo stupore, Brunilde viene sconfitta. Deve sposare il burgundo, e con lui va a Worms dove, finalmente, anche Sigfrido può riunirsi a Crimilde. Per una decina d'anni le due coppie vivono felici nel loro regno: ma il destino incombe.

Al fianco di re Gunther c'è sempre stato Hagen, fiero e indomabile soldato che odia Sigfrido. Con un inganno si fa rivelare da Crimilde il punto in cui l'eroe può essere colpito e, dopo una battuta di caccia, lo uccide con un colpo di lancia al dorso. Un altro tranello gli consente poi di farsi consegnare dall'ingenua regina l'oro dei Nibelunghi, che nasconde sotto le acque del Reno. Ma Crimilde medita la vendetta. Accetta l'offerta di matrimonio del re unno Attila e invita tanto Gunther quanto Hagen. Sebbene tutti i presagi siano nefasti, i due partono. Dopo cruenti scontri, nei quali muoiono centinaia di guerrieri, Crimilde riesce a catturarli. Tronca la testa al fratello, impone ad Hagen di rivelare il nascondiglio del tesoro. Al rifiuto decapita anche lui, ma viene a sua volta uccisa da un vassallo. La grande tragedia tedesca si è conclusa.

I PROTAGONISTI
Sigfrido
Sigfrido ha tutte le virtù di un re guerriero, ma anche, ai nostri occhi moderni, imperdonabili difetti. Alla grandezza d'animo accompagna infatti una innegabile arroganza. Vuole essere primo in tutto, e lo è: ma poichè è convinto che nessuno possa ucciderlo, sa anche di non correre rischi. Ovvio comunque che nel grande libro dei Nibelunghi, ambientato in una Germania di fantasia, i valori siano quelli comunemente accettati nell'epoca medievale. Tutti sfidano tutti, il migliore è quello che stermina i nemici. E se qualcuno sa esercitare il perdono, alla fine, implacabile, si impone la vendetta.

Crimilde
E' una natura sdoppiata, tutta dolcezza in gioventù, mentre la morte di Sigfrido la trasforma in una donna pronta a qualunque crudeltà. Se dal fratello Gunther e da Hagen ha subito inganni, li ricambia allo stesso modo. E' anche pronta a mandare i suoi a morire, fuggendo tuttavia quando è lei a trovarsi in pericolo. Anche questo è un segno del suo tempo: la regina ordina, i sudditi eseguono senza discutere.

Hagen
Come Gano di Maganza, che fa uccidere il paladino Orlando, anche Hagen impersona il tradimento. E' vero però che questo forte guerriero si batte per le fortune del suo re contro quello che considera un estraneo. Malvagio, astuto, pieno di risorse, Hagen non trema quando capisce che il destino gli è avverso. Muore impavido sotto la spada di Crimilde, rifiutandosi di rivelarle il nascondiglio del tesoro, che rimarrà sepolto per sempre sul fondo del Reno.

Brunilde
Anche questa regina nordica, sebbene in modo diverso, è rosa dall'invidia e dal rancore. Credeva che Sigfrido fosse un semplice scudiero del re burgundo, e quando Gunther gli concede in moglie la sorella si sente umiliata. E' colta poi da furore quando, al termine di una lite. Crimilde le spiattella che è stato Sigfrido a batteria. Di tutto ciò Brunilde si lamenta amaramente con Gunther: ed è a questo punto che comincia a maturare la manovra di Hagen.

 

LE GRANDI CIVILTA': AZTECHI E MAYA

Le tribù nomadi di cacciatori degli Aztechi, il cui nome deriva forse dal loro mitico Paese d'origine Aztlan (Terra degli aironi), secondo alcuni storici l'attuale California, verso il 1300 d.C., scendendo dal Nord, occuparono alcune terre nella valle del Messico. Da quel momento la loro espansione continuò ininterrottamente per circa due secoli, tanto che nel 1519 dominavano su un vasto impero che andava da un oceano all'altro con 15 milioni di sudditi e che aveva per capitale Tenochtitlan (Roccia del Cactus), su cui oggi sorge Città del Messico.

L'abito fa il nobile
Gli Aztechi furono soprattutto un popolo di guerrieri, governato da un re, assistito da un consiglio di 4 funzionari e dai sacerdoti. Le classi sociali si distinguevano dagli abiti, dalla qualità del tessuto, dal colore e dalla preziosità delle rifiniture. Le penne colorate erano apprezzate più dell'oro. Il copricapo regale di Montezuma, il più famoso dei re aztechi, conservato attualmente in un museo austriaco, tutto di pietre preziose e piume di quetzal (un uccello diffuso soprattutto in Guatemale, dal piumaggio verde-oro) è un eccezionale documento dell'arte azteca di lavorare le piume. La giustizia era amministrata dalla Donna Serpente, che in realtà era un uomo. Non c'erano prigioni: i ladri, ad esempio, dovevano restituire per punizione il doppio di quello che avevano rubato. I nobili erano puniti con più severità della gente comune: se si ubriacavano o rubavano, venivano condannati a morte immediatamente, senza processo.

Gli uomini dello stretto
Si conosce poco dell'origine dei Maya, forse giunti in America dall'Asia nord-orientale attraverso lo Stretto di Bering e poi progressivamente spinti verso Sud dall'arrivo di altre popolazioni di razza asiatica. Tra il 2000 a.C. e il III secolo d.C. essi si insediarono nelle zone attualmente occupate dal Messico meridionale, dal Guatemala, dall'Honduras, dal Salvador e successivamente nella penisola dello Yucatan. Intorno al III secolo i Maya costituirono un impero diviso in città-stato, ma unito dalla stessa lingua e dalla stessa cultura. Dal 300 al 900 circa si colloca l'Antico Impero, il periodo più splendido, e dal 900 al 1690 il Nuovo Impero, detto "periodo Maya-Tolteco", limitato allo Yucatan. In realtà la civiltà Maya incomincia a decadere già intorno al 1450, quando guerre tra piccoli stati rivali, catastrofi (uragani nel 1467) ed epidemie (febbre gialla nel 1482), spopolano e distruggono città e regioni. Quando, nel 1527, arrivano gli spagnoli, la vera civiltà maya è già finita.

Nè metalli nè ruota
I Maya non conobbero mai l'uso dei metalli, nè della ruota e non ebbero animali da tiro. Trasportavano le merci preferibilmente via acqua con grandi canoe, scavate in tronchi di cedro, lunghe anche 25 metri, con 25/40 rematori. Il mais era il prodotto più coltivato. I semi di cacao erano la moneta corrente. Uno schiavo, ad esempio, costava 100 semi. Erano abilissimi tessitori, ceramisti, architetti e studiosi di astronomia, astrologia e matematica; si servivano di un calendario basato sull'anno solare di 365 giorni e avevano una scrittura di tipo ideografico.

Piramidi maestose
I Maya erano politeisti e adoravano divinità contrapposte, benefiche e malefiche. Il loro libro sacro era il Popol Vuh. Gli dèi erano chiamati Signori o Padroni e presiedevano a ogni attività umana. I più noti erano il serpente a due teste e il giaguaro. I contadini, poi, la classe più misera, adoravano anche divinità particolari: i Balamas, protettori delle foreste; i Chaac, signori delle piogge. I sacerdoti, data l'importanza della religione nella vita quotidiana a ogni livello, erano la casta più venerata ed obbedita. I templi Maya, a forma di piramide con terrazze sovrapposte, ricordano le piramidi egizie, ma sono ancora più maestosi.

ISABELLA DI CASTIGLIA

I memorialisti della sua epoca, la fine del '400, la descrivono piccoletta, un pò rotonda, i capelli biondo miele, gli occhi chiari come la pelle: un tipo, insomma, non troppo spagnolo. Ma quella della regina Isabella è una fragilità solo apparente. Ha una solidità plebea, una naturale disposizione al comando. Fin da ragazza, d'altronde, ha imparato a battersi. Nata nel 1451, ha appena 17 anni quando le muore un fratello maschio e c'è chi protesta quando tocca a lei il titolo ereditario. Anche il matrimonio con Giovanni II d'Aragona, avvenuto l'anno seguente, trova ostile una parte della nobiltà. Si fanno avanti vari pretendenti e, quando Isabella nel 1474 si fa proclamare regina della sua Castiglia, scoppia la guerra civile. Dovranno passare altri cinque anni, con battaglie e firme di trattati, prima che termini la dissidenza.

In questo periodo si ha un altro evento di grande importanza. Il marito di Isabella diviene a sua volta re di Aragona: e sebbene formalmente le due corone restino divise, e i sovrani regnino separatamente, di fatto si assiste alla riunificazione della Spagna. E quelli che vengono definiti i "re cattolici" intraprendono le spedizioni decisive contro il lungo dominio dei Mori nella penisola iberica.

La Spagna viene liberata dai musulmani nel 1492. E' lo stesso anno in cui Colombo scopre l'America, altro fondamentale avvenimento di cui Isabella è protagonista. E' anzi il ritorno della pace che convince la regina a finanziare la spedizione oceanica del grande navigatore. Granada, la splendida città moresca, cade nel mese di gennaio. Colombo lascia il porto di Palos ai primi di agosto. In ottobre le sue caravelle raggiungono le coste del nuovo continente. E' l'intera storia del mondo che sta cambiando.

I primi passi verso la fondazione in America di un vastissimo impero coloniale rafforzano l'immagine di Isabella, i cui ultimi anni vengono funestati da numerosi lutti. Due figli, un maschio e una femmina, le muoiono insieme a un nipote. Un'altra figlia, Giovanna, diventa pazza: e quando nel 1504 la regina muore, poco più che cinquantenne, è re Ferdinando che assume la reggenza. Ma sarà il figlioletto di Giovanna a dare al suo Paese il massimo splendore: Carlo V, l'imperatore cui si attribuisce la famosa frase: "Sopra i miei domini il sole non tramonta mai".

IL VIAGGIO DI COLOMBO
Cade Granada, la Spagna è libera dai Mori, la regina fa richiamare Colombo. La trattativa, che coinvolge nuovamente scienziati, teologi, religiosi di vario prestigio, va avanti con fatica. A convincere Isabella è un sacerdote, padre Perez, che le manda una lettera il cui contenuto è rimasto segreto. A un certo punto è lo stesso Colombo che crea nuove difficoltà, chiedendo i titoli di ammiraglio e i poteri di vicerè nelle terre che verranno scoperte. La regina esita ma i suoi consiglieri insistono: o Colombo fallisce, e allora non avrà nessun riconoscimento; oppure riesce, e allora i suoi privilegi se li sarà guadagnati. Alla fine un uomo di affari aragonese, Santangel, finanzia il viaggio. Vuole la leggenda che Isabella, come garanzia, abbia impegnato addirittura i propri gioielli: ma è un'invenzione. Alla regina bastava un cenno, e i suoi ordini venivano eseguiti.

Nel loro primo incontro, anno 1486, Isabella e Cristoforo Colombo hanno la medesima età, 35 anni. Il genovese, psicologo e grande conversatore, sa che la regina ama l'arte e la poesia, è in grado di ascoltare idee che ad altri sembrano fantastiche. E tale infatti viene giudicata dagli scienziati spagnoli la sua proposta di raggiungere le Indie per via di mare, facendo il giro della terra. Isabella resta affascinata, ma ha altri e più gravi pensieri: la guerra contro i musulmani, le grandi spese militari che svuotano le casse dello Stato. Perciò passano anni senza che si parli più della favolosa spedizione. Colombo, amareggiato e deluso, non ha quasi più speranze.

1883: L'ERUZIONE DI KRAKATOA

Krakatoa (o Rakata) era, ed p, un'isoletta disabitata nello stretto della Sonda, fra le grandi isole di Giava e di Sumatra. Nell'isola c'erano tre vulcani. Parevano tuttavia tranquilli; dall'ultima volta che la terra aveva tremato erano trascorsi un paio di secoli. Poi, improvviso, il risveglio.

Le prime avvisaglie si ebbero nella primavera del 1883. Dalle città  della costa giavanese, distanti una cinquantina di chilometri, si sentivano dei tuoni e si vide un pennaccio di fumo, salito in poche ore oltre i diecimila metri. Il boato aumentava, lo sentirono in serata a Singapore, lontana quasi 800 chilometri. Ceneri e frammenti di pomice cadevano su Giava e Sumatra, coprendo le spiagge come una nevicata. L'eruzione si protrasse per una settimana, poi si quietò. La gente smise di preoccuparsi. Alcune spedizioni scientifiche furono mandate a Krakatoa dagli olandesi, che controllavano tutte le isole dell'arcipelago: trovarono solo qualche palma bruciacchiata. Tutto il resto era scomparso sotto la pioggia di pomice. Ma poichè nell'isola non c'erano abitanti, nessuno se ne preoccupò troppo.

La pausa fu però breve. Verso metà agosto i tre crateri ripresero a rumoreggiare. Nelle isole maggiori si udirono nuove esplosioni, la gente si riversò sulla costa per assistere allo spettacolo. Per molti fu la fine. Il 26 agosto, con un lampo di terrificante luminosità accompagnato da esplosioni e da scosse di terremoto, il Perbuatan riprese la sua attività. L'eruzione durò due giorni di seguito, con effetti catastrofici. Gli scoppi si erano ormai trasformati in un rombo continuo; a Giava e Sumatra la gente non riusciva a ripararsi dalle ceneri e dagli incendi. Molti corsero verso i porti per imbarcarsi sulle navi, ma un'altra tremenda sorpresa li attendeva. Il mare si alzava e riabbassava di quasi quattro metri ogni quarto d'ora, spaccando le imbarcazioni. La folla si gettò quindi verso le colline.

Il peggio doveva ancora venire. L'eruzione stava svuotando il vulcano, le cime più alte si appoggiavano su strati di roccia sempre meno consistenti. Da un momento all'altro queste fragili pareti crollarono, mentre il vulcano si ripiegava su se stesso. Un nuovo scoppio, più pauroso ancora degli altri, scatenò un'ondata che in pochi minuti raggiunse la costa. La città di Anjer, a Giava, venne investita da una muraglia di acqua alta più di dieci metri, che penetrò nell'interno per 4 chilometri. Nei dintorni furono sommersi villaggi interi, nessuno trovò scampo. Per un inspiegabile fenomeno, un'ondata non meno violenta aveva invaso le coste di Sumatra già prima dell'esplosione finale. Anche là lutti e distruzioni.

Ma non era ancora finita. Dopo la sprofondamento del vulcano, una nuova ondata alta sessanta metri completò la devastazione. Chi era scampato alla prima marea d'acqua non trovò più scampo. Tutte le coste dello stretto, già verdi e piene di coltivazioni, si trasformarono in una distesa fangosa, che si estendeva per chilometri verso l'interno. I morti furono almeno 35 mila, ma c'è chi parla di 75 mila. Si dovettero scavare in gran fretta delle fosse per bruciare i cadaveri. Gli olandesi, che avevano un'amministrazione efficiente, mandarono subito dei soccorsi: ma in pratica c'era da ricostruire tanto. E lontano, sul mare, il vulcano continuava a mandare lampi e boati. Poi si placò. Due terzi dell'isola Krakatoa non esistevano più. La gente, sotto la nube di cenere che non andava via, ricominciò a lavorare. Le ceneri che erano state lanciate in alto, furono trasportate dai venti a grandissime distanze. L'area da loro ricoperta era di circa 4 milioni di chilometri quadrati. Le ceneri più fini, si disse, fecero 3 volte il giro della Terra, schermando sensibilmente le radiazioni solari.

1864: NASCITA DELLA CROCE ROSSA

Pochi lo sanno, ma c'è un influsso italiano nella nascita della Croce Rossa internazionale. E non solo per il fatto che il nostro Paese ne sia stato tra i fondatori. A creare il clima indispensabile per la grande impresa umanitaria furono due eccezionali personaggi, l'inglese Florence Nightingale e lo svizzero Jean-Henry Dunant. La prima, di famiglia ricchissima, era nata a Firenze: di qui il suo nome (il cognome poi significava usignolo). Il secondo, un letterato e filantropo che si meritò nel 1901 il premio Nobel per la pace, si sentì indotto ad agire dopo la tremenda battaglia di Solferino, combattuta nel 1859 da piemontesi e francesi contro gli austriaci. Fra morti e feriti gravi, erano rimasti sul suolo lombardo ben 40 mila soldati, senza che per i mutilati e i moribondi ci fosse la minima assistenza. Fu lo stesso Dunant a organizzare sul posto i primi soccorsi. L'impulso decisivo venne però da un suo libro, Ricordi di Soferino, stampato nel 1862. L'emozione nel mondo fu enorme e due anni dopo, a Ginevra, dodici nazioni decidevano di dar vita appunto alla Croce Rossa.
Certo, nella fantasia popolare, la figura della Nightingale conserva la maggiore suggestione. Ad appena 17 anni, nel 1837, aveva sentito nascere in sè una vocazione religiosa. Sette anni più tardi la decisione: sarebbe diventata una "nurse", un'infermiera. Lo scandalo in famiglia fu enorme. Erano tempi nei quali le infermiere stavano ai gradini più bassi della scala sociale. Respinta dai suoi, Florence visse anni di miseria e frustrazione. Sebbene si tenesse in contatto, per posta, con i responsabili sanitari di diversi Paesi, la sua crescente esperienza restava sprecata.
Come per Dunant, anche per la coraggiosa inglese l'occasione venne da una guerra: Crimea 1854. Le stampe dell'epoca mostravano Florence in giro fra le tende insaguinate, reggendo una candela: fioca luce nella notte, che divenne il suo simbolo. Ma non c'era solo da commuoversi. Grazie all'azione di Florence e delle sue compagne, la mortalità fra i combattenti scese dal 45 al 20 per cento. Un risultato che, al ritorno in patria, le valse l'omaggio dell'intera nazione.
Stranamente, invece di proseguire l'attività concreta, la Nightingale si ritirò a vita privata, limitandosi a consigli tecnici durante il conflitto indiano e la guerra di secessione in America. Quando morì, a novant'anni, tutti rimasero stupiti: erano convinti che fosse scomparsa già da molti decenni. Comunque Florence fu soltanto un'ispiratrice indiretta della Croce Rossa. Certo, diede vita al corpo delle infermiere volontarie: ma senza lo svizzero Dunant, il cammino umanitario si sarebbe fermato a metà.
Vista l'eco del suo libro sulla tragedia di Solferino, non fu difficile a Dunant formare nel 1863 un primo Comitato, che l'anno seguente si trasformò a Ginevra in una conferenza comprendente dodici Governi (fra i quali quello italiano). Venne adottata come emblema una croce rossa in un campo bianco, mentre il programma dell'organizzazione prevedeva essenzialmente l'indipendenza dei vari Stati, la neutralità in guerra, l'assistenza ai combattenti e alle popolazioni colpite. Azione poi estesa ai disastri naturali, come terremoti e alluvioni.
Ancor oggi, quando si parla della "Convenzione di Ginevra" che protegge gli sconfitti e i prigionieri, ci si deve ricordare di quella data: 8 agosto 1864, Dunant che apre la grande conferenza in riva al lago.

ELISABETTA D'INGHILTERRA

Una gioventù trascorsa fra sangue e intrighi, sempre con il rischio di essere assassinata. Un lungo periodo di regno, ben 45 anni, in splendida solitudine, rifiutando di sposarsi, vigilando implacabilmente contro la minaccia di sommosse e attentati. Un clima tragico segna la grande Elisabetta fin dalla primissima infanzia. Ha poco più di 2 anni quando sua madre, Anna Bolena, viene fatta giustiziare dal marito Enrico VIII, l'uomo della rottura con la Chiesa cattolica. L'accusa di infedeltà rivolta alla sfortunata regina si ripercuote sulla figlioletta, che il padre ripudia come illegittima.

Elisabetta vede morire i suoi amici, accusati di tradimenti vari, e si isola negli studi. Impara il latino, l'italiano, il greco e il francese. Diventa un'abile musicista. Questa vita ritirata non impedisce alla sorella Maria Tudor, incoronata nel 1553, di farla rinchiudere nella Torre di Londra. Solo quando muore Maria, nel 1558, Elisabetta torna libera. Il trono è suo. Comincia un periodo nuovo, che porterà la nazione inglese alle maggiori fortune.

Elisabetta, cattolica in gioventù, cerca inizialmente una difficile mediazione fra la sua antica fede e gli interessi della Chiesa anglicana. In breve però la questione diventa politica, e la regina fa prevalere i diritti dello Stato su quelli religiosi: o meglio, esercita uno stretto controllo sul clero anglicano, perseguitando i cattolici, i calvinisti e in genere i cittadini che si dissociano. Questa azione le procura l'inimicizia di un potentissimo re cattolico, Filippo II di Spagna, e di Maria Stuarda, che ha ereditato la corona di Scozia e rivendica anche quella inglese.

Sono anni di eventi tragici e grandiosi. Filippo organizza l'Invencibile Armada, una flotta di 140 navi con 2500 cannoni e 20 mila soldati, con la quale progetta di invadere l'Inghilterra. Una tremenda tempesta e l'abilità dei marinai avversari provocano però alla Spagna una totale sconfitta. Anche la sorte di Maria Stuarda è segnata. Dapprima viene tenuta prigioniera, pur con molti riguardi. Ma quando un suo fedele tenta di uccidere Elisabetta, la regina la fa decapitare.

Lo scontro con la Spagna si estende frattanto ad altri continenti. Sugli oceani, pirati e corsari famosi al soldo di Londra, primo fra tutti il famoso Francis Drake, abbordano le navi e conquistano possedimenti nemici Si comincia a delineare quello che diventerà l'impero britannico. Quando muore, a 70 anni, nel 1603, Elisabetta è la sovrana più potente del mondo.

Si dà per certo che Elisabetta, pur senza mai sposarsi, si innamorò profondamente di un altro suo favorito, il conte di Essex. La regina era però in età già avanzata, il rapporto era tempestoso. Essex, uomo di grande fascino, fu per molti anni consigliere della sua sovrana: e nel 1599 - Elisabetta aveva ormai 66 anni - tentò senza successo di portare sotto la corona inglese la cattolica Irlanda. Poco più tardi questo irrequieto e ambizioso personaggio si mise a capo di una rivolta. Elisabetta lo smascherò e, angosciata ma inflessibile, lo fece giustiziare.